1. Introduzione
Una piuma. Un piatto. L’anima. L’altro piatto. I due sono in equilibrio. Così la misura della esattezza si dà nella realtà con l’impalpabile, ancorché ostensibile, materia il cui valore non sta nel peso specifico (quanto peserà mai una piuma) ma nella sua fragilità e resilienza. Italo Calvino era affascinato da questa vibratile, volatile, indissolubile connessione che esiste fra l’anima e la piuma. Una connessione esatta. Noi ne dovremmo trarre l’incoraggiamento ad essere richiamati ad un esercizio di pensiero, che alla critica e alla distanza dello sguardo, sguardo che ancora una volta Calvino vuole per cogliere la ratio dello stare insieme di parti, come quelle dell’impero di Kublai Khan, combina finalmente il fare.
Cosa pesare sulla bilancia? La proposta è quella di mettere un trattino. Quello che separa DIS da ABIILITA’. Non è un esercizio di scuola, questo. Non si tratta di una velleità di carattere letterario. Quel trattino ha tutto un valore di carattere funzionale – o, meglio, dis-funzionale – di cui empiricamente occuparci. Le parole chiave della frase precedente sono “empiricamente” e “ci”.
Ma veniamo prima al perché farlo oggi. Tre dicembre, giornata internazionale delle disabilità. Gli interventi nella pubblicistica sono innumerevoli. Meritevole il parlarne, importante attrarre l’attenzione del cittadino e delle istituzioni.
Quest’anno sul piano istituzionale abbiamo un elemento in più. Il Decreto legislativo sulla Definizione delle condizioni di disabilità si incunea fra la normativa europea e la Legge 104, ma vuole già guardare avanti, non tanto e non solo orientando lo sguardo verso un perimetro di definizione di carattere astratto e generale – missione intrinsecamente svolta dal dispositivo normativo primario e secondario giuridicamente vincolante –, ma anche aprendo uno squarcio in un cielo che è dis-connesso, diviso perché segnato da una profonda separatezza delle esperienze che si danno della (e nella) dis-abilità.
Ci interessa quello squarcio. E ci interessa il trattino. È quel trattino che dà un senso collettivo, e non solo normativo alla disabilità. Perché il trattino ci parla di qualcosa che noi qualifichiamo come fatto. Se la norma che definisce i diritti è un fatto istituzionale, le persone sono interessate da quel fatto istituzionale nella misura in cui nella loro vita esperiscono un fatto: il trattino. Che determina l’inverarsi – nel contesto di vita, per quel momento del ciclo di vita – del DIS.
Il trattino può prendere le forme fenomenologiche più svariate. Può essere una malattia congenita. Allora il trattino disconnette dalle abilità di potere operare nelle modalità che definiamo in modo naturalistico e biologicamente suffragato come normali o standard. La persona già alla nascita si trova a fare questa esperienza e tale esperienza diventa condizione – talvolta drammatica – di vita. Può essere un trauma sopravvenuto nel corso della vita. Un incidente, una malattia, ma anche uno sradicamento dalle proprie origini che dia come effetto un DIS, ossia una dis-connessione da quelle abilità che sono adeguate a vivere una vita “normale” e standard, tenuto conto anche dei contesti naturali e ambientali che sono diversi e che chiedono al corpo-mente (che dubbio può esservi che vi sia una interdipendenza ineliminabile) delle specifiche abilità.
Può essere una malattia che sopravviene nel corso tardo della vita e che d’improvviso, rispetto ad un canone, ad una partitura del vivere che è considerata come data, introduce una variazione su un tema per la quale la persona non ha le capacità compensative per rispondere alla sfida che la vita le ha indirizzato.
Insomma, il trattino è camaleontico e può prendere molte forme diverse. Tutte aventi a che fare con la forma precipua del genus del DIS, la DIS-Eguaglianza.
Sia inteso. Non siamo di certo orientati a semplificare e ad adottare uno sguardo riduttivo. Al contrario. È bene conservare la piena consapevolezza di quelle disabilità che costituiscono un cosmos, un contesto durevole e persisteste, nel quale l’anima della persona respira, e dove i servizi, ma ancor prima di questi l’occhiale attento, calibrato, empiricamente suffragato di un Osservatorio sulle disabilità deve potere intervenire con tutte quelle misure che sono necessarie ed auspicabili per dare una risposta ad una domanda – in divenire – di tutela dei diritti. Tali misure non faranno “altro” – ed è tantissimo – che intervenire su quel trattino. Sulla malattia e la sua cura, ma anche su tutte quelle condizioni che caratterizzano l’ambiente di vita nel quale la persona vive e dove la possibilità di esercitare sviluppare e valorizzare le abilità di essere persona sono ridotte per ragioni che attengono alla mancata appropriatezza dell’interfaccia con i bisogni. Ecco. Se prendiamo sul serio quel trattino finiamo diritti dentro al mondo di Amartya Sen con tutte le implicazioni che questo comporta.
2. La bilancia
Soffriamo, non vi è dubbio, di una distorsione dello sguardo. Effetto non intenzionale di tanti sguardi stratificati che hanno creato una sclerosi delle nostre lenti. Attraverso quelle, oggi, guardiamo a ciò che per sintesi chiamiamo vulnerabilità. Cosa vediamo? Proprietà di entità che definiamo gruppi sociali o fasce della cittadinanza, ancorché persone che condividono lo stesso tipo di condizione di vita, e dunque possiamo – pensiamo di potere – osservare con la stessa lente. Perché a questo i concetti servono. Orientarci a guardare ciò che di simile hanno due entità tanto di dirle della stessa specie.
Alla sclerosi del concetto la vita umana e la storia sociale si ribella con sguardo ironico e irriverente. Non curandosi affatto della nostra necessità di affidarci alle bussole che la tradizione del fare politica e del rispondere istituzionalmente orientato ci ha lasciato, la realtà ci costringe a ripensarci. E a migliorarci.
Vulnerabilità è un potenziale. Con Aristotele, la vulnerabilità è un potenziale di vivere un vulnus, una lacerazione alla dimensione più profonda e fondativa della persona, ossia quella di esercitare la libera espressione del sé.
Detta così la vulnerabilità ci dà la vertigine. Perché ognuno di noi porta con sé per sempre il fatto di essere, viva o vivo, una talea di vulnerabilità. A volte per detrimento, a volte per eccesso, a volte per difetto l’esercizio delle libertà, che sono l’essere persona nel mondo, dipende non solo da quello che è il nostro stato al tempo presente, ma anche dalle condizioni di vita e dalla loro evoluzione nel corso del tempo futuro.
Così guardata la vulnerabilità è più un rischio che uno status quo. Ed è un rischio che va prevenuto. Rischio di cosa? Esso dipende naturalmente dal contesto perché la condizione di vulnus-abilità è una condizione relazionale, dove vulnus non è un particella che ci indica uno stato dell’essere avulso dal contesto, quanto un funtore, con i contenuti che vengono offerti alla persona nella formazione, con le risposte che vengono date alla persona nella cura del proprio benessere fisico della salute, in senso globale, con le modalità con cui la giurisdizione non solo si apre alla domanda di tutela di diritti, ma risponde ai vari passi che la persona compie mentre segue la procedura.
Vulnus rispetto a quali abilità? Quali vulnus? Quanto permanenti? Sarà una porta aperta ai servizi sufficiente a dire che non si sono generate vulnus alle abilità?
Se le lenti che abbiamo fanno difetto, allora un Osservatorio è necessario.
Tre sono le missioni che a questo Osservatorio abbiamo bisogno di affidare.
1. Elaborare indicatori di una giurisdizione di qualità
2. Una bussola capace di dare a livello distrettuale punti di alert laddove si generi una flessione di tali qualità
3. La attuazione di Protocolli contrassegnata da momenti di ricerca che siano forieri di contenuti su cui fare formazione congiunta fra avvocatura, magistratura, e istituzioni del territorio.
Quel trattino può infatti inverarsi e prendere le forme più disparate anche quando le persone si addentrano nel percorso che le porta alla fruizione di un servizio soprattutto quando legato all’esercizio di un diritto.
Vorremmo oggi usare la parola per gettare un fascio di luce e di pensiero critico non su ciò che profondamente quelle barriere sono: condizioni “dis-civilizzanti”. Condizioni che non permettono di appieno esserci e di appieno fruire di tutto ciò che la storia del pensiero e della vita – umana e non – porta seco nel suo perenne evolversi. Condizioni che gettano uno iato, entro cui risuona dolorosa una domanda di valorizzazione delle diverse eguaglianze di esserci, fra la persona e le opportunità di essere sé stesse appieno.
Non per coniare un neologismo valutativo. “Dis-civilizzanti” va inteso come un vero aggettivo funzionale e quindi descrittivo. Di cosa? Della capacità di agire come cittadina e come cittadino, di oggi ma soprattutto di domani. Perché “dis”? Perché è un riduttivo, è una piccola particella di tre lettere che significa togliere, erodere, privare, negare, andare nella direzione contraria rispetto a quella che è indicata nella parola cui il prefisso si associa.
Allora avremo le dis-abilità, le dis-pnee, le dis-parità. Non sembra una diagnosi grave. È “soltanto” – le virgolette vanno intese come un profondo respiro di perplessità – una caratteristica di qualcosa che accade come un accidente o un incidente nella storia.
Invece no. La dis-civilità è proprio una azione o una funzione, a seconda che accada perché ci sono dei comportamenti intenzionali o perché ci sono delle condizioni culturali che giocano un gioco eguale e contrario alla direzione della, appunto, civiltà.
Così dunque la dis-civilizzazione ha molto a che vedere con la dimensione della e del cives, che essendo, con Hannah Arendt agita e non solo sancita nella norma del diritto posto formalmente, deve inverarsi attraverso tutte quelle componenti essenziali dell’agire che hanno a che vedere con il pensare dii potere agire ancor prima di farlo e con il pensare di potere fare fronte alle conseguenze di quell’agire oltre che alla capacità di potere spiegare discutere parlare generare senso condiviso su quell’agire.
Occorre dunque agire sul trattino perché non vi sia mai alcuna dis-eguaglianza e tanto meno alcuna dis-abilità che impediscano alla persona di esercitare appieno il suo essere nella vita qui ed ora e nell’esercitare appieno le sue libertà.
Quando diventa consapevole connessione con ciò che fa dell’esserci nel mondo la reale opportunità di esercitare appieno la libertà di essere e di esprimersi nel rispetto della medesima libertà assicurata ad ogni altra forma di umana vita che è, l’agire sul trattino su fa postura istituzionale. Una postura che si rivolge a tutte e a tutti coloro che vivono momenti “dis”. Dove la negazione dell’essere appieno maître nel senso di padrone e padroni del proprio destino di cittadine e di cittadini costituisce il primo momento di una forma di violenza alla umana dignità contro cui fare resistenza. Si resiste nel fare anche un passo indietro. Non c’è bisogno di farlo in avanti. Basta farlo indietro rispetto a verità date per assodate e proposte con superficialità. Si resiste nel porsi il dubbio. A partire dal dubbio se si abbia davvero reso giustizia al proprio essere persone. Perché farlo? Non sarebbe più semplice assettarsi su quanto c’è?
Semplice sì, umano no.
Perché altre e altri verranno.
È questo il porgere questa fiaccola – con gentilezza, non come atto di dominio – a chi verrà, a chi avremo generato e a chi altri avranno generato o genereranno, perché quella fiaccola sia capace di dissolvere i DIS, le privazioni della capacità di credere nella propria dignità e la capacità di chi, nel mondo, sceglie, vota, sbaglia, canta, ride, piange, opta, pensa, dubita. Teniamo viva quella fiaccola di modo che illumini quei meccanismi, sovente nascosti, che sono disabilitanti le abilità vitali per vivere nel mondo fieri di essere vita che pulsa insieme a tutta la vita che ci attraversa.
3. Perché parlarne in Questione Giustizia?
Perché la giustizia non debba generare dei trattini. Lo fa se non è leggibile, se non è comprensibile, se non è vivibile.
Già su queste pagine abbiamo avuto modo di ricordare quanto sia rilevante la difficoltà della esperienza che fanno le persone una volta entrano nella giurisdizione-.
Quella difficoltà è un trattino. Certo. Nulla avrebbe tale trattino della drammaticità che soffrono coloro che da quel trattino sono conchiusi in spazi angusti di perimetrazione della esperienza dell’esserci. Ma, attenzione. Non sia questa mancanza di dramma una buona ragione per giustificate il non occuparsene.
Empiricamente, misurando. Benvenuti siano gli indicatori che il decreto legislativo preconizza.
Ci, noi: parlare di trattini è qualcosa che ci impegna tutti.