1. I compleanni sono date da fissare sul calendario, come sanno i fiorai, i venditori di cioccolatini e gli sviluppatori di applicazioni web promemoria. Raramente tuttavia l’evento è tale da suscitare attenzione oltre la stretta cerchia del festeggiato, a meno che questi non sia il re, la regina o… Piercamillo Davigo. Ora, essendo il nostro un ordinamento repubblicano, le prime due ipotesi non interessano. Interessa, invece e molto a quanto pare, la terza se è vero che, da mesi, giornali, televisione ma anche Riviste specialistiche si preparano all’appuntamento del 20 ottobre, giorno del settantesimo compleanno del giudice e quindi, secondo quanto dispone l’art. 1, c. 3 del d.l. 90/2014, convertito in l. n. 114/2014, del suo pensionamento come magistrato e, secondo alcuni, della conseguente decadenza dal Consiglio Superiore della Magistratura.
Tralasciando gli articoli e gli argomenti “ad hominem”, che – dal punto di vista logico – contano quanto un pugno battuto sul tavolo, vale la pena soffermarsi su quelli che, al di là dei toni talora accesi, offrono spunti non solo per una più convincente soluzione del caso concreto ma anche, per così dire, “di sistema” circa il “ruolo” e le funzioni attribuite al C.S.M., temi questi che non solo lo studioso ma anche il «riformatore avveduto»[1] dovrebbe tenere ben presenti, specie a fronte della crisi – forse la più profonda dalla sua istituzione – che il Consiglio sta attraversando a seguito delle note vicende che hanno coinvolto alcuni esponenti politici e alcuni magistrati, anche membri del C.S.M.
«Davvero si pensa che Piercamillo Davigo possa rimanere in carica al Consiglio Superiore anche quando non sarà più magistrato?» si è chiesto, un ex componente del Consiglio Superiore, avvertendo che un tale convincimento «si porrebbe in netto contrasto con la legalità e la funzionalità dell’organo e con le esigenze di rappresentatività e di legittimazione che devono caratterizzare l’attività del Consiglio Superiore e in particolare modo della Sezione disciplinare»[2].
Certo, anche a prendere per buone quelle preoccupazioni, si potrebbe facilmente obiettare, secondo l’ammonimento evangelico (Lc 6, 39-45), che nella situazione data, altri sono i problemi che mettono a repentaglio la credibilità e la legittimazione dell’organo e tuttavia non è questo il momento per liquidare apoditticamente l’una o l’altra tesi, non fosse che perché tutte suscettibili di ricadute sulla collocazione costituzionale del Consiglio e comunque dipendenti da un certo modo di intendere lo stesso: organo di autogoverno, come si dice con formula ambigua[3] o organo di garanzia e, se questa è la domanda, occorre ragionare, per quanto possibile, con mente scevra da ogni posizione preconcetta: cosa ovvia e appunto per questo non andrebbe detta, se non fosse che, in questa vicenda, anche le ovvietà sono continuamente rimesse in discussione.
2. Partiamo dal dato normativo ed innanzitutto, trattandosi di un organo costituzionale o quantomeno di un organo di rilevanza o di rilievo costituzionale[4], dalla disciplina prevista dall’art. 104 della Costituzione, che sul punto recita testualmente «i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili».
Ora, è evidente che con questa formula la Costituzione fissa la durata dell’intero Consiglio, per il quale ogni quattro anni sono indette le elezioni ma, se le parole hanno un senso, il fatto che il testo faccia riferimento a «i membri elettivi» dice chiaramente – e in claris non fit interpretatio – che è il Consiglio composto da quegli eletti che, salvi i previsti casi di decadenza o di cessazione, dura in carica quattro anni. Il testo non distingue, infatti, fra membri “laici” e membri “togati”: per tutti, il mandato dura quattro anni, rimanendo esclusi da questa previsione solo i membri di diritto (Presidente della Repubblica, primo presidente della Corte di Cassazione, procuratore generale della Corte stessa), che durano in carica per il tempo in cui permane il titolo di appartenenza al Consiglio.
Peraltro, l’interpretazione letterale trova conforto in quella storico-soggettiva. A leggere i lavori preparatori si scopre subito, infatti, come le questioni attinenti all’eleggibilità, alle incompatibilità e alle decadenze siano state oggetto di intenso dibattito, all’esito del quale i Costituenti hanno ritenuto di fissare in Costituzione i punti evidentemente irrinunciabili (fra i quali la distinzione tra membri di diritto e membri elettivi di cui sopra), rimettendo alla legge sull’ordinamento giudiziario la risoluzione di alcune questioni che erano state sollevate in Assemblea: su un'equa suddivisione dei rappresentanti tra le varie categorie di magistrati; sul grado minimo richiesto per la candidatura al Consiglio; su eventuali criteri di distribuzione territoriale delle rappresentanze; etc., per escludere con apposita votazione, l’eleggibilità al Consiglio dei magistrati a riposo, tanto per i due terzi riservati all'ordine giudiziario, quanto per il restante terzo eleggibile dal Parlamento (A. C., p. 2479).
Un’ulteriore conferma sembra rinvenirsi nel comma successivo, a tenore del quale, gli stessi membri elettivi, anche qui senza distinzione fra laici e togati, «non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale». Salvo pensare a una clamorosa svista, è evidente che tale divieto acquista significato, per i consiglieri togati, solo nell’ipotesi che qui interessa, ovvero qualora sia cessata l’appartenenza del magistrato all'ordine giudiziario, risultando altrimenti del tutto superflua, dal momento che per i magistrati “in servizio” l’incompatibilità è già stabilita in via generale.
Insomma, la Costituzione (e i lavori preparatori) parla(no) chiaro: il “collocamento a riposo” del magistrato comporta la sua “radicale” ineleggibilità al Consiglio ma solo per i membri di diritto esso è causa di decadenza (com’è ovvio, dal momento che, per essi, il “ruolo” costituisce “il” titolo di appartenenza al Consiglio) mentre non rileva, a questo fine, la distinzione fra membri togati e membri laici.
Come vedremo, le letture volte a estendere tale causa di decadenza anche ai togati elettivi poggiano tutte su non meglio precisate ragioni di “opportunità istituzionale” e sulla concezione del CSM come organo rappresentativo della magistratura, una sorta di “parlamentino” dei giudici - come anche si sente dire - o di sindacato, idea che non trova fondamento nella Costituzione e finisce per svilire il ruolo di garanzia ad esso attribuito che ne giustifica il rilievo costituzionale.
Per la verità, qualcuno un aggancio testuale in Costituzione sembrerebbe averlo trovato. Non nel titolo IV naturalmente, dove come si è detto, il dato letterale e la voluntas del legislatore escludono la decadenza, ma in una lettura, per così dire sistematica, della disciplina degli organi di garanzia. Il raffronto con la Consulta, spiega un Presidente emerito della Corte[5], «ci dimostra quanto sia improponibile l’ipotesi che un consigliere togato del Csm resti in carica come tale anche dopo che sia andato in quiescenza come magistrato … in tal caso, è esplicitamente previsto all’articolo 135 che il mandato dei giudici è di nove anni “per ciascuno di essi”. Non si parla di durata della Corte, di un suo determinato collegio, ma della permanenza del singolo componente». Di più, continua, «penso alla norma costituzionale che regola la rieleggibilità del presidente della Consulta. La carica ha una durata triennale. Poi può essere rinnovata per tre anni ancora. Ma a condizione che quel presidente della Corte si trovi, al momento della rielezione, ancora in carica come giudice costituzionale, ossia a condizione che non siano ancora trascorsi i nove anni di durata del mandato. Ancora: se trascorsi i primi tre anni si è rieletti al vertice della Consulta, si decade da presidente non appena scade il mandato di giudice, anche se il secondo triennio non è stato completato. Cosa vuol dire? Che la carica successiva, l’elezione a presidente, è sempre indissolubilmente subordinata alla condizione che ne è il presupposto: lo status di giudice costituzionale».
Ora, premesso che fra i componenti della Corte costituzionale non vi sono membri di diritto – il che basterebbe da solo a chiudere ogni possibilità di raffronto dal momento che la distinzione fra questi e quelli elettivi è invece determinante nella composizione del Consiglio Superiore anche al fine che qui interessa -, quanto alla norma sulla (ri)eleggibilità del Presidente della Consulta, risulta evidente che questa presupponga lo status di giudice – costituzionale si badi – cioè di componente dell’organo, non fosse che perché lo stesso art. 135 lo esige, sicché – altrettanto ovviamente – si decade da Presidente (non importa se si tratti del primo triennio o dell’eventuale secondo) non appena scade il mandato quale componente dell’organo … altra cosa rispetto al tema di cui si discute!
Apparentemente più sottile l’argomento “ubi lex…”, che fa leva sull’esplicito riferimento a ciascun giudice della durata del mandato: un singolare, si osserva, non un plurale (membri elettivi) come nel caso dell’art. 104. La tesi non convince. Certo, non vi è dubbio che nell’art. 135 la durata del mandato sia riferita al singolo ma altrettanto indubbio è che nell’art. 104 la durata del mandato dei membri elettivi sia fissata in quattro anni ma – attenzione - per tutti e quindi per ciascuno di essi, posto che il tutti ricomprende i singoli, con esclusione – si ripete - dei soli componenti di diritto.
A ragionare diversamente – per far dire alla Costituzione ciò che essa non dice – si potrebbe sostenere allora che poiché, secondo l’art. 135, «i giudici della Corte costituzionale sono scelti fra i magistrati anche a riposo» lo stesso debba valere anche per il C.S.M., dal momento che l’art. 104 non lo esclude ma sarebbe - è appena il caso di dire - un modo assai strano di argomentare in diritto.
La verità è che la disciplina della composizione dei due organi si lega – e non può essere diversamente – alle funzioni e al ruolo assegnati, sicché conviene stare ai dati (normativi) e alla rigorosa applicazione dei criteri di interpretazione.
3. Come accennato, scientemente, l'Assemblea costituente decise di rimettere alla legge sull’ordinamento giudiziario le modalità relative alla elezione dei due terzi del membri del Consiglio superiore da parte dei magistrati. Fu infatti votato l'inciso «secondo le norme dell'ordinamento giudiziario», ritenuto implicito e quindi superfluo nel coordinamento finale, che per questo lo soppresse.
La risoluzione di molte – non di tutte, come si è visto - questioni rimane pertanto affidata alla legge sull'ordinamento giudiziario la quale tuttavia essendo una legge non può che essere subordinata alla Costituzione e interpretata in senso costituzionalmente orientato.
Forse per questo molti degli interventi recenti sul tema vanno dritti alla legge, superando di slancio la Carta come se questa non esistesse o parlasse invano[6].
Peraltro, una cosa è certa e cioè che la legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla Costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura) nel testo in vigore, modificato da ultimo dalla legge 28 marzo 2002, n. 44, disciplina l’elettorato passivo prevedendo, tra l’altro, che «non sono eleggibili i magistrati che al momento della convocazione delle elezioni non esercitino funzioni giudiziarie…» (art. 24, comma 2, lett.a). Non solo: secondo la legge, l’elezione da parte dei magistrati ordinari dei sedici componenti togati del CSM si effettua in collegi unici nazionali diversi per magistrati «che esercitano le funzioni» di legittimità, di pubblico ministero e di giudice presso gli uffici di merito (art. 23).
Fin qui, nulla quaestio. Non vi è dubbio, infatti, che il possesso – effettivo ed attuale – dello status di magistrato nell’esercizio delle funzioni sia una condizione di eleggibilità o, se si preferisce un requisito indefettibile per la capacità elettorale passiva e ciò in coerenza con l’art. 104 della carta costituzionale, che prevede l’elezione di due terzi dei componenti del Consiglio Superiore da parte di tutti i magistrati ordinari «tra gli appartenenti alle varie categorie».
In nessun modo è dato tuttavia ricavare dal requisito di eleggibilità una decadenza non prevista dalla legge istitutiva del Consiglio Superiore né tantomeno dalla Costituzione che, anzi, per quanto detto sopra, espressamente la esclude.
D’altra parte, se si guarda alla disciplina della decadenza, contenuta nell’art. 37 della legge n. 195 del 24 marzo 1958, che prevede anche i casi di sospensione dalla carica di componente del Consiglio, è facile constatare che le ipotesi elencate non contemplano il congedo del magistrato.
Il primo caso riguarda, indistintamente, tutti i componenti del CSM i quali «decadono di diritto dalla carica se sono condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo».
Il secondo si riferisce esclusivamente ai «magistrati componenti il Consiglio Superiore», i quali «incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento».
Infine, il terzo, ha riguardo ai soli componenti eletti dal Parlamento, per i quali «nei casi di proscioglimento per una causa estintiva del reato, ovvero per impromovibilità o imperseguibilità dell'azione penale» il Presidente del Consiglio superiore dà comunicazione ai Presidenti delle due Camere, le quali decidono se debba farsi luogo a sostituzione.
«Nessun esplicito riferimento è fatto al caso in cui il componente togato eletto al Consiglio superiore cessi dalla sua funzione di magistrato, per qualsiasi causa, sia essa determinata dalle dimissioni volontarie, o per raggiunti limiti di età, con il conseguente collocamento in stato di quiescenza»[7], eppure, si fa notare «questa eventualità, lungi dal non essere elencata dall’art. 37 nelle cause di decadenza perché improduttiva di tali effetti, pare piuttosto non espressamente nominata perché l’appartenenza al corpo della magistratura costituisce il presupposto indefettibile, o se si preferisce una precondizione, per continuare ad esercitare le proprie funzioni di rappresentanza in seno al Consiglio superiore»[8]…pare, ma non è: la Costituzione lo esclude e, a guardar bene, poiché le parole tradiscono il pensiero e tanto più lo tradiscono le parole scritte, quando si scrive di «appartenenza al corpo della magistratura» quale presupposto indefettibile per continuare a far parte del Consiglio Superiore, si ha in mente – evidentemente – un organo rappresentativo della corporazione dei magistrati: proprio quello che la Costituzione non vuole.
Né convince l’osservazione per cui «il dato della "appartenenza" ad una particolare categoria di magistrati in servizio (…) ritorna nella vita quotidiana dell’organo di governo autonomo proiettandosi nell’operatività della sua più delicata articolazione: la Sezione disciplinare» [9] come proverebbe il fatto che l’art. 6 della stessa legge n. 195 del 1958 e succ. modif., nel regolare le sostituzioni in seno al collegio disciplinare stabilisca che «i componenti effettivi magistrati sono sostituiti dai supplenti della medesima categoria» e che «sulla ricusazione di un componente della sezione disciplinare, decide la stessa sezione, previa sostituzione del componente ricusato con il supplente corrispondente». Anche questo argomento non sembra utile ai fini che intende perseguire ovvero enucleare una causa di decadenza non prevista, per giunta in spregio al dettato costituzionale. Quelle disposizioni si limitano - e non si vede la possibilità di interpretazione estensiva o, peggio, creativa – ad affermare che qualora debba essere sostituito un componente togato il supplente debba essere individuato fra coloro che sono stati eletti sulla base degli stessi requisiti il che è precisamente quel che accade (rectius: dovrebbe accadere) in ogni organo collegiale all’interno del quale siedano soggetti eletti o nominati sulla base dell’appartenenza a un gruppo: niente di più e niente di meno.
Del tutto fuorviante poi l’osservazione per cui la norma costituzionale (art. 104, comma 6, Cost.) che fissa la durata quadriennale dell’organo elettivo non serve a «far nascere un diritto soggettivo dell’eletto di rimanere in carica per un quadriennio. È questa la risposta che è stata costantemente e giustamente data a quanti - subentrati in Consiglio nell’arco della consiliatura – hanno avanzato la pretesa di prolungare la loro permanenza in carica sino al raggiungimento del quadriennio»[10]. Si tratta di un argomento suggestivo ma che non ha niente a che vedere con il caso di specie, dove non si fa questione di diritti o pretese di permanenza in carica a prescindere dalla durata dell’organo o di subentri nell’arco della consiliatura, ma, al contrario, della durata in carica dell’organo come legittimamente risultante dalle elezioni e, dunque, come espressamente recita il testo, della durata in carica dei suoi «membri elettivi».
4. Non vale la pena seguire gli argomenti volti a dimostrare come la questione della (eventualmente il)legittima composizione dell’organo C.S.M. e, in particolare, della sezione disciplinare possa riflettersi negativamente anche in relazione a casi particolarmente “caldi”, come quello che vede coinvolto l’ex consigliere, nonché ex Presidente dell’A.N.M., Luca Palamara: si rischia di non arrivare a sentenza prima del 20 ottobre avverte qualcuno[11] o, peggio, si rischia di comprimere il diritto alla difesa dell’imputato e il diritto all’informazione si lamentano altri[12]. Al riguardo ha detto parole definitive il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione: «qualora la decisione del Csm incida sulla legittima qualità di giudice di un componente, chiederemo la rinnovazione degli atti compiuti. È ciò che avviene normalmente tutti i giorni nelle aule dei tribunali: se un giudice va in pensione, si cerca di fissare quante più udienze possibile, chiedendo la collaborazione delle parti, per evidenti esigenze di concentrazione del giudizio. Se poi l’esigenza di accertamento della responsabilità, in ogni suo aspetto, richiede invece tempi più lunghi, è questa esigenza che prevale e si potranno rinnovare le prove che il nuovo giudice riterrà necessarie»[13] e tanto basta.
Importa invece soffermarsi, sia pure brevemente, su quelli che vengono, da più parti, indicati come precedenti puntuali. Si tratta, da un lato, di un parere del Consiglio di Stato riguardante la possibilità o meno per un magistrato della Corte dei Conti eletto nel Consiglio di Presidenza di “permanere” nell’organo elettivo dopo il suo collocamento fuori ruolo per lo svolgimento di altro incarico[14], dall’altro, di una sentenza del supremo giudice amministrativo riguardante questa volta un componente dello stesso Consiglio Superiore[15].
4.1. Andiamo con ordine, partendo dal parere, che appare, in effetti, prima facie, piuttosto ficcante.
Occorre ricordare, innanzitutto, che la disciplina del Consiglio di presidenza della Corte dei conti si è costruita sul paradigma delle norme, espressamente richiamate anche nel parere, relative al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, per le quali – non diversamente da quanto previsto al riguardo per il C.S.M. - l’esercizio delle funzioni d’istituto costituisce un requisito di eleggibilità all’organo di “autogoverno”
Come recita l’ art. 8, primo comma, l. n. 186 del 1982, «non sono eleggibili al consiglio di presidenza i magistrati che, al momento della indizione delle elezioni, non esercitano funzioni istituzionali». Ora, si legge nel parere, premesso che la limitazione del diritto ad accedere ad uffici rappresentativi, per il suo carattere restrittivo del generale ius ad officium elettivo (art. 51 Cost.), è da ritenere eccezionale e di stretta interpretazione[16], se il fine della disposizione è quello di «collegare effettività ed attualità delle funzioni di istituto alla capacità rappresentativa, si constata agevolmente che quest’impedimento della capacità elettorale passiva si fonda sulla considerazione che, per questa funzione di (parziale) autoamministrazione, l’eleggibilità richiede nell’eletto una rappresentatività del corpo sociale che sia effettiva ed attuale» ma, attenzione, «non vi sono ragioni plausibili per limitare la portata di quella presunzione al momento genetico della rappresentanza nell’autogoverno: la rappresentatività deve permanere per tutto il mandato, giacché la stessa ragione di presunta riduzione di capacità rappresentativa può intervenire ad operare in un momento sopravvenuto qualsiasi del mandato stesso», causando la decadenza del consigliere: «questo avviene in caso di cessazione del rapporto di servizio, ma anche nel caso di sopravvenuto non esercizio delle funzioni d’istituto e dunque del collocamento fuori ruolo che sopravvenga durante munere».
Una concatenazione logica che merita di essere approfondita. Come è facile osservare, il punto centrale del ragionamento svolto nel parere sta nell’idea secondo cui, data la «funzione di (parziale) autoamministrazione, l’eleggibilità richiede nell’eletto una rappresentatività del corpo sociale che sia effettiva ed attuale» e su questo si potrebbe persino convenire, salvo naturalmente intendersi sul significato da attribuire a nozioni come quella di (parziale) autoamministrazione e di rappresentatività sulle quali si tornerà nel prosieguo.
Il punto però è un altro e lo individua, correttamente, lo stesso parere. Dalla disciplina del Consiglio di presidenza della Corte dei conti si ricava una presunzione e, si legge, «non vi sono ragioni plausibili per limitare la portata di quella presunzione al momento genetico della rappresentanza nell’autogoverno». Il che è quanto dire che si tratta di una presunzione “iuris tantum”, che ammette la prova contraria, prova non rinvenibile nell’ordinamento delle magistrature amministrativa e contabile ma ben presente, al massimo livello, nel caso del C.S.M. dove, appunto, è la stessa Costituzione a disciplinare la durata del mandato.
In effetti, la disciplina del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti modellata sul paradigma del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, sulla base di un rinvio mobile, comporta, prosegue il parere, che la stessa possa «variare grazie alle novellazioni successive, non esistendo una regola superiore che la irrigidisca per modo che la portata della simiglianza ravvisata in origine tra i due organi resti comunque immutata nel tempo e non diminuibile. Entrambi i consigli di presidenza non sono, a differenza del Consiglio superiore della magistratura, organi di rilievo costituzionale: che si introduca il principio dell’autogoverno anche per le magistrature speciali è certamente conforme alle caratteristiche e alle garanzie che la Costituzione delinea per tutte le magistrature, ma non è necessitato; a maggior ragione non è dato rinvenire al livello costituzionale una qualche regola che imponga la specularità organizzativa di questi organi tra loro o rispetto al CSM»[17].
Davvero si pensa che la disciplina stabilita in Costituzione per il C.S.M. possa subire modificazioni sulla base di novelle successive o in via di interpretazione?[18] La risposta non può che essere obbligata, sicché il parere invocato a sostegno della decadenza prova esattamente il contrario, ovvero il riconoscimento – e non avrebbe potuto essere diversamente – della rigidità della regola superiore prevista per il C.S.M., organo di rilievo costituzionale, “a differenza” dei Consigli di presidenza delle magistrature “speciali”.
4.2. Quanto alla sentenza precitata, è stato condivisibilmente osservato[19], che «ciò che si discusse nel caso Borraccetti fu “esclusivamente” la natura del termine per esercitare l’opzione per il mantenimento in servizio sino al settantacinquesimo anno di età, termine che il giudice amministrativo considerò meramente ordinatorio e perciò rispettato dall’interessato (che aveva presentato domanda di trattenimento in servizio con qualche mese di ritardo) confermando la validità di una deliberazione del Consiglio Superiore che riguardava peraltro una pluralità di magistrati»[20], dunque quel precedente non troverebbe applicazione nel caso di specie.
Sennonché, a ben guardare, la sentenza va oltre, osservando che se per “autogoverno” deve intendersi un sistema in virtù del quale la gestione e l’amministrazione di una determinata istituzione è affidata ai suoi stessi esponenti, nella specie attraverso un organo costituito in base al principio di rappresentatività democratica, ne discende che la qualità di appartenente all’istituzione medesima (nella specie, l’ordine giudiziario) costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile per l’esercizio della funzione di autogoverno, e non solo per il mero accesso agli organi che la esercitano.
In altri termini, il fatto che il legislatore non abbia espressamente previsto la cessazione dall’ordine giudiziario per quiescenza fra le cause di cessazione della carica di componente del C.S.M. dipende non già da una ritenuta irrilevanza del collocamento a riposo, ma dall’essere addirittura scontato che la perdita dello status di magistrato in servizio, comportando il venir meno del presupposto stesso della partecipazione all’autogoverno, è ostativa alla prosecuzione dell’esercizio delle relative funzioni in seno all’organo consiliare”. Un obiter dictum, posto che «è opinione della Sezione che la questione qui esaminata non coinvolga il diritto di elettorato passivo e sue eventuali limitazioni, ma attenga piuttosto al presupposto stesso che la legge contempla per il conseguimento della qualità di componente elettivo togato del C.S.M.», fermo restando che, continua la sentenza, «una lettura formalistica del già citato art. 24 della legge nr. 195 del 1958 o di altre disposizioni in materia appare decisamente insufficiente a illuminare sui principi e sulla ratio sottesi alla disciplina tutta in materia di autogoverno della magistratura»… appunto: la lettera della legge non basta; occorre guardare alla Costituzione, cioè ai principi e alla collocazione costituzionale del Consiglio Superiore della Magistratura.
5. Se si guarda ai principi, a venire in rilievo è, innanzitutto, per quanto ci riguarda il primo comma dell’art. 104, a tenore del quale «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» e se è vero che la formula non è andata esente da critiche[21], certo è che dalla stessa si possono trarre indicazioni utilissime anche ai nostri fini. Innanzitutto, come è stato autorevolmente osservato, «se si parla di “ordine” è perché si vuol dire ch’essa (magistratura: ndr) non è un “corpo”, cioè una separata organizzazione titolare di interessi suoi propri, distinti da quello generale alla realizzazione della volontà oggettiva dell’ordinamento(…) Magistratura come “potere”, poi. È una qualificazione che l’art. 104 impone solo indirettamente, certo, ma che comunque impone: se la magistratura è indipendente da ogni “altro” potere, ciò vuol dire che la Costituzione la vede - appunto - anche come un potere»[22].
Va da sé che ordine e potere non possano andare disgiunti. Proprio in quanto è (anche) un “ordine”, estraneo al circuito dell’intermediazione politica, al potere giudiziario è assicurata, ai sensi degli artt. 101, comma 2, e 112 Cost.[23] la piena indipendenza[24], garanzia[25] che – è appena il caso di dire – non è certo in funzione della magistratura come corporazione, ma della collettività e delle persone, come affermato dalla dottrina più attenta[26], oltre che dalla giurisprudenza[27] e, in particolare, dalla Corte costituzionale, secondo cui, dato il ruolo e le funzioni ad esso assegnate, il CSM è la “pietra angolare” dell’ordinamento giudiziario[28].
Ora, proprio la collocazione del Consiglio superiore subito dopo la proclamazione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura significa che queste esigenze[29] – non il governo o l’auto-governo – ne definiscono il ruolo e la funzione, sicché il perimetro dell’attività del CSM è pienamente definito da questa esigenza. Parlare di “governo” della magistratura è, insomma, equivoco, perché non è in tale “governo” che si identifica la missione del Consiglio, specie se, con questa formula si vuole alludere a una funzione “rappresentativa” della magistratura, perché questo significherebbe evocare la “equivoca e sfuggente figura della rappresentanza di interessi”[30].
Certo, come è stato osservato di recente, «i "quattro chiodi" cui, per riprendere le parole di Ruini in Assemblea Costituente[31], è appeso il quadro competenziale del CSM (assunzioni; assegnazioni e trasferimenti; promozioni; provvedimenti disciplinari) implicano attività che possono anche dirsi di “governo”, ma queste sono il mezzo, non il fine, che resta saldamente ancorato alla garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza»[32].
La (speciale) politicità del Consiglio Superiore risiede, insomma, nel complesso delle sue attribuzioni, che considerate «nel loro insieme, non sono la sommatoria di competenze frazionate, generatrici di atti isolati, privi di criteri ordinatori, ma si inseriscono in una policy di settore, i cui confini sono tracciabili a partire dal dettato costituzionale e dalle leggi attuative»[33]. Il che è quanto (riba)dire che non siamo di fronte a uno strumento di “rappresentanza in senso tecnico dell’ordine giudiziario”, come da tempo, del resto ha rilevato la stessa Corte costituzionale[34] ma piuttosto, come si è detto, «al cospetto di un organo “di garanzia” chiamato ad esprimere, nei limiti fissati dalla Costituzione e dalla legge sull’ordinamento giudiziario, “indirizzi” in materia di amministrazione della giurisdizione»[35].
Ma se è così, cadono tutte le preoccupazioni da più parti avanzate circa la presunta perdita di capacità rappresentativa o, addirittura, l’estraneità «al corpo elettorale che gli ha conferito il mandato» del consigliere cessato dal servizio come magistrato e, dunque, buon compleanno dottor Davigo e… buon lavoro.
[1] Così M. Luciani, in Il sistema di elezione dei componenti togati del CSM, Relazione al Convegno “Voltare pagina. La riforma del sistema elettorale del CSM”, Roma, 23 giugno 2020, contributo destinato alla raccolta di Scritti in onore di Fulco Lanchester.
[2] Così, N. Rossi, Sta per nascere al CSM un caso Davigo?, in Questione Giustizia del 31 luglio 2020.
[3] A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del C.S.M., in Quad cost., 1989, 471 sgg., ora in L’ordinamento giudiziario, II, Napoli, 2019, 1065.
[4] Sul punto E. Cheli, Organi costituzionali e organi di rilevo costituzionale (appunti per una definizione), in Studi economico-giuridici della Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari, XLVI, 1, 1966, 155 ss. La formula avrebbe una «portata tecnicamente precisa» secondo A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del C.S.M., cit.. Non così per altri autori, che, anzi, ne sottolineano le criticità. Fra questi, M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, in Osservatorio AIC, 1/2020, 11 ss. e L. Daga, Il Consiglio superiore della magistratura, Napoli, 1973, 281, nt. 21.
[5] V. l’intervista a G.M. Flick, Davigo non può restare al Csm anche dopo il congedo, in Il dubbio del 26 settembre 2020.
[6] Tra gli altri, R. Romanelli, G. Varano, C.S.M.: l’esercizio delle funzioni giudiziarie requisito per la permanenza nella carica di consigliere togato, in Diritto di difesa, 2020.
[7] Così, R. Romanelli, G. Varano, C.S.M.: l’esercizio delle funzioni giudiziarie requisito per la permanenza nella carica di consigliere togato, cit.
[9] Così, N. Rossi, Sta per nascere al CSM un caso Davigo?, cit.
[11] Ibidem ma anche G.M. Flick, cit.
[12] Fra gli altri, P. Mieli, Caso Palamara: quanta fretta al Csm, in Il Corriere della sera, 2o settembre 2020.
[13] G. Salvi, Caso Palamara, i tempi del Csm e della Cassazione, in Il Corriere della sera, 24 settembre 2020.
[14] CdS, Adunanza Sezione Prima, 7 marzo 2007, 601/07.
[15] CdS, Sez. IV, n. 06051/2011.
[16] In tema di ineleggibilità, l’eleggibilità è infatti la regola, l’ineleggibilità l’eccezione: Corte cost., 26 marzo 1969, n. 46; 3 marzo 1988, n. 235; 30 novembre 1989, n. 510.
[17] V. CdS, Adunanza Sezione Prima, 7 marzo 2007, 601/07, p. 14.
[18] N. Rossi, Sta per nascere al CSM un caso Davigo?, cit.
[20] CdS, Sez. IV, n. 06051/2011.
[21] N. Zanon, F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, 5^ ed., Bologna, 2019, 22.
[22] Così, M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, cit., p. 2 e Id., Le proposte di riforma del Consiglio superiore della magistratura in Italia, in AA. VV., Magistratura e Consiglio superiore in Francia e in Italia, a cura di A.A. Cervati e M. Volpi, Torino, 2010, 114 ma v. anche A.A. Cervati, L’indipendenza dei magistrati e della magistratura in Italia e in Francia, in AA. VV., Magistratura e Consiglio superiore, cit., 166 e L. Daga, Il Consiglio superiore della magistratura, cit., IX.
[23] La «garanzia costituzionale dell’indipendenza del pubblico ministero ha la sua sede propria nell’art. 112» (Corte costituzionale, n. 420 del 1995).
[24] Cfr. C. Mezzanotte, Sulla nozione di indipendenza del giudice, in AA. VV., Magistratura, CSM e principi costituzionali, a cura di B. Caravita, Roma-Bari, 1994, 4.
[25] Da ultimo, la Commissione Scotti (cfr. Relazione della Commissione ministeriale per le modifiche alla Costituzione e al funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, in www.giustizia.it, 2016, 19) ha ricordato che il CSM «non è un semplice consiglio di amministrazione, è piuttosto un’istituzione di garanzia nonché rappresentativa di idee, di prospettive, di orientamenti su come si effettua il governo della magistratura e su come si organizza il servizio giustizia, anzi su quale sia il ruolo della magistratura e dello stesso Consiglio superiore».
[26] V. G. Berti, Interpretazione costituzionale, Padova, 1994, 670, ma v. anche M. Volpi, La indipendenza della magistratura e l’equilibrio con gli altri poteri dello Stato tra modello costituzionale e ipotesi di riforma, in AA. VV., Magistratura e politica, a cura di S. Merlini, Firenze, 2016, 90 dove si rileva che «L’indipendenza non è un privilegio più o meno corporativo, in quanto è strumentale rispetto all’eguaglianza delle persone di fronte alla giustizia e alla tutela dei diritti».
[27] Da ultimo, Corte dei conti n.. 2/SSRRCO/QMIG/19 del 26 febbraio 2019.
[29] Così, F. Sorrentino, Governo dei giudici e giustizia amministrativa, in AA. VV., Controllare i giudici? (Cosa, chi, come, perché), a cura di G. Campanelli, Torino, 2009, 188; M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, cit., 14 ss.; N. Zanon, F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, cit., 26.
[30] In tal senso, G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, 1997, 176.
[31] V. l’intervento alla seduta dell’Assemblea Costituente del 25 novembre 1947, in Atti Ass. Cost., 1^ ed., 2460.
[32] Ancora M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, cit., 16.
[33] G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione Giustizia, n. 4/2017.
[34] Cfr. Corte cost., sent. n. 142/1973.
[35] F. Dal Canto, Il Consiglio superiore della magistratura tra crisi e prospettive di rilancio, Relazione presentata a Roma l’11 ottobre 2019 al Convegno della rivista Giustizia Insieme dal titolo Migliorare il CSM nella cornice costituzionale, in Consulta on line, 30 gennaio 2020.