Magistratura democratica
Magistratura e società

Il presidente Macron e la libertà di blasfemia

di Nicola Colaianni
già consigliere della Corte di cassazione e ordinario di diritto ecclesiastico, Università di Bari

Le ripetute dichiarazioni del presidente Macron in difesa della libertà di blasfemia ripropongono i temi del rispetto della dignità nella satira blasfema e del modello di laicità adeguato alle società multiculturali

1. Le dichiarazioni di Macron 

«Depuis les débuts de la Troisième République il y a en France une liberté de blasphémer qui est attachée à la liberté de conscience». Lo ha dichiarato il primo settembre scorso a Beirut il presidente francese Emmanuel Macron[1] a proposito del processo d’appello che si sta svolgendo in Francia nei confronti dei quattordici imputati della strage del 7 gennaio 2015 nella sede del giornale satirico Charlie Hebdo.  Non è la prima volta che Macron avverte l’esigenza di ricordare che in Francia è garantita la libertà di blasfemia, come in effetti è grazie alla Loi sur la liberté de la presse del 29 luglio 1881 (e successive modificazioni, che hanno lasciato intatto solo il primo articolo). Ancora quest’anno, a febbraio, lo aveva fatto per difendere una ragazza sedicenne, Mila, minacciata di morte e di stupro e costretta ad abbandonare la scuola precauzionalmente (ne erano stati pubblicati on line l’indirizzo di casa e il numero di telefono) per aver postato su Instagram un video nel quale pronunciava invettive contro l’Islam e il “vostro Dio” attingendo ad un turpiloquio sfrenato[2]

Allora la dichiarazione di Macron mise fine alle polemiche innescate all’interno del governo stesso  dalla ministra della giustizia, Nicole Belloubet, la quale, pur ovviamente condannando le minacce, aveva considerato quelle frasi un «insulte à la religion» e un «atteinte à la liberté de conscience», suscitando la reazione del collega ministro dell’interno Cristophe Castaner, che in quella dichiarazione ravvisò l’insinuazione che la critica della religione, quindi, fosse proibita. La Belloubet ammise poi di aver sbagliato nella formulazione del suo pensiero ma il caso rimase ugualmente controverso nell’opinione pubblica, anche perché la Procura di Vienne aveva aperto un’indagine nei confronti, oltre che  degli autori delle minacce, anche della ragazza, ipotizzandone nelle dichiarazioni la  «provocation à la haine à l’égard d’un groupe de personnes, à raison de leur appartenance à une race ou une religion déterminée» di cui all’art. 33, al. 3, della legge del 1881. L’azione penale fu rapidamente accantonata  per mancanza evidente del dolo specifico[3] ma suscitò un dibattito con spunti di grande interesse intorno alle implicazioni del principio fondamentale di laicità. Di seguito se ne colgono due.

 

2. Blasfemia e satira 

Contro chi riteneva che la laicità assorbisse ogni motivo di critica alle dichiarazioni della ragazza, l’ex ministra dell’ambiente e candidata alle elezioni presidenziali, Ségolène Royal, negò che la questione potesse porsi su quel piano in base alle «déclarations d'une adolescente de 15 ans (…) comme le parangon de la liberté d'expression»: nel caso, secondo la Royal,  era venuto semplicemente a mancare «un peu de respect» perché «critiquer une religion ça n'empêche pas d'avoir du respect». L’osservazione ha colto verosimilmente nel segno visto che Macron stavolta non è stato tranchant come l’altra e ha ricordato anche lui il limite del rispetto, aggiungendo alla dichiarazione di principio sulla libertà di blasfemia che «cette liberté implique en revers une décence commune, une civilité, un respect» e che con «la liberté d'expression, il y a le devoir de ne pas avoir de discours de haine». 

Che l’esercizio di ogni libertà incontri il limite del rispetto degli altrui diritti è ovviamente indiscutibile e ciò vale anche per un principio supremo, capace di connotare una forma di Stato[4], come la laicità: una laicità irrispettosa delle diverse posizioni in campo, cioè non neutrale e imparziale, sarebbe una contraddizione in termini. Tuttavia, l’evocazione del respect accanto alla décence commune e alla civilité senza distinzione in entrambi i casi, sui quali si è acceso il dibattito ed è intervenuto il presidente francese, dà l’impressione che essi siano analoghi quando, invece, presentano delle specificità, che richiedono di valutare diversamente anche il peso specifico dei limiti indicati. 

La differenza non è nel tasso di volgarità del lessico, di gran lunga maggiore in quello della ragazza, perché in tale ipotesi si confonderebbe la blasfemia con il turpiloquio. Una linea interpretativa, questa,  pur disperatamente tentata nel passato in Italia per giustificare la legittimità dell’incriminazione della bestemmia in ragione della tutela del «buon costume contro i comportamenti pubblici volgari e sconvenienti»[5] e nella presupposizione che sia «assurdo e fuori di luogo il voler ricondurre la bestemmia alla manifestazione del pensiero e alla libertà costituzionalmente garantita di tale manifestazione (sia sotto il profilo dell’art. 21 che dell’art. 19)»[6]. Ma in effetti la volgarità dell’espressione non esclude che si tratti della manifestazione, sia pure rozza, di un pensiero: che nella specie è l’opposizione polemica di una militante LGBT all’oscurantismo  del “vostro Dio”, il Dio dell’islam, verso gli orientamenti sessuali. È in questa evocazione, una “parola contro Dio”,  la bestemmia di Mila, dal punto di vista di un musulmano, non essenzialmente nella volgarità del lessico, che senza quella evocazione scadrebbe nel semplice turpiloquio. Ciò che distingue la bestemmia, volgarmente espressa, dal turpiloquio, invero, è proprio  la presenza di un pensiero, seppure non articolato e argomentato. D’altro canto, la bestemmia può essere espressa, e spesso lo è, in linguaggio formalmente corretto ma contenutisticamente offensivo per la sensibilità del fedele. È il caso della più classica delle bestemmie, quella imputata a Gesù dai sinedriti. Gesù a precisa domanda aveva risposto laconicamente che era il “figlio di Dio”. Una bestemmia alle orecchie del sommo sacerdote, che si stracciò le vesti all’udirla: «Ha bestemmiato! Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Ecco, ora avete udito la bestemmia» (Mt. 26, 65; Mc. 14,64)[7]

Accantonato, pertanto, il tasto della volgarità, maggiore o minore, rimane che anche le vignette pubblicate sul periodico Charlie Hebdo dal punto di vista degli islamisti fossero blasfeme. Ci troviamo, infatti, di fronte alla «caricatura e, cioè, la consapevole ed accentuata alterazione dei tratti somatici, morali e comportamentali di una persona realizzata con lo scritto, la narrazione, la rappresentazione scenica»[8]. E nelle vignette caricaturali era raffigurato il profeta Maometto (in una di esse, tra l’altro, con un turbante a forma di bomba). 

Dopo le carneficine di Parigi storici, sociologi, psicologi – meno, et pour cause, i giuristi[9] , consapevoli della necessità di una selezione non meramente idealistica dei beni da tutelare penalmente per non alimentare un diritto penale simbolico e privo di effettività - sono tornati ad interrogarsi sulla necessità e convenienza per la sicurezza pubblica di un limite alla libertà di espressione almeno in contesti sociologicamente variegati, come ormai quello europeo, in cui tende ad abbassarsi il livello di tolleranza dell’irrisione anche dei valori, cui i terroristi dichiarano di ispirarsi. 

D’altro canto, la giurisprudenza della Corte EDU, già prima di quegli attentati, era incline a lasciare in merito un ampio margine di apprezzamento agli ordinamenti nazionali, ritenendo non illegittimo tutelare le convinzioni religiose (in particolare, quelle islamiche) addirittura da frasi contenute non in un saggio filosofico o teologico ma in un romanzo[10].  Sotto la forma della tutela delle convinzioni religiose si confermava sostanzialmente la legittimità dell’incriminazione della bestemmia. Nella maggior parte dei paesi europei, comunque, è evidente da decenni la tendenza, incoraggiata anche dal Parlamento europeo[11],  a decriminalizzare la blasfemia.

Fin qui, dunque, le analogie tra i due casi: espressioni entrambe di blasfemia. Ma nel Charlie Hebdo la blasfemia è una modalità della satira politico-religiosa, per cui rilevano altre considerazioni, che sono legate appunto a tale genere comunicativo e appaiono prevalenti rispetto alla generica libertà di blasfemia tanto da assumere rilievo discriminante anche negli ordinamenti  - come quello italiano -  in cui quella libertà non è sancita, vista la sanzione amministrativa della bestemmia. Se ne individui il fondamento in una specifica libertà dell’arte, che per vero solo in alcuni casi può essere invocata, o nella generale libertà di manifestazione del pensiero o, quanto alla satira religiosa, nella stessa libertà di religione (artt. 9 CEDU e 21-19 Cost. it.), non può revocarsi in dubbio la protezione costituzionale della libertà di satira quale diritto fondamentale. Essa trova posto in quelle materie privilegiate - dalla religiosa alla scientifica, dall’artistica alla politica – sulle quali non può farsi gravare altro limite oltre quelli espressamente previsti dalla Costituzione. Che la satira, soprattutto se fatta attraverso vignette, non contenga un pensiero costruito e composto secondo le regole del saggio critico non rileva perché anzi essa è strutturalmente decostruita e decompositiva[12]. La sua repressione in quanto vilipendio o blasfemia, quindi, non solo sortirebbe il cosiddetto “chilling effect” sulla produzione di libri «not strictly conformist or “politically (or religiously) correct»[13] ma finirebbe per tutelare le religioni nuovamente come «beni di civiltà di interesse generale»[14]. Questa civilizzazione, e politicizzazione, delle fedi religiose e del loro patrimonio dommatico, peraltro, priverebbe nel caso di un punto di riferimento "altro" le voci dell’Islam critico, che si battono per una liberalizzazione del pensiero e del diritto anche nei paesi islamici[15], dei quali rafforzerebbe piuttosto i regimi autoritari ed i movimenti fondamentalistici. 

 

3. Uno sguardo alla  giurisprudenza 

Che per scriminare la pubblicazione di quelle vignette satiriche non fosse necessario invocare la libertà di blasfemia si deduce, del resto, dalla motivazione della sentenza assolutoria emessa nei confronti del direttore del periodico, tratto a giudizio per il reato di diffamazione aggravata per ragioni di appartenenza religiosa ai sensi dell’art. 33, al. 3,  della Loi sur la liberté de la presse,  cit.: mancanza di dolo perchè «le contexte et les circonstances de sa publication dans le journal Charlie Hebdo apparaissent exclusifs de toute volonté délibérée d’offenser directement et gratuitement l’ensemble des musulmans»[16]. Analoga motivazione – il disegno «n’avait ni pour objet ni pour but de stigmatiser la communauté des catholiques ou même l’ensemble du clergé» - aveva sorretto l’assoluzione del disegnatore satirico Plantu per una vignetta pubblicata sul suo sito web, pur dallo stesso tribunale ritenuta scioccante per i fedeli cattolici[17], in linea con l’interpretazione già avallata dalla Cassazione sulla non punibilità di vignette offensive ma non aventi «pour objectif d’outrager les fidèles de confession catholique, ni de les atteindre dans leur considération en raison de leur obédience»[18]

Lo stesso tipo di motivazione – la libertà di stampa, prevalente sul carattere provocatorio ed irriverente del mezzo di comunicazione, giornale cartaceo o sito web,  in cui vennero pubblicate le vignette  poi riprodotte dal Charlie Hebdo – era stato utilizzato dal tribunale danese di Aarhus[19], pur alla stregua di un ordinamento che alla sezione 140 del codice penale vieta la blasfemia nei confronti dei dogmi di qualunque confessione religiosa. Se si considera che analoghe ragioni erano state addotte a sostegno dell’assoluzione di giornalisti anche in ordinamenti, come quello italiano, che pure non riconosce la libertà di bestemmia[20], appare evidente come ci si trovi dinanzi all’applicazione di un principio consolidato nella tradizione costituzional-penalistica non solo della Francia ma degli stati europei: la libertà di critica, anche in forma di satira, è fondamentale e, se esercitata attraverso la stampa, attenua, tendenzialmente fino ad annullarla, la capacità lesiva della condotta offensiva anche per effetto della consapevolezza, che il pubblico ha o può con ordinaria diligenza avere, di accedere ad un sito notoriamente e vistosamente caratterizzato dalla presentazione esasperatamente paradossale di temi anticlericali. Frequente tra i giudici di merito è perciò l’assoluzione per mancanza di dolo[21], sul presupposto che nei delitti di vilipendio o di insulto rileva anche il luogo non neutrale o generalista, fisico o virtuale che sia, in cui la satira viene svolta. 

 

4. Decenza, civiltà e rispetto 

Se si accoglie l’idea della sostanziale differenza tra la blasfemia di un pensiero postato sui social media e la blasfemia di vignette o scritti satirici, che possono talora mettere radici addirittura nell’arte, pare che i tre limiti menzionati nella recente dichiarazione del presidente Macron non possano applicarsi indifferentemente in entrambi i casi. Certamente se ne può reclamare l’osservanza per il post ma non anche, o in egual misura, per le vignette satiriche. Già la nozione di décence commune è ambigua. Rimanda, a rigore, ad un concetto politico di George Orwell, ripreso in questi anni nel dibattito filosofico in Francia, secondo cui «La 'common decency' serait ce 'sens moral inné' qui incite les gens simples à bien agir»: non, quindi, un sentimento generale, comune a tutti gli uomini, perché  Orwell «n’attribue pas la décence ordinaire à tous les hommes sans exception […], mais uniquement aux gens les plus simples»[22]. Comunque, non pare che tale nozione non comprenda, e da Macron non sia stata adoperata per richiamare, quel «normale sentimento di costumatezza», la cui lesione rileva agli effetti giuridici perchè può provocare «fastidio e riprovazione»[23]. Ora, se tale limite può ben operare per un post, non pare possa condizionare la satira, che non di rado trasmette un messaggio proprio con espressioni o disegni indecenti. Associata alla blasfemia, come nella dichiarazione di Macron, la decenza genera un ossimoro: una blasfemia decente può essere auspicabile ma, di fatto e nella percezione soggettiva dei più, non esiste. 

Anche la nozione di civilité, intesa come cortesia, educazione, buona creanza, poco si addice alla satira blasfema. Si potrebbe però intendere che essa nelle nostre società multiculturali e multireligiose implichi una responsabilità sociale, la considerazione delle possibili o probabili conseguenze che l’atto blasfemico può suscitare[24]: il che potrebbe addirsi anche alla satira, sostenendosi che essa dev’essere civilmente “sostenibile” tanto quanto la critica alle grandi religioni dev’essere più documentata e rigorosa date le maggiori e più violente reazioni che essa può suscitare. Ma l’auspicio di una satira responsabile, che si ponga ognora il problema delle conseguenze, è connesso con la politica, ordinariamente quella della maggioranza; laddove la satira fatta professionalmente non prende partito per una determinata politica, è libera nei fini. 

Esclusa l’applicabilità, o almeno la piena applicabilità, della décence commune e della civilité alla satira, rimane il limite del rispetto. Qui, trattandosi di satira politico-religiosa, occorre distinguere tra il sentimento dei singoli e dei gruppi e l’apparato istituzionale delle organizzazioni religiose: queste sono anche dei poteri che condizionano la vita pubblica e, quindi, come osservò Salman Rushdie nella sua dichiarazione di condanna dell’attentato al Charlie Hebdo, «Religions, like all other ideas, deserve criticism, satire, and, yes, our fearless disrespect»[25]. Bisogna cioè tener conto della direzione della satira irrispettosa, della sua vittima: se questa è il potere, l’istituzione di potere, la satira non può subire i limiti, cui andrebbe incontro se, con le stesse modalità, colpisse un soggetto debole[26]. Solo nei confronti delle persone, singole o in gruppo, dunque, deve operare il rispetto: e non nei confronti di ogni loro condotta perché altrimenti ogni atto satirico blasfemo sarebbe impedito. La libertà di pensiero, che sta dietro la satira, trova il suo limite solo nella dignità della persona presa di mira, che va rispettata perché «assolve ad una funzione di limite alla libertà: quindi, all’esercizio dei diritti che proprio dalla dignità scaturiscono e su di essa si fondano»[27]. Deve allora subentrare  un dovere di astensione di fronte alle condizioni personali (difetti fisici, appartenenze religiose, orientamenti sessuali, ecc.)[28] perché, quando non c’è rispetto per la dignità umana, magari «non c’è insulto, ma nemmeno riconoscimento; la persona coinvolta semplicemente non viene 'vista'»[29]. In tal senso si capisce l’insistenza della giurisprudenza nel sottolineare che la satira, nell’operare «una rappresentazione intuitivamente simbolica che, in particolare una vignetta, propone quale metafora caricaturale», non si può spingere, tuttavia, fino all’insulto gratuito ad personam, tale da esporre la vittima, «oltre il ludibrio  della sua immagine pubblica, al disprezzo della persona»[30].  

Ma va avvertito che in tal caso ordinariamente si oltrepassano i confini della blasfemia satirica per nutrire il sentimento dell’odio e per provocare all’odio. In questo caso non è invocabile la libertà di blasfemia perché si entra nel campo della «provocation à la haine à l’égard d’un groupe de personnes, à raison de leur appartenance à une race ou une religion déterminée» , punita dall’art. 33, al. 3, della Loi sur la liberté de la presse francese, o del reato di cui all’art. 604-bis del nostro codice penale commesso da «chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». Si tratta di un limite alla libertà di espressione, che, conformemente ad una tendenza registrabile a livello internazionale, individua come bene fondamentale non più i contenuti di fede ma le persone che li professano, non più la divinità o i suoi profeti ma i credenti, sanzionando i messaggi di odio, in quanto minacce non solo alla incolumità delle persone ma anche alla sicurezza della società.

 

5. Laicità: due pesi, due misure?

La considerazione e i limiti del rispetto nelle società multiculturali e multireligiose consentono di cogliere un secondo spunto nel dibattito innescato dalle dichiarazioni del presidente Macron. È la questione posta da cinque intellettuali, filosofi e sociologi, a riguardo del caso Mila: «Pourquoi, enfin, quand un amuseur public et adulte s’exprime sur une radio d’Etat pour dire à peu près la même chose qu’elle sur le Christ, on n’y voit pas à redire, grâce à la liberté d’expression concernant la critique des croyances ?»[31].

La preoccupazione è ben fondata e muove dai problemi derivanti dall’impatto, comune ai paesi occidentali ma particolarmente acuto in Francia, della laicità con una religione come l’islam. Il principio di laicità, ha scritto la nostra Corte costituzionale nella sentenza 203/1989 citata, «implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni in regime di pluralismo confessionale e culturale». Ma la laicità à la française è storicamente cieca di fronte alle differenze cultural-religiose presenti nella società, come dimostrato emblematicamente in questo inizio di secolo dalla legislazione sui simboli religiosi, vietati se portati ostensiblement dai cittadini nello spazio pubblico. Una laicità quasi "disinfettante" e tale da apparire una "religione" a sua volta perché pretende che ogni cittadino sia laico, laddove è lo Stato che ha il dovere costituzionale di essere laico e, quindi, di  fare quanto in suo potere per neutralizzare lo spazio pubblico ma ha pure il dovere, contestualmente, di favorire la libera espressione della propria identità simbolica ad ogni cittadino. 

Questa sorta di fondamentalismo laico, che finisce per battersi in un testa a testa contro i fondamentalismi religiosi, s’è affermato e qualificato per contrapposizione al prepotere e all’invadenza politica della religione dominante in Francia, il cristianesimo, in particolare di denominazione cattolica, che possiede tuttavia nel suo dna il principio «date a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio».  Ma risulta ora spiazzato dall’irruzione di una religione come l’Islam, caratterizzata da una visione olistica del rapporto  religione-mondo-stato (din-dunja-dawla) che prende di mira proprio il dualismo sul quale si basano gli ordinamenti occidentali. La rigidità del modello di laicità, tarato sul cristianesimo, trova difficoltà ad essere applicato nei confronti di una religione a tendenza integralistica, a cui dichiarano di ispirarsi anche frange di estremismo fanatico che non esitano ad utilizzare l’arma del terrorismo per sanzionare condotte percepite come offensive di quel rapporto[32].  Di qui, più che il corretto rispetto per la dignità di ogni persona, la «lâcheté de la justice et de la politique (…) sur les sujets de liberté d’expression quand ils concernent l’islam», denunciata dai cinque intellettuali. 

Certamente, è frutto di una forte vis polemica quest’accusa di codardia, ma è un fatto che il tema del rispetto, come della comune decenza, quale limite della libertà di espressione sia di recente considerazione nel dibattito pubblico, successiva ad un dipresso al timore diffuso dagli attentati islamisti e dallo stesso incremento della popolazione musulmana in Francia come nel mondo[33].  E c’è il rischio che il rispetto si orienti appunto a senso unico, almeno per il momento, nei confronti cioè solo dell’islam: una laicità a doppio standard, “deux poids, deux mesures”, calibrata sulla potenza delle possibili reazioni, forte con i deboli (cristiani ed ebrei) e debole con i forti (musulmani). Da un lato, allora, l’orgoglio della rigida laicità francese, dall’altro l’ignavia della “sottomissione” (Sorbona saudita, menu halal nei ristoranti, donne in maggioranza velate, ecc.) descritta nel romanzo distopico di Michel Houellebecq[34]

A fronte di questi estremi opposti vedremo la laicità pluralista salvata dai fedeli del ceppo giudaico-cristiano? In particolare, dalla Chiesa cattolica che negli ultimi cinquant’anni, dal Concilio Vaticano II fino all’attuale pontificato di papa Francesco, sta riscoprendo e si va, pur con contraddizioni, adeguando alla distinzione tra sfera civile e sfera religiosa?[35]. Sarebbe paradossale. Ma certo la laicità (francese, e non solo) deve ripensarsi se non vuol continuare – come disse anni fa, inascoltato, Régis Debray[36] – ad essere «malintesa, votata al suicidio».

 

 
[1] Le figaro, 1 settembre 2020.

[2] Ecco la frase incriminata (riportata da Le monde del 29 gennaio 2020): «Je déteste la religion, (...) le Coran, il n'y a que de la haine là-dedans, l'islam, c'est de la merde. (...) Il y a encore des gens qui vont s'exciter, je n'en ai clairement rien à foutre, je dis ce que je veux, ce que je pense. Votre religion, c'est de la merde, votre Dieu, je lui mets un doigt dans le trou du cul, merci, au revoir».

[3] «L'enquête a démontré que les propos diffusés, quelle que soit leur tonalité outrageante, avaient pour seul objet d'exprimer une opinion personnelle à l'égard d'une religion, sans volonté d'exhorter à la haine ou à la violence contre des individus à raison de leur origine ou de leur appartenance à cette communauté de croyance»: così il procuratore della Repubblica, Bourrier (https://www.parismatch.com/Actu/Societe/La-polemique-Mila-en-cinq-actes-1672098)

[4] Secondo la qualificazione attribuita alla laicità dalla nostra Corte costituzionale nella nota sentenza 6 aprile 1989, n. 203.

[5] Corte cost. 28 luglio 1988, n. 925.

[6] Cass. sez. un. pen. 27 marzo 1992.

[7] Interessante, peraltro, notare che Gesù venne condannato a morte non per la bestemmia, che non costituiva reato per l’ordinamento romano, ma per l’asserita autoproclamazione come «re dei giudei», che ne faceva un “agitatore del popolo” (Lc. 23, 3-13): accusa non provata, come riconobbe Pilato (Gv. 18, 38; Lc. 23, 13-25), che tuttavia si adeguò al volere della folla, “persuasa” dai capi dei sacerdoti e dagli anziani (Mt. 27, 20).

[8] Cass. civ. 8 novembre 2007, n. 23314, la quale riprende quasi testualmente Cass. pen 2 dicembre 1999, n. 2128, che della satira fornisce una definizione generale come «critica corrosiva e spesso impietosa basata su una rappresentazione che enfatizza e deforma la realtà per provocare il riso».

[9]Il contrasto di posizioni emerge con nettezza, per esempio, nel volume Blasfemia, diritti e libertà. Una discussione dopo le stragi di Parigi, a  cura di A. Melloni, F, Cadeddu, F. Meloni, il Mulino, Bologna, 2015: da un lato storici e teologi si chiedono se la laicità «non dovrebbe portare a configurare come reato le offese più gravi» contro la sensibilità religiosa (G. Ruggieri, L’altro. Alla ricerca di una comprensione, p. 32) e attendono «una risposta che prenda sul serio l’istanza di chi pensa di avere il diritto a non essere offeso» (A. Melloni, Responsorium, p. XVIII); d’altro lato i giuristi evidenziano il tragitto opposto intrapreso dalle legislazioni (G. Fattori, La secolarizzazione dei reati contro il sacro in Italia, pp. 225 ss.; M. Gatti, La blasfemia nel diritto europeo: un «reperto storico», pp. 185 ss.) e rimarcano come «la norma penale sia lo strumento meno idoneo a realizzare la prevenzione» in materia (C. Cianitto, Libertà di espressione e libertà di religione: un conflitto apparente?, p. 220).  

[10] Corte europea dei diritti dell'uomo, I.A. v. Turkey,  13 settembre 2005.  Ecco le frasi incriminate: «Some of these words were, moreover, inspired in a surge of exultation, in Aisha's arms. ... God's messenger broke his fast through sexual intercourse, after dinner and before prayer. Muhammad did not forbid sexual intercourse with a dead person or a live animal».

[11] Raccomandazione n. 1805 (2007) del 29 giugno 2007 su Blasphemy, religious insults and hate speech against persons on grounds of their religion. In generale A. Gianfreda, Diritto penale e religione tra modelli nazionali e giurisprudenza di Strasburgo (Italia, Regno Unito e Francia), Giuffrè, Milano, 2012.

[12] Così M. Domenichelli, La satira è de-costruttiva (decompositiva), in A. Brilli (a cura di), Dalla satira alla caricatura. Storia, tecniche e ideologie della rappresentazione, Dedalo, Bari, 1985, pp. 179-82.

[13] Così la dissenting opinion di tre giudici della Corte europea dei diritti dell'uomo, I.A. v. Turkey,  cit.

[14] Questo, com’è noto, l’oggetto del reato di vilipendio della religione cattolica nella Relazione del guardasigilli sul progetto definitivo del codice penale italiano del 1930.

[15] Cfr., tra le altre, quelle citate da S.J. Al-Azm, La tragedia del diavolo. Fede, ragione e potere nel mondo arabo, Luiss University Press, Roma, 2016, pp. 8 ss.

[16] Tribunal correctionnel de Paris 22 marzo 2007, in http://lejuriste.montadalhilal.com/montada-f40/topic-t1103.htm, in linea con la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ. 14 novembre 2006, n. 487; Cass. crim. 14 febbraio 2006, n. 42).

[17] Tribunal correctionnel de Paris 30 settembre 2014, confermata da Cour d’appel de Paris 2 luglio 2015, di cui stralci possono leggersi in http://www.fdesouche.com/452587-papepedophilie-les-editions-bayard-mettent-au-pilon-un-ouvrage-de-plantu. La vignetta raffigurava il papa Benedetto XVI che sodomizzava un bambino.

[18] Cour de cassation, Chambre criminelle, 14 fev. 2006.  Si trattava di un’immagine che rappresentava “Sainte capote”, un religioso con le spalle nude accanto a un preservativo, e di un manifesto con una parodia commerciale dell'Ultima Cena di Leonardo da Vinci.

[19] Stralci della  motivazione nella ricostruzione nell’inchiesta di Cecile Landman reperibile in https://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/05/14/news/neonazismo_in_europa_-_danimarca-35107968/

[20] Trib Latina 24 ottobre 2006, n. 1725, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2007, p. 1014, per cui a rilevare «non è tanto la genuinità dello stato d’animo esternato, ma la consapevolezza nell’autore del significato che la sua condotta assume e del modo in cui la stessa è destinata ad essere percepita, avuto riguardo alle concrete circostanze in cui si svolge».

[21] Un quadro più ampio, al quale rinvio per brevità, nel mio Diritto di satira e libertà di religione, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2009, pp. 594 ss. Inoltre, G. Carobene, Satira, tutela del sentimento religioso e libertà di espressione. Una sfida per le moderne democrazie, in CALUMET – intercultural law and humanities review, 2016; M. Parisi, Satira e religione nel prisma della libertà di espressione. Verso una ridefinizione dei confini della manifestazione del pensiero?, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2015, pp. 389 ss.

[22] B. Bégout, De la décence ordinaire, Allia, Paris, 2008, p. 19.

[23] Cass. 29 ottobre 2019, n. 43930.

[24] V. per esempio nel volume Blasfemia, diritti e libertà, cit., gli auspici di G. Bosetti, Se la blasfemia diventasse un non-sense. Primato della libertà, educazione al pluralismo religioso, pp. 281 s., e P. Naso, La via mediana del politically correct, p. 273.

[25]La dichiarazione di S. Rushdie in https://www.englishpen.org.

[26] Cfr. C. Del Bò, Col sorriso sulle labbra. La satira tra libertà di espressione e dovere di rispetto, in Stato, chiese e pluralismo confessionale, 2016, pp 16 ss., che richiama nello stesso ordine d’idee già M. Jori, La necessità dell’irreverenza, in Biblioteca della libertà, 1987, pp. 41-55, 49.

[27] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 199. Negli Stati Uniti, dove il Bill of Rights è circondato da un ossequio quasi sacrale, si è osservato che «la Costituzione non ci porta a credere che il nostro primo dovere sia proteggere il Primo emendamento, (…) quasi sovrastasse gli altri valori, compreso quello del rispetto per le persone»: E.H. Wolgast, La grammatica della giustizia, prefazione di P. Barcellona, Editori Riuniti, Roma, 1991, p. 116.

[28] Del Bò, Col sorriso sulle labbra, cit., individua come parametri il fondamento, la  gravità e le modalità operative, rielaborando osservazioni di E. Telfer, Umorismo ed eguale rispetto, in Eguale rispetto, a cura di I. Carter, A.E. Galeotti, V. Ottonelli, Bruno Mondadori, Milano, 2008,  pp. 201-13.

[29] R. Sennett, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, Il mulino, Bologna, 2004, p. 21.

[30] Cass. 20 ottobre 1998, n. 13563 (per cui si può fare satira, per esempio, sulla condotta da lecchina di una parlamentare verso il suo leader ma ne offende la dignità, o femminilità, raffigurarla nell’atto di leccare sessualmente un microfono); conf. Cass. 2 dicembre 1999, n. 2128; 24 febbraio 2006, n. 9246; 11 maggio 2006, n. 23712.

[31] E. Badinter, E. de Fontenay, M. Gauchet, J. Julliard, J.P. Le Goff, Affaire Mila : “Nous paierons cher cette lâcheté”, in L’Express, 31 janvier 2020, si riferivano al comico Frédéric Fromet che, una decina di giorni prima del caso Mila, aveva cantato una canzone con questo ritornello: «Jésus, Jésus, Jésus est pédé (...) Du haut de la croix, plutôt que de l'avoir cloué, pourquoi pas l'avoir enculé ?».

[32] Non è possibile qui approfondire ma v. di recente i contributi raccolti in Terrorismo di ispirazione religiosa. Prevenzione e deradicalizzazione nello Stato laico, a cura di F. Alicino, APES, Roma, 2020.

[33] Non fosse che per il maggior tasso di incremento demografico, si calcola (Pew Research Center, The Changing Global Religious Landscape, 2017, www.pewforum.org.) che tra cinquant’anni l’islam, sorpassando il cristianesimo, sarà la religione più diffusa nel mondo.

[34] M. Houellebecq, Sottomissione, Bompiani, Milano, 2015.

[35] Riflessioni sul tema nel mio La lotta per la laicità. Stato e Chiesa nell’età dei diritti, Cacucci, Bari, 2017, pp. 25 ss. Sulla possibilità di una “religione laica” s’interroga anche  L. Ferrajoli, Laicità e laico, postfazione a P. Dusi, Minima laica, Il ponte, Firenze, 2016, p. 165.

[36] R. Debray, Dio, un itinerario. Per una storia dell’Eterno in Occidente, Raffaello Cortina, Milano, 2002, p. 13.

29/09/2020
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