1. Le idee, il carcere e Covid-19. Una premessa
Aveva ragione Sandro Margara: non tutti, quando discutiamo di prigione e pena, sembriamo parlare delle stesse cose. Non muoviamo, soprattutto, dalla stessa rappresentazione di quelle cose.
Accanto alla rimozione intellettuale di chi pensa al carcere come pura istanza metafisica, sulla quale appare persino scandaloso interrogarsi, si allineano le differenti ideologie della galera: quella regressiva della segreta fatiscente in cui far marcire i condannati; quella delle mille prigioni moderne per incapacitare i detenuti in modo “rispettoso”; quella abolizionista, animata da una speranza positiva di retroazione dell’utopia sull’orizzonte attuale, ma troppo spesso declinata in termini consolatori e di rinuncia alla discussione sull’esistente.
Poi c’è il carcere reale, quello abitato dai detenuti e frequentato dagli operatori di tutti i livelli.
Ecco, Covid-19 ha tolto il coperchio al carcere reale.
Una premessa, prima di parlare di quel carcere, è doverosa. Nulla di ciò che verrà detto giustifica le rivolte ancora in atto in molti istituti. Il metodo della violenza cancella le cause, sporca gli obiettivi, lavora contro i diritti della popolazione detenuta. E produce morte. Arriva ora, mentre si scrive, la notizia che i detenuti deceduti nelle sommosse sono dodici.
Va sottolineato, però, che mentre i facinorosi salivano sui tetti e offrivano il miglior alibi alle strette repressive e alle risposte di ordine pubblico, la gran parte dei detenuti rimaneva nelle camere e nei reparti, si opponeva alla sommossa e intraprendeva la strada della protesta nonviolenta. È auspicabile che questo tenace lavoro di isolamento dei violenti continui, al fine di far rientrare le rivolte e di consentire alla Polizia Penitenziaria e all’Amministrazione – che hanno sinora mostrato un elevato senso di responsabilità istituzionale nel non cedere al gioco della violenza che chiama violenza – di riportare la legalità e il dialogo dentro il carcere.
A quella parte maggioritaria dei detenuti tutti gli attori istituzionali devono ora fornire risposte praticabili e tempestive. Soluzioni chiare per far in modo che l’emergenza epidemiologica in atto non metta piede nei penitenziari e che, nell’eventualità, possano essere adottate quelle misure di tutela della salute che i migliori livelli della conoscenza scientifica e della ricerca medica reputano necessarie e adeguate.
Le proposte, tuttavia, devono partire dalla descrizione dello stato dell’arte, da quella pentola in ebollizione – l’ha ben descritta così Marcello Bortolato – che l’emergenza ha scoperchiato.
2. Istantanee dalla galera
Il carcere, esattamente come l’epidemia del coronavirus, si legge attraverso i suoi numeri. Ad oggi, negli istituti italiani sono presenti 61.230 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 posti e di una capienza effettiva di poco più di 47.000. Per calare lo sguardo nel concreto, è bene sapere che nel carcere di Modena, interessato da uno degli episodi più gravi di rivolta, la capienza regolamentare è di 370 posti e i detenuti allocati erano circa 568.
Al dato del sovraffollamento si aggiunge l’elemento dello spazio pro-capite che deve essere garantito a ciascun detenuto per non incorrere in trattamento inumano o degradante e nella violazione dell’art. 3 Cedu: appena tre metri quadri.
Che significa tutto questo, ai tempi del coronavirus?
Una cosa, intanto: in caso di riscontro di patologia a carico di detenuti non vi è possibilità – oltre una certa quota prevista dalla amministrazione – di isolare i contagiati ai sensi dell’art. 33 dell’ordinamento penitenziario.
Ancora. Molti detenuti guardano la televisione, leggono i giornali e rimangono informati (per fortuna) su ciò che accade nel mondo esterno. Scoprono così che esistono tutta una serie di regole, allegate ai Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri e rilanciate a più riprese dai media, che impongono la distanza di sicurezza di almeno un metro tra le persone. Leggono, per esempio, che Trenitalia ha ideato una nuova funzione di prenotazione per garantire che a bordo dei suoi treni siano rispettate le distanze prescritte delle norme in materia di prevenzione e diffusione del Covid-19. Pare inevitabile che i detenuti, nel vedere giustamente assicurate ai passeggeri che trascorrano tre ore sulla Freccia Milano-Roma le distanze di sicurezza, si chiedano in quale pianeta estraneo alla legge siano costretti a vivere, ventiquattro ore su ventiquattro, la loro espiazione.
Una fotografia vivida di quel territorio franco la riporta, con immagini che meritano ulteriore diffusione, Luigi Manconi (La Repubblica, 10 marzo 2020): “una promiscuità coatta […] in ambienti dove, come per volontà di un architetto di interni impazzito, la doccia e il water, il lavandino e la dispensa si sovrappongono e si mescolano per rispondere ai bisogni fisiologici primari: orinare, mangiare, lavare, defecare, in pochi metri quadrati”.
Ironia della sorte, i detenuti apprendono delle distanze di sicurezza necessarie a prevenire il contagio pochi giorni dopo aver letto che la Prima Sezione penale della Corte di Cassazione ha sentito il bisogno di rimettere alla Sezioni Unite la seguente questione: se, nella superficie minima di tre metri quadri, debba essere computato lo spazio “occupato dal letto o dai letti nelle camere a più posti, indipendentemente dalla struttura ‘a castello’ o ‘singola’, ovvero se debba essere detratto, per il suo maggiore ingombro e minore fruibilità, solo il letto a castello” (cfr. informativa Prima Sezione penale 21 febbraio 2020). Il letto singolo, dunque, va bene per viverci e muoversi, tanto da non essere escluso dal calcolo dei tre metri quadri. Per alcuni orientamenti, è spazio fruibile.
Va meno bene, però, per starci male.
Agli spazi ridotti della vita detentiva, alla promiscuità coatta e all’impossibilità di eseguire realisticamente un isolamento sanitario effettivo, infatti, si cumulano ulteriori fattori che, in questa fase emergenziale, assumono se possibile tratti ancor più pericolosi. Nonostante lo sforzo eminente del personale sanitario, l’assistenza medica e infermieristica all’interno delle prigioni è ridotta al lumicino e, quel che più conta, è distribuita in modo del tutto disomogeneo sul territorio nazionale e anche all’interno delle Regioni. A ciò si aggiunga che, nonostante il carcere sia ambiente patogenetico, la sanità penitenziaria non è ovviamente attrezzata per fronteggiare al meglio emergenze come quella attuale. Tralasciamo la mancanza degli strumenti tipici della medicina d’emergenza, delle malattie infettive e della terapia intensiva (ventilatori, ossigeno e quant’altro): nel carcere di questi giorni, anche dopo la dichiarazione dell’Oms di emergenza pubblica globale (30 gennaio 2020), mancavano i dispostivi individuali di protezione in grado di consentire ai medici di effettuare in sicurezza almeno una visita di primo ingresso. Mancavano, banalmente, le semplici mascherine chirurgiche, che solo in questi giorni la protezione civile sta assicurando agli istituti.
È ovvio, dunque, che in una situazione del genere – ulteriormente aggravata da condizioni igieniche spesso pessime e dal fatto che un terzo dei detenuti è già debilitato dalla tossicodipendenza o da altre patologie della marginalità sociale – la paura del contagio cresca a dismisura tra i detenuti.
Questa loro paura interroga noi liberi e deve diventare la nostra paura.
3. La paura del contagio, le prime risposte di legge e un’occasione
La prigione, nelle condizioni suesposte, potrebbe diventare un moltiplicatore particolarmente efficiente della curva del contagio, con ricadute importanti sulla salute e la vita dei detenuti, di chi lavora in carcere e, a cascata, dei cittadini liberi.
Urgono soluzioni, dunque, ed è indispensabile che siano collocate all’interno di una strategia razionale che consenta il raggiungimento di risultati tempestivi, conformi al mandato costituzionale di tutela inderogabile del diritto alla salute. Virgilio non si offenda se, per un momento, invochiamo la salute invece dell’amore trionfante: omnia vincit salus, anche la pretesa punitiva dello Stato, purché in maniera ragionevole e controllata.
Le prime risposte normative sono state quelle che i detenuti, in un clima di comprensibile emotività, hanno percepito come soppressione del loro residuo spazio di libertà personale e chiusura delle finestre di contatto con l’esterno e con i familiari. La gravità della sensazione è stata amplificata da un cattiva comunicazione e dall’affastellarsi di bozze contraddittorie di disposizioni normative.
Un’analisi compiuta dell’articolato (art. 2, commi 8 e 9, dl 11 marzo 2020, n. 11), tuttavia, consente di delineare un quadro più tranquillizzante.
L’interruzione dei colloqui visivi con i congiunti, infatti, è solo temporanea – sino al 22 marzo 2020 – e, soprattutto, è bilanciata dal fatto che tali colloqui potranno svolgersi a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria o, ancora, mediante corrispondenza telefonica, autorizzata oltre i limiti di cui all’art. 39, comma 2, del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario.
Va osservato, sul punto, che l’art. 2, lett. u), del dpcm 8 marzo 2020 dispone che la corrispondenza telefonica possa essere effettuata anche in deroga “alla durata attualmente prevista dalle disposizioni vigenti”.
Chiariamoci: non sarà il telefono a sostituire l’effetto empatico della visita e a far evaporare lo stato di profonda angoscia in un cui un detenuto vive il dramma dell’emergenza epidemica. Si tratta di un' angoscia imputabile non soltanto all’ansia per le proprie condizioni, ma anche alla ignoranza dello stato di salute dei propri familiari. Perché il bilanciamento tra diritto al contatto con l’esterno ed esigenza di prevenzione del contagio sia appropriato e ragionevole, dunque, è necessario che i mezzi di comunicazione alternativa siano implementati in tutti i modi.
Alcuni suggerimenti li hanno offerti il Garante Nazionale, il portavoce della Rete dei Garanti territoriali e il mondo delle associazioni. Paiono particolarmente importanti e di non difficile realizzazione: liberalizzazione delle telefonate nel numero e nella durata (a condizioni di parità di accesso); utilizzo controllato di telefoni mobili, tablet e similari per far fronte alla carenza di postazioni telefoniche; ampliamento del ricorso a Skype e analoghi sistemi di videochiamata, da estendere anche ai circuiti di Alta Sicurezza (superando così, sulla base del decreto-legge, le timidezze delle circolari del Dap).
Non è un fuor d’opera sperare che si approfitti dell’emergenza per sperimentare tecnologie in grado di riallineare il tempo del carcere con quello della società.
4. Le scelte per un futuro che non aspetta
Quello che, però, è ora ragionevole attendersi dal decisore politico sono misure in grado di riportare i numeri del carcere a cifre compatibili con l’esigenze di prevenzione (tra cui l’isolamento sanitario) e di cura.
In altri termini, occorre creare spazio per isolare i detenuti eventualmente positivi e per curare i sintomatici in maniera tempestiva e adeguata, salvo il ricorso al ricovero nei casi più gravi (che si spera comunque di evitare con le misure di contenimento).
L’attesa del legislatore non giustifica inerzie. Molto sta facendo e dovrà fare, nell’accelerare i tempi di accesso alle misure alternative con gli strumenti attualmente a disposizione, la magistratura di sorveglianza. Molto stanno facendo, anche, le Procure della Repubblica, spesso organizzatesi per decidere con rapidità e priorità le sostituzioni di misure di custodia in carcere con gli arresti domiciliari.
Un compito ineludibile, tuttavia, pensiamo spetti alla politica.
La razionale espansione di misure già esistenti nell’ordinamento per ridurre il sovraffollamento non risponde a istanze di clemenza, ma a un principio di realtà che impone di non trasformare il carcere in una bomba biologica, di non compromettere la salute e la vita dei ristretti e garantire la sicurezza di tutto l’ambiente carcerario.
Certo, si può fare finta di niente. Si può girare la testa dall’altra parte nella convinzione che ogni risposta in termini di misure alternative sia il frutto dell’imprudenza dei buonisti, ai quali ricordare la necessità della riedizione della linea della fermezza. Ma la realtà sfugge alle contrapposte ideologie e richiede ragionevolezza.
In quest’ottica non può essere visto con sfavore un intervento volto a rimodulare, per la durata dell’emergenza, la detenzione domiciliare infrabiennale, da concedere previo accertamento della sola idoneità del domicilio e con esclusione in partenza dei condannati più pericolosi dalla platea dei beneficiari (quelli del primo comma dell’art. 4-bis ord. pen., ad esempio).
Allo stesso modo occorre guardare con favore a meccanismi che consentano, sempre entro una limitata e circoscritta soglia edittale di pena residua, il differimento facoltativo della pena per un periodo di tempo limitato, strettamente necessario al supermento dell’emergenza ed eventualmente prorogabile sino a fine pena in caso di positiva verifica del comportamento.
Di pari passo, appare possibile sperimentare nuovamente il meccanismo, già collaudato tra il 2010 e il 2015, della liberazione anticipata speciale (75 giorni invece di 45). Tale strumento, infatti, da un lato consentirebbe una compensazione a coloro che non possono accedere a misure alternative e, dall’altro, favorirebbe una fuoriuscita dal carcere di persone con un tempo di espiazione residua estremamente ridotto. Un tempo ormai inutile per loro, ma vissuto in uno spazio che potrebbe essere prezioso per prevenire il contagio.
Ridurre il sovraffollamento è un’esigenza ora improcrastinabile. Tutte queste proposte, come molte altre, si muovono nella direzione di uno “sfollamento” degli istituti controllato dalla magistratura e calibrato sui detenuti meno pericolosi. Rimanere fermi e aspettare che l’emergenza dilaghi può condurre a esiti pericolosi sul piano della stessa sicurezza pubblica, arrivando a imporre scarcerazioni meno graduali e verificate.
5. L’amnistia. Prospettive illusorie e tabù da superare
Non si è pronunciata la parola amnistia.
Anche qui occorre intendersi. Oggi un provvedimento di clemenza collettiva sembra realisticamente impossibile, almeno nei tempi che sarebbero necessari per fronteggiare l’emergenza epidemica. Le gesta dei facinorosi, inoltre, hanno ulteriormente indebolito la praticabilità di una tale soluzione, che potrebbe apparire come cedimento alle scelte della violenza.
Anche alcuni media, spesso vettori dell’opinione pubblica patibolare, sembrano aver affondato sul nascere la possibilità stessa di una legge clemenziale, associando o lasciando associare per l’ennesima volta la parola amnistia alla parola criminalità organizzata. Agitare la parola amnistia, pertanto, potrebbe ingenerare nella comunità dei detenuti l’ennesima frustrazione da disillusione.
Non vi è dubbio, tuttavia, che il discorso sull’amnistia non possa fermarsi qui. Occorre ripensare, infatti, a nuovi spazi di agibilità dell’istituto, da recuperare a una politica criminale costituzionalmente orientata al finalismo rieducativo della pena, alla tutela della dignità dei detenuti e al divieto di pene inumane o degradanti. In questo senso, ci sarà tempo (ma non troppo) per discutere sugli effetti della legge costituzionale del 1992 che, nel modificare l’art. 79 della Costituzione, ha disposto che l’amnistia possa essere concessa soltanto con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. Un procedimento rafforzato che, in parallelo alla modifica dei sistemi elettorali, ha reso la clemenza collettiva una chimera, inservibile in un frangente emergenziale come il presente. In altri termini, se vogliamo e dobbiamo essere tempestivi nel ridurre il sovraffollamento, l’amnistia non sembra rientrare nel ventaglio degli interventi obiettivamente praticabili. Il carcere, fiaccato dall’abbandono del processo riformatore iniziato con gli Stati generali, ha bisogno di interventi immediati.
Presto che è tardi, dunque. E non siamo neppure nel paese delle meraviglie.