Magistratura democratica
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I diritti non sono la fine della storia

di Enrico Scoditti
consigliere della Corte di cassazione

Il Moderno si distingue da altre epoche storiche non per le dichiarazioni dei diritti, ma per la politica come capacità di decidere del proprio destino, secondo le vie della democrazia, intesa come eguale non solo partecipazione ma anche considerazione delle ragioni di tutti, e senza inoltre violare le stesse dichiarazioni dei diritti. Il principio di autodeterminazione deve oggi affrontare la sfida del Postmoderno, quale dominio assoluto di tecnica e diritto, ma non può fronteggiare quella sfida se la politica democratica non torni ad essere l’esperienza vissuta dalla generalità di donne e uomini di una comunità. 

1. La caduta del muro di Berlino nel novembre 1989 sembrò la conferma della tesi della fine della storia che Francis Fukuyama aveva sostenuto nell’estate del medesimo anno. Per il politologo statunitense il traguardo raggiunto dall’umanità con la democrazia liberale non poteva essere oltrepassato, per cui la storia poteva ritenersi veramente conclusa. 

Nei decenni successivi, a fronte del succedersi di eventi che tenevano aperto il fronte della storia, Fukuyama ha mantenuto la propria tesi, ammettendo che era venuto meno l’ottimismo del tempo in cui era stata proposta, ma affermando pure che quella tesi rivelava una direzione di progresso che la storia aveva ormai intrapreso. Non è un’obiezione a questa tesi richiamarne le ulteriori smentite, fino alla tragedia della guerra oggi alle porte dell’Europa, perché quel traguardo raggiunto può valere non quale esito nei fatti conseguito, ma quale prescrizione in base alla quale giudicare il presente. 

E’ allora facile sostenere, sull’onda di quella tesi, che le carte dei diritti, nazionali, sovranazionali ed internazionali, con le corti preposte alla loro applicazione, rappresentino il vertice di una civiltà, la quale perciò non ha futuro perché ha raggiunto il suo apice ed il tema della storia è ormai soltanto quello dell’adeguamento del mondo reale a quello prefigurato da quelle carte. 

Raggiunto il traguardo della dichiarazione dei diritti fondamentali, la storia non può andare avanti. Tutta la dialettica storica si riduce allo scarto fra essere e dover essere ed alla necessità di colmare quello scarto garantendo il rispetto dei diritti. Il diritto enuncia il migliore dei mondi possibili, per cui si tratta soltanto di ricondurre il mondo in cui ci troviamo a quello che le carte dei diritti prefigurano. 

Nel quadro della giuridificazione della realtà, quale unico senso del presente, i giuristi, e segnatamente le corti, svolgono il compito centrale perché sono essi i garanti dell’attuazione pratica del traguardo ideale cui la storia è ormai pervenuta.

Tutto questo significa riconoscere che il modello vincente nella storia dell’umanità è il diritto e che il nostro destino è affidato alle corti. Quel modello è proposto quale punto di arrivo della modernità, che così si differenzierebbe dalle stagioni che hanno in passato contrassegnato quanto meno l’Occidente europeo. 

E’ per davvero la garanzia dei diritti il tratto costitutivo del Moderno?

 

2. Il diritto ha conosciuto, in realtà, il proprio apogeo in un’epoca che la modernità si è lasciata alle spalle. 

Era l’ordine medievale ad essere profondamente intriso del diritto, secondo il grande affresco che Paolo Grossi ci ha consegnato ne L’ordine giuridico medievale (1997), al punto che Nicola Matteucci, in un celebre scritto di sessanta anni fa, propiziato da una polemica con Bobbio, invitava a riprendere quanto di «contemporaneo» c’era nell’eredità medievale, perché il costituzionalismo «affonda le sue radici nella concezione medievale che il potere dei re è limitato dai diritti legali dei sudditi o, per restare nel tema, perché il moderno costituzionalismo non è una continuazione di Hobbes e del dogma dell’onnipotenza del legislatore, ma una postuma vittoria di Coke [n.d.r.: il giudice Edward Coke nel Dr. Boham Case del 1610 affermò il primato sulla legge degli ancient common laws and customs of the realm] e del principio medievale della supremazia del diritto e cioè della lex supra regem»[1]

La modernità è effettivamente debitrice nei confronti del Medioevo dell’idea di normatività del diritto quale corrispondenza di ordine sociale e ordine giuridico. 

Gli storici delle istituzioni evidenziano come la nozione di diritti fondamentali sia sorta dal connubio fra la moderna costruzione dell’individuo e l’idea medievale di inviolabilità del diritto, che il costituzionalismo americano ha ereditato dalla tradizione di common law[2]

Il diritto era l’anima del Medioevo, ha scritto Walter Ullmann, perché l’intera esistenza era dall’interno organizzata da strutture giuridiche, secondo la visione tomistica dell’immanenza del diritto al reale. 

L’ordine sociale era irrigidito in un sistema di rapporti giuridici che avvincevano, alla stregua di vincoli naturalistici, l’homo medievalis

 

3. La modernità nasce dalla rottura di quei vincoli. 

Il mondo non è più irrigidito in una trama giuridica, ma sono possibili altri mondi. A differenza dell’homo medievalis, immobilizzato in un ordine di cui non dispone, l’uomo dell’Età Nuova, a partire dal Rinascimento italiano, ha l’ambizione di decidere del proprio destino. 

Con Machiavelli nasce la politica moderna. Il potere politico non si identifica più con il dire il diritto, secondo l’indistinzione medievale di diritto e politica, ma è libera immaginazione di nuovi fini, sfidando con audacia una natura ostile (la Fortuna di Machiavelli), è osare un nuovo destino per comunità che vanno costruendosi sempre più come imprese collettive, fino all’edificazione degli Stati nazionali.

La costruzione del Moderno corre parallela all’affermarsi del principio di sovranità. Quest’ultimo guadagna esistenza con il processo di monopolizzazione della forza fisica, la quale viene progressivamente concentrata in punto, espropriandola ai molteplici centri in cui era dispersa nella società per ceti. 

La politica si sottrae così gradualmente ai vincoli che la contenevano e diventa voluntas, autodeterminazione del soggetto detentore del potere e non più specchio di un ordine precostituito.  

Si coglie così il senso della tesi di Tocqueville: fra l’accentramento amministrativo dell’assolutismo monarchico in Francia e la Rivoluzione del 1789 vi è continuità, perché la seconda porta a compimento l’opera di centralizzazione del potere che il primo aveva avviato. Se la sovranità è autodeterminazione, non possono che essere democrazia ed eguaglianza i suoi autentici attributi, perché solo così si realizza l’effettiva emersione di una soggettività che si autodetermina. Se la politica è decidere delle sorti del proprio destino, il potere deve appartenere al popolo, e non ad un singolo individuo, e l’accesso ad esso deve essere universalistico. La sovranità o è popolare o non è. Sovranità, democrazia ed eguaglianza sono i lati di un medesimo triangolo. 

Il Moderno non è esplosione vitalistica di una volontà libera da nessi di qualsiasi genere. All’invenzione cartesiana del soggetto segue il dover essere kantiano, alla potenza produttiva di nuovi ordini in Spinoza segue la contraddizione hegeliana che è inserimento nel processo storico di uno spirito costantemente critico dei nuovi equilibri raggiunti[3]

Con il passaggio allo Stato di diritto si riapre la partita fra politica e diritto, il quale ora non è più in uno stato di indistinzione dalla prima, ma ne diventa il parametro critico. 

Nasce la distinzione fra merito e legittimità: la libertà del Politico di autodeterminarsi trova il proprio limite esterno nella regola di azione che il diritto ha fissato. 

Il diritto è l’argine che si è smarrito nei totalitarismi apparsi nella prima metà del Novecento in Europa, frutto dell’assolutismo di maggioranze politiche costruite con un’organizzazione dall’alto del consenso. 

Per questa ragione, nelle grandi costituzioni novecentesche il diritto si è reimposto alla politica non più solo come procedura, ma anche come sostanza mediante la dichiarazione dei diritti fondamentali.

 

4. Torniamo così alla domanda da cui siamo partiti: è la garanzia dei diritti fondamentali il tratto costitutivo del Moderno? La risposta, dopo il nostro rapido excursus, è di segno negativo: il Moderno risiede nel potere di autodeterminazione e di decidere del proprio destino, potere che non si dispiega tuttavia nel vuoto, ma in una corona di limiti, i primi dei quali sono democrazia ed eguaglianza, perché sono essi che identificano l’autentica sostanza del potere di autodeterminazione. 

Democrazia ed eguaglianza sono lo spirito (proprio nel senso hegeliano) che innerva la politica moderna, evitando che essa si dissolva nel conflitto fra volontà di potenza. Sono democrazia ed eguaglianza gli architravi che tengono insieme una comunità, altrimenti destinata a scindersi in mille frammenti. 

In questo senso Jürgen Habermas, che ha visto nella procedura democratica il vero fondamento della società moderna, ha colto più di tutti[4]

La democrazia non è solo forma, non è solo universale partecipazione alla decisione politica, ma è anche sostanza, è eguale considerazione delle ragioni di tutti e, pertanto, sacrificio delle ragioni della minoranza nello stretto necessario per la realizzazione di quelle della maggioranza, secondo i criteri di bilanciamento e proporzionalità di cui la giurisprudenza dei tribunali costituzionali fa costante applicazione, quali coerenti corollari dei principi di democrazia e eguaglianza. La lezione del Novecento non risiede però solo nella necessità di dichiarare e garantire i diritti fondamentali dopo avere conosciuto le degenerazioni dell’assolutismo politico. 

Altrove abbiamo definito la stagione costituzionale che si è dispiegata nel trentennio “glorioso” dopo il Secondo conflitto mondiale come quella del “costituzionalismo politico-sociale”[5]

Quella stagione era contrassegnata da una forte strutturazione politica della società grazie alla presenza dei partiti politici c.d. di massa, connotati cioè da una forte insediamento nel corpo sociale e da una diffusa partecipazione popolare ai processi decisionali interni. Il modello era quello prefigurato dalla nostra Carta costituzionale: «l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3 cpv) e la possibilità per tutti i cittadini di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49) attraverso i partiti politici. E’ stata questa la seconda lezione del secolo che abbiamo alle spalle ed è quella di cui più sentiamo oggi la mancanza. 

Democrazia ed eguaglianza non sono solo l’identità istituzionale della politica moderna, ma dovrebbero anche essere la “legge” interiore del singolo che entra nel processo politico.

La democrazia è costitutivamente fragile perché fondata su quello che Gino Germani definiva l’«agire elettivo». Ciò che connota il percorso della modernizzazione per il sociologo italo-argentino è il passaggio dall’agire prescrittivo, basato su nuclei normativi che non lasciano spazio alle decisioni individuali, all’agire elettivo, basato sul principio della scelta individuale. 

Proprio perché l’agire elettivo è basato su decisioni individuali, è necessaria una struttura di supporto che consenta all’individuo di sentirsi parte di una comunità, che lo renda capace di bilanciare le proprie con le altrui ragioni. La scelta individuale è un bilanciamento fra sé e l’altro. 

Il partito politico novecentesco ha contribuito in modo determinante alla formazione dell’ossatura necessaria dell’agire elettivo. Senza quell’ossatura l’elezione individuale è esposta alle più diverse derive depoliticizzanti, fino alle opzioni estreme per una democrazia autoritaria. Le nebbie che si addensano sulle elezioni presidenziali negli Stati Uniti il prossimo anno ci dicono anche questo. Di fronte a possibili scenari elettorali in quel grande Paese, è difficile non tornare alle pagine de Il complotto contro l’America di Philip Roth.

 

5. Siamo ad un passaggio di epoca decisivo. Vi è, in primo luogo, un interrogativo a cui rispondere: il Moderno è una stagione ormai esaurita della storia dell’Occidente o ha ancora un futuro? Se intendiamo il Moderno una stagione esaurita, allora dobbiamo ritenerlo soppiantato dal Postmoderno, per riprendere la più che fortunata espressione coniata nel 1979 da Jean-François Lyotard nel suo classico La condizione postmoderna

La postmodernità sarebbe una stagione nella quale la sovranità ed il soggetto costruttore di nuovi ordini sociali avrebbero cessato di esistere. Saremmo entrati in un’epoca dominata dai diritti, nella quale ogni rapporto sociale sarebbe integralmente amministrato dal diritto e dunque affidato alla cura delle corti. 

Il Postmoderno non vede però solo il governo assoluto del diritto, ma anche quello della tecnica. Come ci hanno insegnato Heidegger e Severino, la tecnica non è più mossa da un fine del quale essa sia lo strumento, ma è guidata solo dalla propria potenza, che la rende ormai indipendente da un sistema di fini. 

La tecnica procede non in base ad uno scopo, ma in relazione a ciò che è in grado di fare ed essa, in prospettiva, può tutto, come ci stanno dimostrando la produzione tecnologica (e non più biologica) dell’umano e l’intelligenza artificiale. 

A fronte di una tecnica che lascia intravedere una potenza illimitata, capace di assorbire all’interno dell’artificio tecnologico tutto il biologico-naturale, l’uomo postmoderno che se ne avvalga potrebbe trasformarsi nella sua protesi, non più soggetto che si autodetermini in base ai propri limiti, ma appendice di un apparato che non è retto da altro fine che non sia l’accrescimento e il dispiegarsi della propria potenza produttiva. 

La partita dell’umanità si giocherebbe così fra il diritto e la tecnica, l’uno che punta a togliere spazio all’altro. La storia potrebbe effettivamente aver raggiunto la propria fine, perché nulla può esserci oltre una tecnica capace di raggiungere una potenza senza limiti e oltre i diritti, intesi come il vertice della civiltà ed unica risorsa in grado di rispondere alle ambizioni dell’homo technologicus. Il futuro non sarebbe altro che l’infinito differimento di un presente che si autocelebri come il culmine della storia[6].

 

6. In alternativa, possiamo immaginare che la storia sia ancora aperta al futuro e che altri ordini sociali affidati all’inventiva umana siano possibili. 

Il tempo che domina il Moderno è, in fondo, il futuro. Nel Medioevo, ed in ogni forma di organizzazione sociale basata sul principio di tradizione, domina il passato, mentre il Postmoderno si propone come l’epoca di un eterno presente. 

Autodeterminarsi e decidere del proprio destino, senza delegarlo al diritto ed alla tecnica, vuol dire mantenere la storia ancora aperta sul futuro. 

Il Moderno è nato con lo sguardo spalancato sul domani. E’ ancora possibile ipotizzare che la direzione della storia sia affidata alla politica, la quale, governata dai principi di democrazia ed eguaglianza, possa essere in grado di inventare nuovi modi di stare al mondo. 

L’elaborazione del futuro, cui è addetta la politica, procede tuttavia attraverso un corpo a corpo con il diritto e la tecnica, che sono i grandi vincoli con cui la soggettività moderna deve oggi confrontarsi. 

E’ davvero impressionante la capacità di Max Weber di prevedere, all’indomani della fine del Primo conflitto mondiale, quale sarebbe stato il futuro della politica in un mondo dominato da potenze che si mettono di traverso rispetto all’ambizione del Politico di introdurre il novum nella storia: «la politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. E’ perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile»[7]

Il disincanto weberiano su una politica che nulla può rispetto al dominio di vincoli economici, giuridici, burocratico-amministrativi, sembra ricondurci alle origini del Politico moderno, quando la Fortuna avversa richiedeva per Machiavelli una combinazione di ragione e pazzia, un eccesso di virtù che solo la straordinaria difficoltà del momento poteva generare[8]

Diritto e tecnica non sono però soltanto vincoli, sono anche strumenti essenziali per le nuove organizzazioni sociali che l’immaginazione della politica può partorire. In questo senso, possono e debbono essere una risorsa per la politica. 

Il diritto è l’argine alle derive assolutistiche del potere di autodeterminazione. Quest’ultimo può, a sua volta, essere l’argine rispetto alla potenza onnivora della tecnica. La libertà di scelta circa il proprio destino non è separabile dall’assunzione responsabile del proprio limite. L’una e l’altra si perdono se ciò che si vuole viene fatto coincidere con ciò che la tecnica può, perché, una volta che quest’ultima abbia guadagnato una potenza senza limiti, diventa essa il soggetto e non chi le ha dato l’avvio. 

Non c’è libertà senza l’esistenza di limiti, perché non c’è più da fare una scelta muovendo dal limite dato, ma c’è solo da seguire un apparato tecnico che va dove lo porta la sua potenza illimitata. L’autodeterminazione, informata alla cultura del limite, può fare attrito e ricondurre la tecnica alla sua originaria natura di mezzo per un fine di benessere dell’umanità, termine più che mai tornato ad avere un significato dopo che il genere umano si è riunificato contro il Covid-19, affrontando una battaglia che poteva essere vinta, come è stato, solo grazie alla tecnica. Diritto e tecnica, dunque, a queste condizioni, come risorse per la politica democratica.

 

7. I giuristi devono essere consapevoli della loro collocazione nel Moderno. Essi, e segnatamente le corti, non sono il baricentro del mondo, ma sono lo strumento che deve accompagnare il Moderno a tenere dritta la barra del proprio corso. 

Il baricentro del Moderno è nella politica e nella possibilità di decidere del proprio destino, ma il futuro non può essere scelto da una volontà che si avviti su se stessa ignara del senso del limite. 

Prometeo non può oltrepassare una seconda volta il confine che gli è interdetto. Come amava dire un grande filosofo italiano della politica, Mario Tronti, il Novecento è stato il secolo dell’assalto al cielo. La presa del Palazzo d’Inverno nel 1917 ha inteso essere il prolungamento radicale dell’espugnazione della Bastiglia nel 1789[9], ma quel disegno è fallito per il prometeismo che lo animava. 

L’elaborazione del futuro da parte della politica non può mai essere scissa dagli ideali regolativi della democrazia ed eguaglianza, che devono restarne il motore interno. 

La volontà politica non si dispiega nel vuoto, ma all’interno di una costellazione di diritti fondamentali da rispettare, e di cui le corti restano le custodi di ultima istanza. 

In quella costellazione, peraltro, non vi sono solo diritti da garantire, ma anche obiettivi da raggiungere, una volta che la stessa politica, nel momento alto del potere costituente, si sia vincolata ad indirizzi fondamentali da perseguire, inserendo nella Costituzione disegni di trasformazione sociale, come attesta l’art. 3 cpv. della nostra Carta fondamentale. 

Il Moderno non ha, però, futuro se democrazia ed eguaglianza cessano di essere la “legge” interiore dei singoli. E’ questa oggi la partita decisiva. Il Moderno non è in grado di affrontare la sfida con il Postmoderno se non si scioglie prima il grande nodo della democrazia contemporanea: la politica non è più in interiore homine

L’homo videns dei talk show televisivi, secondo la definizione coniata da Giovanni Sartori, o le forme di partecipazione politica immediata e plebiscitaria, non intermediate da strutture in grado di promuovere il bilanciamento con le diverse ragioni presenti in una comunità (che è poi il nucleo profondo di democrazia ed eguaglianza), sono assai lontani dal concorso di ciascun cittadino «con metodo democratico a determinare la politica nazionale» mediante i partiti politici, di cui parla la nostra Costituzione. 

«Effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3 cpv.) vuol dire responsabilità per l’insieme, costruzione di una sfera pubblica di partecipanti alla politica, consapevoli del loro essere situati in una rete di nessi sociali. 

Il tempo della diffusione e socializzazione della politica è anche quello della centralità delle questioni sociali, come dimostra il trentennio del c.d. compromesso socialdemocratico (1945-1975), dove il circolo virtuoso di crescita economica, politiche redistributive e bassi livelli di diseguaglianza sociale si coniugava ad un’integrazione di massa nella politica grazie ad una robusta intermediazione affidata a partiti e sindacati.

A ragione si è detto che il tema dell’oggi è quello della crisi non della “rappresentanza”, ma del “rappresentato”[10], privo di riferimenti identitari e sottoposto a fenomeni di imponente mobilità elettorale. 

Il progetto del Moderno è esposto al fallimento se si rompe il nerbo della Politica, quale responsabilità dell’insieme, bilanciamento fra le ragioni del sé e quelle dell’altro, che dovrebbe governare la partecipazione dei singoli «all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». 

La storia può mantenere la sua apertura al futuro, e l’autogoverno restare la cifra della forma umana che le grandi svolte europee hanno introdotto (il Rinascimento italiano, l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, la stagione del Romanticismo, l’ingresso novecentesco delle masse nel potere e nel sapere), se il linguaggio della democrazia e dell’eguaglianza, ed una partecipazione politica attiva all’insegna di questi valori, tornino ad essere il modus vivendi e la passione quotidiana delle nostre società. 

Nel frattempo, non resta che attendere che l’orso della politica, che giace nel fondo dell’Europa, rialzi la testa.


 
[1] N. Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1963, p. 1089 (di qui la conclusione che «il cittadino deve, oggi, ritrovare la tutela dei propri diritti più nei corpi giudiziari che nei corpi rappresentativi, i quali, avendo oramai cessato di controllare il re e facendo parte del sistema di governo, sono nel potere» - Id., op. cit., p. 1098 ss.).

[2] M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni moderne. Le libertà fondamentali, Torino, Giappicchelli, 1995, p. 76 ss. Antesignana delle moderne dichiarazioni dei diritti è, come è noto, la Magna Charta libertatum (1215).

[3] Su questi contrasti filosofici si veda B. de Giovanni, Hegel e Spinoza. Dialogo sul Moderno, Napoli 2011, Guida.

[4] Classico resta J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Milano, Guerini e Associati, 1996.

[5] E. Scoditti, Essere un potere costituzionale. I giudici, l’associazionismo e il costituzionalismo, in Questione Giustizia on line, 23 maggio 2023.

[6] Saluta la nuova civiltà della tecnica come ingresso della finitezza umana nell’“infinito”, secondo una prospettiva che non sentiamo di condividere, A. Schiavone, L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria, Bologna, il Mulino, 2022, come quando scrive: «la tecnica, il capitale, la democrazia, il diritto hanno messo l’umano – tutto l’umano, attraverso l’Occidente che ha aperto la strada – in contatto con l’infinito, con l’illimitata possibilità di sviluppo delle sue capacità, dell’attitudine al controllo dell’insieme delle proprie condizioni di esistenza, fino a schiudere percorsi che, dal punto in cui siamo, non si riescono nemmeno a immaginare, per come arrivano lontano» (p. 166).

[7] M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi, 1980, p. 120 ss. (su queste pagine è, da ultimo, tornato M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, Milano, Adelphi, 2020).

[8] M. Ciliberto, Niccolò Machiavelli. Ragione e pazzia, Bari – Roma, Laterza, 2019, p. 26 ss.

[9] «A partire dal 1917, la Rivoluzione francese […] è diventata la madre di un evento reale, e suo figlio ha un nome: Ottobre 1917, e più generalmente la Rivoluzione russa» (F. Furet, Critica della Rivoluzione francese, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 98).

[10] M. Luciani, La Costituzione e il pluralismo, in P. Cappellini, G. Cazzetta (a cura di), Pluralismo giuridico. Itinerari contemporanei, Milano, Giuffrè, 2023, p. 222 ss.

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