Dopo la gloriosa e irripetibile, ma breve, stagione del neorealismo, la “commedia all’italiana” è stato il marchio di fabbrica di maggior successo del nostro cinema.
Genere che viene da lontano, dai “telefoni bianchi” del Ventennio.
Poi si rinnova e si trasforma negli anni fatidici del boom economico, dal prototipo omologante di Poveri ma belli; attraversa con baldanza e con alterne fortune critiche gli anni a seguire – appena messo culturalmente in ombra dal cinema di impegno civile (Rosi, Petri, Pontecorvo) e dal cinema di metafora degli anni ’60 e ’70 (Ferreri, Bertolucci, Bellocchio, Fellini), se non metafisico (Antonioni) - per approdare, infine, a una sorta di gagliarda palingenesi al contrario con i “cinepanettoni”.
La “commedia all’italiana” è una (mala?)pianta che ha fruttato (in termini di incassi) e fruttificato molto e, con-sensuale e consenziente, si è retta su un lungo patto faustiano con il grande pubblico, di cui ha drenato e spremuto gli umori più profondamente autentici, ma anche i più cinici, per non dire i più feroci (Il sorpasso, molti personaggi di Sordi).
Forse il suo torto più grande è stato di avere descritto, ma non mai proscritto, le miserie morali e gli inutili, perché tardivi, slanci “eroici” o semplicemente solidali di una italianità quasi sempre meschina, seppure – malauguratamente – verace, dove il lievito dell’autoironia, che pure in qualche modo ha fermentato nel suo gran calderone sociologico, alla resa dei conti è quasi sempre annegato nel qualunquismo (politico, morale, estetico), e la superficialità non si è tradotta in leggerezza. Insomma un italian touch greve, ben lontano dall’american touch o dalla finesse dei francesi.
Non si può negare che a questa tradizione appartiene anche il cinema di Paolo Virzì, come nell’occasione dell’uscita del suo ultimo film ha ricordato Il Sole.
Ma nei suoi film non c’è mai volgarità o compiacimento per i vizi, e neppure acida cattiveria.
Che siano più o meno riusciti, in essi c’è semmai uno sguardo pudico e affettuoso, anche se non banalmente indulgente.
Se riandiamo alla sua opera d’esordio - sono ormai quasi vent’anni - La bella vita, troviamo una coppia in crisi - operaio licenziato lui, cassiera di supermercato lei, che si lascia sedurre da un mini-divo di una TV locale -, non avulsa dal contesto socio-economico come di regola nella commedia all’italiana, ma inserita, direi incastonata, in un ambiente reale (la crisi delle acciaierie di Piombino), quasi dalle parti di un Ken Loach.
Eravamo già un po’ dentro, ma anche fuori del genere.
E’ quello che accade pure in Il capitale umano, opera matura, anche se lontana dalla fresca rivelazione degli inizi.
Il plot è tratto dal romanzo americano di S. Amidon e pur dovendo pagare questo tributo all’invenzione altrui, Virzì costruisce con abilità e personalità una storia non priva di suspence, con un centro tragico-poliziesco (l’investimento letale, per mano di un ignoto pirata della strada, di un cameriere del cenone di fine anno scolastico, a cui partecipano tutti i protagonisti), in verità un pretesto narrativo da cui si irradiano e nel quale si intersecano i punti di vista dei personaggi.
E, infatti, per arrivare allo scioglimento dell’enigma omicida la medesima serata, con quanto l’ha preceduta negli ultimi sei mesi, viene raccontata in quattro capitoli attraverso l’esperienza personale di ciascun personaggio, in un continuo passaggio attraverso le sliding doors delle soggettive.
E’ così che il film sia apre con l’arrivo alla splendida villa dei Bernaschi di Dino Ossola (Fabrizio Bentivoglio), piccolo ma benestante imprenditore del settore immobiliare.
Con la scusa di accompagnare la figlia Serena dal fidanzato Massi(miliano) Bernaschi comincia ad aggirarsi per la proprietà, compiaciuto e invidioso di tanto lusso, fino a rimanere coinvolto a fare il quarto in una partita di doppio con il padrone di casa Giovanni (Fabrizio Gifuni), algido finanziere d’assalto e, si capisce, proprietario e gestore di un hedge fund ad alto rischio e insuperabile rendimento.
Virzì si serve del tennis come stereotipo di cooptazione di classe (come nei Finzi Contini dell’ultimo De Sica o nello spietato Match Point di Allen; al contrario nello straordinario racconto omonimo di Foster Wallace il gioco del tennis diventa un solipsistico trip mentale).
Infatti, quello scorcio di partita è galeotto di una “amicizia”, interessata e provvisoria, di cui Dino approfitta per entrare nel grande gioco del denaro: si fa prestare 700 milioni dalla banca, con l’aspettativa di lucrare il 40% di rendimento in pochi mesi.
Secondo una facile previsione dello spettatore il fondo crolla e Giovanni, preso da ben più cupi pensieri di probabile default, con fastidio e distacco confessa a Dino la perdita pressoché totale del suo azzardato investimento.
Nel frattempo Carla Bernaschi (Valeria Bruni Tedeschi), casalinga viziata e insoddisfatta, si fa regalare dal marito - come altri regalerebbe un profumo o un vestito (tanto i soldi sono degli altri) – il vecchio teatro cittadino che cade a pezzi, con la promessa di riportarlo all’antico splendore, in omaggio a un suo vecchio sogno di attrice(tta) mancata.
Per parte sua Serena, adolescente bizzosa e scostante con gli adulti, si sta sempre più allontanando da Massi, di cui evidentemente avverte la pochezza morale, e dal mondo dorato e vacuo che il giovane rappresenta; e si avvicina a Luca, ragazzo sbandato ma di talento e di cuore, in terapia come ex(?) tossicodipendente da Roberta (Valeria Golino), psicologa dell’ASL e compagna del padre di Serena.
Alla cena di fine anno scolastico (dai preti) tutti i personaggi si ritrovano fisicamente riuniti allo stesso tavolo, eppure distanti, ciascuno con le proprie angosce: Dino che ha perso tutto e ben più del suo, Giovanni che teme la bancarotta, Carla che non avrà più il suo teatro, Serena divisa tra la rottura con Massi e il nuovo possibile “amore puro”, Roberta in ambasce per la tarda gravidanza.
Nella diaspora dei personaggi, transfughi della cena, resta impigliata la tragedia che darà la svolta alla storia. Infatti, per l’investimento mortale del ciclista la polizia sospetta di Massi, che avrebbe guidato ubriaco il suo fuoristrada.
Ma la sua innocenza gli varrà il ricatto di Dino ai Bernaschi, che da lui comprano le prove della estraneità del figlio con la restituzione dei 700 milioni, più il profitto promesso, naturalmente con transazione estero su estero.
Sarà, quindi, il vero colpevole/incolpevole a pagare, capro espiatorio stritolato dalle circostanze e dalle miserie di un mondo che gli è alieno e che istintivamente il ragazzo rifiuta.
Con la sua ubiquitaria ambientazione di montaggio tra varie cittadine della Brianza e dintorni (che ne restituiscono una quinta immaginaria eppure reale).
Il capitale umano tratteggia con piglio severo un modo di essere e di pensare spavaldo, rapace e privo di scrupoli (Dino perfino più di Giovanni), o al massimo inetto e insulso ma complice (Carla).
E’ il mondo del denaro fatto alle spalle degli altri, per il quale si è disposti a qualsiasi insensatezza (l’assurdo debito di Dino con la banca, la chiusura della sua attività imprenditoriale con la sicumera del profitto) fino a una bassezza così proterva da tingersi di violenza sessuale (il bacio profondo estorto a Carla, che potrebbe perfino sembrare il cinico contrappasso al darsi di lei al critico teatrale (Luigi Lo Cascio) in un impeto volontaristico, fondamentalmente frigido, di libertà fasulla).
Tra queste macerie morali di sommersi l’unico personaggio a salvarsi (neppure Serena e Luca, se non forse in futuro) è quello di Roberta, dolce e comprensiva, rispettosa della dignità delle persone, a cui la Golino offre una interpretazione di grande sensibilità, piena di sfumature.
Azzardo: una rivincita del pubblico (lei dipendente del SERT) sulla fagocitazione nel privato e bieco rifiuto di qualsiasi sentimento di empatia, che tutto sacrifica alla smania predatoria per la “roba”?
Con apparente sorpresa il film si chiude con uno spettacolare ricevimento a villa Bernaschi, quasi una liturgia del ringraziamento per lo scampato pericolo e un omaggio alla rinvigorita opulenza di un pugno di super-ricchi.
Ma quel totale dall’alto sulla terrazza imbandita e pullulante di eleganti mise, è un po’ come lanciare lo sguardo nei saloni del Titanic poco prima del disastro.
Così, se Giovanni non ci viene consegnato come il Madoff della Brianza, il finale è però aperto e sottilmente ingannevole.
Allora, commedia sì, certamente, ma lucida ed “educativa”, con ambizioni di documento (fa un po’ venire in mente la bella prova del Gioiellino di Molaioli, che scavava dall’interno nel crac Parmalat).
Un appunto va, comunque, fatto: alla scelta di recitazione di Bentivoglio, spesso sopra le righe, da “mostro” gigione alla Sordi.
E, purtroppo, questo fa molto “commedia all’italiana”.