Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

I “finti inconsapevoli” alla prova del caso Regeni: una questione centrale per il contemperamento delle garanzie dell’imputato e dei diritti delle vittime

di Fabrizio Filice
giudice del tribunale di Milano

L’ordinanza della Corte di Assise di Roma che ha dichiarato la nullità della dichiarazione di assenza e del conseguente decreto che dispone il giudizio emesso dal Giudice dell’udienza preliminare, con il quale erano stati rinviati a giudizio i quattro agenti della National Security egiziana accusati dell’omicidio di Giulio Regeni, apre una ulteriore breccia, dopo la sentenza delle Sezioni unite n. 23948 del 28/11/2019, Ismail, nella disciplina del processo in assenza, attraversandone la parte più incerta e problematica che è quella del trattamento dei cosiddetti “finti inconsapevoli”.

Proprio a partire dalla Sezioni unite Ismail cercheremo di riprendere le fila di un ragionamento giuridico che servirà a chiarire le ragioni del contrasto, in punto dichiarazione di assenza degli imputati, tra la decisione del Giudice dell’udienza preliminare di Roma e quella della stessa Corte di Assise; per provare quindi a trarre, da tali opposti argomenti, qualche considerazione di ordine generale, se non risolutiva quantomeno orientativa per l’interprete.

La parte che qui interessa della citata pronuncia a Sezioni unite non è tanto quella meglio sviluppata nel cuore della sua motivazione – cioè la parte relativa all’esclusione di una presunzione legale di conoscenza del procedimento, da parte dell’imputato, in presenza delle situazioni tipiche elencate all’articolo 420 bis, comma 2, prima parte, del codice di procedura penale tra le quali, in particolare, la dichiarazione o elezione del domicilio[1] - quanto invece quella, invero, appena accennata nel breve paragrafo conclusivo della decisione, il § 14 del Considerato in diritto in cui la Corte, statuendo evidentemente in obiter dictum su un aspetto di per sé estraneo al ricorso, si limita a osservare come la disposizione per la difesa dai “finti inconsapevoli” valorizzi, quale unica ipotesi in cui possa procedersi pur se l’imputato ignori la vocatio in ius, quella della sua volontaria sottrazione «alla conoscenza del procedimento o di atti del procedimento» precisando però, subito dopo, che deve trattarsi di condotte positive rispetto alle quali si rende necessario un accertamento in fatto anche quanto al coefficiente psicologico della condotta.

La norma non tipizza né consente di tipizzare alcuna condotta in particolare, quindi non possono farsi rientrare automaticamente in tale ambito situazioni comuni e ricorrenti quali l’irreperibilità o l’elezione del domicilio: il cui valore presuntivo, essendo del resto stato espressamente escluso in relazione alla prima parte dell’enunciato (i.e. il proprium della decisione Ismail), non potrebbe evidentemente rientrare surrettiziamente nelle maglie interpretative della seconda.

La Corte arresta l’obiter all’individuazione del punto sensibile della questione che risiede appunto nell’accertamento, in capo all’imputato, di una manifesta mancanza di diligenza informativa, avvertendo però l’interprete che un’eccessiva dilatazione del concetto di “mancata diligenza” sino a trasformarla automaticamente in una conclamata volontà di evitare la conoscenza degli atti e a ritenerla così sufficiente per fare a meno della prova della consapevolezza della vocatio in ius per procedere in assenza, integrerebbe una mera operazione di cambio nome delle vecchie presunzioni che, come tale, non sarebbe consentita.

Il rischio che invece la Corte non coglie e che costituisce il focus del contrasto tra le decisioni assunte, nel caso Regeni, rispettivamente all’udienza preliminare e davanti alla Corte di Assise, è il rischio opposto: vale a dire quello di una sostanziale interpretatio abrogans della parte della disposizione citata che, per l’appunto, consente all’interprete di accertare se, nel caso concreto, possa ritenersi con certezza che l’imputato sia a conoscenza del procedimento e/o che si sia volontariamente sottratto alla conoscenza di singoli atti, tra i quali anche la chiamata in giudizio.

Il rischio, in termini di politica giudiziaria, è quello di una sostanziale neutralizzazione della possibilità dell’ordinamento di tutelarsi dall’imputato che si sia deliberatamente e scientemente sottratto alla notifica della chiamata in giudizio e della conseguente introduzione, per via interpretativa, di una «sostanziale equiparazione» tra la conoscenza effettiva del procedimento e l’accertamento omnimodo di una valida notificazione (si badi: valida in termini non solo formali ma anche contenutistici e sostanziali)  della chiamata in giudizio.

La prassi giudiziaria in via di maggiore diffusione negli Uffici pare infatti essere proprio quella di considerare, quale “soglia minima” per la dichiarazione di assenza, l’esistenza di una valida notifica, a mani dell’imputato o al domicilio dichiarato o eletto (e sempre che non sussistano elementi per ritenere sostanzialmente inidonea la dichiarazione o elezione di domicilio), dell’avviso di fissazione udienza.

E’ tuttora oggetto di discussone l’equipollenza dell’atto immediatamente prodromico, cioè l’avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all’articolo 415 bis.

In proposito la Sezioni unite Innaro, del 2019 (n. 28912 del 28/02/2019), ha optato per la soluzione negativa pronunciandosi, però, in relazione alla restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale ex articolo 175, comma 2, del codice di procedura penale, nella formulazione antecedente alla modifica operata con legge n. 67 del 2014, e come invece risultante dal decreto legge n. 17 del 2005, convertito in legge n. 60 del 2005; il che non dovrebbe consentire, a rigore, una piena trasposizione del principio di diritto ivi affermato sull’attuale normativa e ai diversi fini che qui interessano. E ciò in quanto la ratio della riforma del 2005 era appunto quella di garantire un diritto praticamente incondizionato alla restituzione nel termine per l’impugnazione delle sentenze contumaciali, in un contesto normativo ancora fondato sulla “conoscenza legale” dell’atto.

Tale diritto poteva essere negato all’imputato rimasto contumace solo in presenza di una prova positiva di conoscenza del processo, la quale, data la natura incondizionata del diritto all’impugnazione, non poteva che corrispondere – come nota, del resto, la stessa Innaro in motivazione (§ 7.1 del Considerato in diritto) – alla situazione ora descritta nella prima parte dell’attuale articolo 420 bis, comma 2, ove si fa riferimento all’ipotesi che l’imputato assente abbia ricevuto personalmente la notificazione dell’avviso dell’udienza.

L’attuale sistema, però, proprio perché invece fondato sull’accertamento della conoscenza effettiva, e non legale, del procedimento, lascia comunque al Giudice la possibilità di ritenere, nel suo libero convincimento, che, anche al di fuori dell’ipotesi suddetta, l’imputato sia comunque a conoscenza del procedimento (e non necessariamente del processo) e che si sia volontariamente sottratto alla conoscenza di suoi atti, tra i quali la chiamata in giudizio.

Un convincimento che il Giudice potrebbe fondare, con argomentazioni adeguate, sulla sicura conoscenza, accertata in capo all’imputato, del fatto che si stiano svolgendo, a suo carico, indagini in ordine a fatti, e ai corrispondenti titoli di reato, i quali gli siano stati chiaramente comunicati. In modo da poter ritenere che l’imputato, proprio a partire da tale dato di conoscenza (con il quale potrebbe essere entrato in contatto con la notifica, a sue mani, di un avviso di concussione indagini contenente una chiara formulazione della contestazione, in fatto e in diritto), abbia deciso di sottrarsi volontariamente agli atti successivi e quindi anche, se non soprattutto, alla chiamata in giudizio.

Questa parte della disposizione dovrebbe essere affrontata ex professo e non già riducendone, per via interpretativa, l’ambito applicativo sino a eliderlo del tutto - il che rappresenterebbe proprio la concretizzazione di quel rischio di interpretatio abrogans di cui si è detto –, in quanto l’estrema rilevanza di tutti gli interessi e le garanzie coinvolte, che non sono solo quelli dell’imputato ma anche quelli delle vittime (come si dirà meglio tra breve), richiedono una valutazione, e un bilanciamento, effettuati con la massima trasparenza.

Ed è forse proprio questo caso, il processo per l’omicidio di Giulio Regeni, a rendere particolarmente evidente all’opinione pubblica come il rischio di neutralizzazione della clausola di salvaguardia dell’ordinamento dai “finti inconsapevoli” non riverberi i propri effetti sociali solo in termini di frustrazione della pretesa punitiva pubblica ma anche, se non soprattutto, in termini di frustrazione dell’aspettativa di giustizia portata avanti dalle vittime e dai loro congiunti; come ha del resto recentemente sottolineato la relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Regeni, approvata all’unanimità il 1° dicembre 2021, la quale ha voluto assumere una presa di posizione forte contro il regime di al-Sisi, partendo dalla «minuziosa ricostruzione» dei fatti della Procura di Roma e arrivando a chiedere al nostro Governo di «richiamare l’Egitto alle sue responsabilità».

Senza alcuna intenzione di entrare nel merito della questione, peraltro ancora sub iudice e certamente non esente da una forte tensione a livello politico, ci si limiterà qui a esaminare sinteticamente le ragioni poste alla base dei due contrapposti provvedimenti e si proverà a trarne qualche considerazione di ordine generale.

Il giudice dell’udienza preliminare ha orientato la propria ratio decidendi nel senso dell’attuazione – anziché dell’implicita abrogazione – della clausola di salvaguardia in oggetto, cercando di “vestirla ab intrinseco”, come si dice, passando in rassegna una serie di evidenze certamente atipiche ma connotative del caso di specie, dalle quali ha ritenuto di poter desumere, con un sufficiente grado di certezza, che i quattro imputati fossero pienamente a conoscenza del procedimento a loro carico e che, con la protezione del loro governo, si fossero scientemente e appositamente sottratti alla conoscenza formale della citazione in giudizio. Queste le ragioni: in primo luogo la circostanza che tutti e quattro gli imputati erano stati sentiti, durante le indagini, dalla magistratura egiziana a seguito di rogatoria attiva dell’Italia seppure in qualità di persone informate dei fatti e non di indagati; in secondo luogo il fatto che la pendenza del procedimento sia stata oggetto di una copertura mediatica internazionale tale da attingere la nozione di “fatto notorio” (a titolo di esempio, il Giudice richiama l’emittente Al Jazeera la quale, in data 4 dicembre 2018, ha diffuso la notizia che «gli ufficiali che il Pubblico Ministero italiano ha accusato di tentato rapimento sono: il Maggiore Generale Saber Tariq, i due colonnelli Hisham Helmy e Atheer Kamal, e i due Maggiori Magdi Sharif e Muhammad Najm»; notizia poi ripresa, tra gli altri, dal sito di Al Quds Al Arabi, testata indipendente panaraba con sede a Londra); in terzo luogo il fatto che gli apparati investigativi egiziani fossero a conoscenza degli sviluppi e degli esiti del procedimento italiano, come comprovato dalle numerose riunioni del cosiddetto “team investigativo congiunto” italo – egiziano e anche dal contenuto di un “memorandum” redatto dalla Procura Generale egiziana in data 26 dicembre 2020, contenente un’accurata descrizione, a fini confutativi, degli elementi di prova raccolti dall’Italia; infine, in quarto e ultimo luogo, il fatto che gli imputati fossero stati ripetutamente invitati, sia per rogatoria che per via diplomatica, a eleggere domicilio in Italia, richiesta rimasta sempre senza esito.

Più complessa l’ordinanza della Corte di Assise che, dopo avere sostanzialmente richiamato l’iter motivazionale della sentenza Ismail, anche nella parte relativa alle (non) presunzioni legali, divide la motivazione in due nuclei contenutistici.

Il primo è dedicato a un rigoroso e attento vaglio critico degli elementi fattuali sui quali il Giudice dell’udienza preliminare ha fondato la propria decisione e della loro reale significanza e capacità persuasiva. Ad esempio, sotto questo profilo, la Corte osserva che nei verbali prodotti dal Pubblico ministero relativi alle informazioni rese dagli imputati in qualità di testimoni davanti alla procura del Cairo, essi risultano identificati attraverso tessere militari senza indicazione delle complete generalità e che, oltretutto, tali audizioni hanno perlopiù riguardato la loro implicazione nell'attività di monitoraggio della condotta di Giulio Regeni a seguito della denuncia resa dal capo del sindacato dei venditori ambulanti, e non il loro diretto coinvolgimento nel rapimento e nell’uccisione del ricercatore italiano. Quanto invece alla risonanza mediatica internazionale, la Corte osserva che i media egiziani in lingua araba hanno mediamente riportato la notizia del processo in modo generico, limitandosi a dare atto della iscrizione di cinque appartenenti alle Forze di sicurezza locali senza che però ne venissero indicati i nomi, pur ammettendo che invece i nominativi dei quattro imputati erano stati espressamente riportati dai maggiori media internazionali in lingua inglese (BBC, Arab News e altri), i quali risultavano comunque ampiamente consultati anche in Egitto.

Su questa prima parte dell’assunto motivazionale dell’ordinanza - costituente il cuore del confronto di merito sul caso concreto tra l’impostazione del Giudice dell’udienza preliminare e quella del Giudice dibattimentale - non si ritiene di esprimere, in questa sede di primissimo commento e a vicenda giudiziaria “aperta”, alcuna valutazione.

Più interessante, per i profili di ordine generale che investe, è la seconda parte dell’ordinanza, nella quale la Corte, dopo avere comunque confutato la pregnanza semantica degli indici fattuali valorizzati dal Giudice dell’udienza preliminare, aggiunge, costruendo una «motivazione doppia», che in ogni caso la clausola di salvaguardia in oggetto non potrebbe essere interpretata come una facoltà, per il Giudice, di procedere in assenza quand’anche risultasse provata, in capo all’imputato, una effettiva conoscenza del procedimento (inteso come pendenza di indagini o di singoli atti in contesto investigativo) che non sia però comprensiva della vocatio in ius, prima davanti al giudice dell’udienza preliminare e poi davanti al dibattimento. Solo la conoscenza della chiamata in giudizio sulle specifiche imputazioni elevate a carico dell’imputato può infatti integrare, secondo la Corte, i requisiti della completa conoscenza necessaria ai fini della instaurazione di un corretto rapporto processuale.

La difesa dal “finto inconsapevole” verrebbe così sostanzialmente neutralizzata, come si diceva, se non del tutto espunta, per via interpretativa, dalla disciplina legale.

Per sostenere tale opzione ermeneutica la Corte si confronta direttamente con le pronunce della Corte Europea dei Diritti Umani già richiamate in Ismail per escludere la valenza di presunzione legale delle situazioni tipiche passate in rassegna dall’articolo 420 bis, comma 2, prima parte, e che, secondo l’ottica fatta propria dall’Assise, ben possono essere richiamate anche per completare, nella stessa direzione, il ragionamento che la Cassazione aveva lasciato in obiter, giungendo così a consolidare quel principio che si è sopra definito della «sostanziale equiparazione».

La pronunce della Corte EDU richiamate sono Colozza c. Italia, 12 febbraio 1985; Sejedovic c. Italia, 10 novembre 2004, e Cat Berro c. Italia, 25 novembre 2008.

Fondamentale è in particolare la pronuncia Sejedovic in cui si attesta chiaramente l’obbligo, derivante dalla Convenzione, di procedere solo nei confronti di chi abbia conoscenza effettiva del processo: obbligo attuato dall’Italia dapprima con la riforma del 2005 (si è detto, con decreto legge n. 17 del 2005 convertito in legge n. 60 del 2005), che ha superato il vaglio della Corte EDU con la sentenza Cat Berro del 2008, e poi con la riforma, attualmente vigente, del 2014 (legge n. 67 del 2014), introduttiva della disciplina dell’assenza.

Da questo principio la Corte d’Assise, portando a compimento il ragionamento anti-presuntivo già sviluppato in Ismail, e attualmente rafforzato anche dalla direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali – anch’essa, come noto, oggetto di recentissimo recepimento - trae quindi, in termini consequenziali, il corollario che solo la conoscenza della chiamata in giudizio, sulle specifiche imputazioni elevate a carico dell’imputato,  possa integrare i requisiti della completa conoscenza necessaria ai fini della instaurazione di un corretto rapporto processuale.

In questo modo la prova della notifica della vocatio in ius torna ad assumere un ruolo centrale ma non più nell’ottica di una “conoscenza formale” - ottica del resto definitivamente già dalla sentenza Colozza e dalla conseguente riforma del 2005 -, bensì nell’ottica dell’affiancamento alla prova della notifica della chiamata in giudizio di un vaglio anche sostanziale, e concreto, sulla sua idoneità ad assicurare all’imputato la conoscenza effettiva del processo.

Da questa visione complessiva, effettivamente dotata di coerenza e consequenzialità logica in relazione alle fonti sovranazionali, resterebbe però obiettivamente marginalizzata, recte esclusa, la clausola sussidiaria di difesa dai “finti inconsapevoli”.

E ne resta esclusa, a ben vedere, proprio perché - come acutamente si sottolinea in un fugace ma significativo passaggio (§ 7 del Considerato in diritto) di Ismail - questa clausola rappresenta un corollario del nostro ordinamento interno, che storicamente riconosce anche il diritto dell’imputato di non partecipare al processo e che quindi preferisce declinare le garanzie dell’imputato, di conoscenza effettiva del processo, nel senso della previsione, comunque, anche di una sua “assenza volontaria” dal processo stesso.

Da ciò deriva il potere/dovere del Giudice di accertare la volontarietà dell’assenza dell’imputato, che esita anche nella possibilità di ritenere, a seguito di un rigoroso accertamento concreto e sul fatto - esente, come chiarisce Ismail, da qualsiasi automatismo o suggestione presuntiva - che tale assenza sia il frutto di una consapevole e volontaria scelta dell’imputato, eventualmente perseguita anche ponendosi, già prima della chiamata in giudizio, nella condizione di non poterne essere raggiunto.

La ragione del disallineamento tra questa parte della disciplina interna e il diritto convenzionale origina quindi dal fatto che l’accertamento della “finta inconsapevolezza” rappresenta una porzione giuridica assente dal diritto convenzionale, di impronta filosoficamente individualistica e perciò esclusivamente focalizzato sulla garanzia dell’imputato di conoscenza e di partecipazione al processo.

La giurisprudenza della Corte EDU è notoriamente orientata all’implementazione del proprio acquis progressivamente costruito in forza della propria giurisprudenza consolidata, del che si ha conferma nel rapporto esplicativo al Protocollo addizionale n. 14, che ha modificato l’articolo 28 della Convenzione, laddove si afferma che «giurisprudenza consolidata» della Corte è in via tendenziale la giurisprudenza consolidata di una Camera ma può anche essere, eccezionalmente, una sola sentenza della Grande Camera, con particolare riferimento alle cosiddette “sentenze di principio” o “sentenze pilota”.

La Corte EDU ragiona quindi in termini di esclusiva coerenza e implementazione interna: prova ne è che Il diritto nazionale e le decisioni dei giudici degli Stati membri rientrano nella parte “in fatto” e non nella parte “in diritto” delle sentenze della Corte, la quale si limita a porre a confronto le soluzioni concrete adottate dai giudici nazionali con i parametri convenzionali.

Non è quindi nella sede della Corte EDU che particolari esigenze avvertite dal nostro ordinamento interno possono essere considerate e armonizzate con i principi convenzionali.

E allora potrebbe, forse, azzardarsi una lettura della disciplina del “finto inconsapevole” contestualizzata nella più generale questione della – come è stata autorevolmente e icasticamente definita – «colonizzazione sovranazionale in materia di diritti fondamentali»: un processo potenzialmente viziato dal fatto che, come si è detto a proposito del diritto convenzionale (e come si può parimenti affermare, mutatis mutandis, per il diritto unionale), il sistema sovranazionale – o “euro-unitario” – nel suo complesso tende a declinare il discorso dei diritti in modo strumentale ad estendere progressivamente gli ambiti e le funzioni a esso attribuiti, in costante dialettica con gli ordinamenti nazionali. E senza considerare le proiezioni sociali e ordinamentali dei diritti che sono invece fondamentali nel nostro sistema costituzionale e che vengono abitualmente pretermesse nel discorso sovranazionale in funzione delle «priorità obiettivanti» i rispettivi sistemi: il che è particolarmente evidente nel caso del diritto CEDU, interamente fondato su una concezione “forte” di persona, vale a dire intesa nella sua incondizionata individualità, esercitata davanti alla Corte EDU nella qualità di “ricorrente”; a fronte di un quadro costituzionale molto più complesso il quale richiede, al contrario, di contestualizzare sempre la persona all’interno della vita comune, cioè come una persona non assolutizzata nella propria individualità e nella conseguente continua ego-rivendicazione di diritti, bensì “incarnata” anche, se non soprattutto, nell’adempimento di doveri verso gli altri: quali sono gli obblighi di solidarietà e gli interessi pubblici e ordinamentali che devono essere del pari positivizzati attraverso il processo di mediazione democratica.

Il maximum standard del quale per un certo periodo si è parlato a proposito della forza espansiva degli articoli 51 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, dovrebbe insomma lasciare spazio a un’espansione controllata delle garanzie, «derivante da una lettura sistematica, non frammentata di tutti i beni costituzionalmente rilevanti»[2].

Per quanto riguarda la specifica problematica dei “finti inconsapevoli”, si pone ora la necessità di contemperare l’attuazione dei principi convenzionali, chiarissimi ma unidirezionalmente orientati sul maximum standard di garanzia dell’imputato, con principi interni parimenti dotati di fondamento costituzionale; fra questi vengono in rilievo non solo il principio della obbligatorietà dell’azione penale, previsto all’articolo 112, ma anche il principio di uguaglianza di cui all’articolo 3, inteso quale “volano” per il fondamento costituzionale della tutela delle vittime, in particolare delle vittime in condizione di particolare vulnerabilità: principio che, peraltro, attiene direttamente anche al diritto dell’Unione, con particolare riferimento alla direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato - recepita dall’Italia con decreto legislativo n. 212 del 2015 -, la quale prevede anche per la vittima del reato, intesa non solo come vittima diretta ma anche come familiare di una persona la cui morte sia stata causata direttamente da un reato (art. 2, comma 1, lett. a), ii), il diritto di partecipare ai procedimenti penali e il conseguente diritto di ottenere, da essi, l’accertamento dei fatti e le statuizioni risarcitorie.

Questo si pone in correlazione, proprio via articolo 3, secondo comma, con l’obbligo repubblicano di rimuovere gli ostacoli che impediscono la realizzazione di tale diritto – il diritto alla verità, il diritto alla giustizia: espressioni certamente tra le più evocative dell’uguaglianza - e quindi si pone anche in correlazione con una normativa processual-penalistica che, proprio in una logica di «espansione controllata e sistematica delle garanzie», intenda nondimeno proteggere la vittima del reato dall’arresto del processo originato dalla sua denuncia - specie quando si tratti di delitti commessi con violenza alla persona, per motivi d’odio o finalità discriminatorie - quando risulti che la mancata partecipazione dell’imputato sia esclusivo frutto della sua scelta, deliberata e volontaria, di sottrarsi ab imis alle indagini e alla comunicazione della chiamata in giudizio.

Un possibile percorso logico-giuridico di analisi della questione potrebbe seguire il pattern del vaglio di costituzionalità sull’art. 420 bis del codice di procedura penale, nella parte in cui appunto prevede che si possa procedere in assenza dell’imputato «quando risulti comunque con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento (e non del processo) o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo», ponendolo direttamente, e non attraverso una sua interpretatio abrogans, a confronto, via articolo 117, con il diritto CEDU; e facendo però entrare in tale vaglio sistematico anche la prospettiva ordinamentale e costituzionale interna, in uno alla tutela delle vittime vulnerabili specificamente prevista dal diritto dell’Unione; andando così a inserirsi in quella tendenza alla proiezione della Costituzione nello spazio giuridico europeo, perseguita mediante il coinvolgimento, se non la centratura, della Corte costituzionale quale istituzione privilegiata nell’interlocuzione e nel dialogo con le Corti sovranazionali.

Tendenza di cui rappresentano oltretutto recentissimi esempi le due “ordinanze gemelle” rese dalla Corte costituzionale il 18 novembre 2021, n. 216 e 217, con le quali la Corte ha proposto due distinti rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia in tema di mandato di arresto europeo, con specifico riferimento a ipotesi attualmente non contemplate come casi di rifiuto di consegna.


 
[1] Su tale principale aspetto della pronuncia nomofilattica in esame, si veda, pubblicato su questa rivista, L. Fidelio, Il processo in assenza preso sul serio, https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-processo-in-assenza-preso-sul-serio

[2] M. Cartabia, Convergenze e divergenze nell’interpretazione delle clausole finali della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in Rivista AIC, n. 4, 2017, pp. 1-17.

15/12/2021
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