Venendo ora alla nota e sofferta vicenda ILVA occorre sottolineare subito la gravità della situazione di carattere ambientale e sanitario, che gli organi giudiziari hanno tradotto in provvedimenti assolutamente ineludibili.
Il primo imprescindibile dato è costituito dalle conclusioni della perizia chimica ed epidemiologica depositata all’esito dell’incidente probatorio disposto nel procedimento penale condotto dalla Procura di Taranto. La perizia descrive una grave ed attualissima situazione di emergenza ambientale e sanitaria, imputabile alle emissioni inquinanti, convogliate, diffuse e fuggitive dello stabilimento dell’Ilva e, segnatamente, di quegli impianti ed aree del siderurgico costituiti dall’area parchi, area cokerie, area agglomerato, area altiforni, area acciaierie ed area della gestione dei rottami ferrosi.
Scrive il GIP (sì proprio la zitella rossa, così definita con grande finezza e signorilità da un quotidiano nazionale): “Chi gestiva e gestisce l’Ilva di Taranto ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto calpestando le più elementari regole di sicurezza”.
La perizia epidemiologica ha poi evidenziato centinaia di decessi negli ultimi 13 anni; ha sottolineato che la diossina è entrata nel latte materno, ed ha stigmatizzato: piombo e cadmio sono stati ritrovati nelle urine dei cittadini.
Cinque periti, poi, nelle considerazioni finali, affermano che:”L’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e morte”.
Parliamo, dunque, di un disastro ambientale i cui effetti sull’uomo non potevano dirsi sconosciuti. Ed a tal proposito il GIP, sempre lei, scrive: “Non vi sono dubbi sul fatto che l’ipotesi criminosa sia caratterizzata dal dolo e non dalla semplice colpa […..] dal momento che gli indagati erano perfettamente al corrente che dall’attività del siderurgico si sprigionavano sostanze tossiche nocive”. Tanto lo si evince dal contenuto delle intercettazioni.
Ed è proprio in ragione di tale situazione che il GIP di Taranto ha emesso un motivato e, certamente, sofferto provvedimento di sequestro preventivo delle aree interessate, la cui esecuzione “dovrebbe o avrebbe dovuto” consistere nell’eliminazione delle emissioni inquinanti e pericolose attraverso l’inibizione di qualunque attività produttiva degli impianti sequestrati, tanto se non fossero intervenuti provvedimenti da parte del Governo che, come è noto, hanno sospeso l’esecutività dei provvedimenti giurisdizionali determinando una sorta di “inquinamento per decreto”, almeno per 36 mesi.
Le principali problematiche sono emerse proprio a seguito dell’esecuzione del provvedimento di sequestro, che incide sull’utilizzo degli attuali impianti, sul blocco dell’attività produttiva con effetti sicuramente dirompenti anche rispetto all’attività futura, sul mantenimento dei livelli occupazionali all’interno dell’impresa, sulle nefaste prospettive economiche di un settore produttivo, che, soprattutto in un periodo di crisi economica, qual è quello attuale, avrebbe potuto rappresentare un’eccezione rispetto al trend generale.
In sostanza, come anche a noi noto, gli interessi coinvolti nella vicenda in esame sono molteplici, tutti di rilevanza costituzionale, ma non tutti bilanciabili fra di loro, sì da determinare la frustrazione di un interesse rispetto ad un altro. In particolare, fondamentale oggetto di tutela è la salvaguardia del diritto alla salute, contemplato dall’ art. 32 della Costituzione laddove, appunto, si legge che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.
Si tratta di un diritto insopprimibile, che non può essere bilanciato o sacrificato con nessun altro diritto o libertà, sia pure di rango costituzionale. La salvaguardia della salute umana è definita come fondamentale diritto dell’individuo.
Come è stato da più parti sottolineato, anche altri valori costituzionali sono chiamati in causa, primo fra tutti la tutela del lavoro.
Non solo l’art. 1 della Carta costituzionale afferma il principio per cui l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma ben cinque articoli della Costituzione sono dedicati alla tutela del lavoro.
Senza considerare, poi, che questa tutela rappresenta la condizione indispensabile per la tutela della dignità umana. Ma nessuna dignità vi può essere nel caso in cui il lavoro non venga effettuato in condizioni di sicurezza innanzitutto per la salute del lavoratore medesimo. E’ necessario, allora, ribadire il diritto di lavorare in sicurezza in un ambiente sano.
Altro interesse coinvolto è quello relativo all’iniziativa economica privata, contemplato dall’art. 41 della Costituzione: iniziativa che è definita libera, ma che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Ancora una volta, quindi, si ha la conferma, semmai ve ne fosse stato bisogno, che la tutela del diritto alla salute ed alla vita è insopprimibile, non limitabile e non comprimibile, rappresentando non solo un diritto fondamentale per il singolo, ma un interesse per l’intera collettività.
Fatte queste precisazioni, che rappresentano per certi versi il filo conduttore delle conclusioni, è necessario valutare quelle che sono state le posizioni degli attori principali in campo. Ebbene, i provvedimenti di sequestro adottati dall’autorità giudiziaria, che ha agito in ossequio al principio costituzionale della “obbligatorietà dell’azione penale”, non potevano che assolvere alla funzione che gli attribuisce la legge, ossia quella di eliminare il pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero agevolare la commissione di altri reati. Questo è l’art. 321 del codice di procedura penale.
Parlare, dunque, di dissequestro di merce, prodotta in violazione della legge, significa chiedere la restituzione, nella disponibilità degli autori del reato, del frutto rinveniente dalla attività illecita.
Il problema delle ricadute occupazionali, che discendono dai provvedimenti di sequestro e dall’esigenza di evitare l’aggravamento o la protrazione delle conseguenze di reati contro la salute e l’integrità dell’incolumità pubblica, è un problema la cui soluzione appartiene esclusivamente alla pubblica amministrazione e al soggetto imprenditoriale, secondo ovviamente le rispettive competenze: di valutazione, per la pubblica amministrazione, e di adeguamento, per l’imprenditore. E’ inutile e fuorviante continuare a tirare per la toga i Magistrati chiedendo loro provvedimenti che non possono, assolutamente, essere presi. Sono concetti che sono stati più volte riassunti e anche da me recentemente ribaditi. A questo punto ripetere quanto più volte puntualizzato mi fa sentire inutile, incapace come colui che cerca di descrivere i colori di un tramonto ad un non vedente dalla nascita.
Va poi ricordato, per rispondere alla domanda “dove era la Magistratura”, che i primi provvedimenti giudiziari e le prime sentenze sul caso Ilva, sullo stabilimento siderurgico e sui danni provocati all’ambiente e alla salute dei cittadini risalgono al 1982, quando, appunto, la magistratura tarantina emise le prime condanne nei confronti dell’Italsider, allora proprietaria dello stabilimento siderurgico di quella città. Ricordo inoltre che, da allora più e più volte, l’autorità giudiziaria è intervenuta e che gli atti e i provvedimenti emessi sono rimasti privi di conseguenze relativamente alle bonifiche delle aree inquinate, alla tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini; qui vanno compresi anche i quattro accordi di programma, in buona parte mai rispettati dall’azienda stessa. Queste vicende giudiziarie, sommariamente richiamate, costituiscono gli antefatti dei recenti provvedimenti di sequestro di cui oggi si parla nonché dei decreti legge e degli atti successivi.
Due dati – credo – sono entrambi gravi e inaccettabili: il primo riguarda il fatto che la proprietà dello stabilimento, compresa quella attuale, non ha mai inteso adempiere alle prescrizioni contenute nei provvedimenti emessi nel corso dei decenni dalla magistratura; il secondo dato riguarda la circostanza che i Governi, che si sono succeduti nel tempo, non hanno mai voluto affrontare seriamente la questione della bonifica dei siti inquinati, dell’ambientalizzazione e della riqualificazione del territorio della città di Taranto.
La vicenda Ilva purtroppo ha ricacciato la discussione riguardo alle politiche ambientali indietro di mezzo secolo: ambiente e salute versus lavoro. E’ una condizione non accettabile per un Paese che, più volte, almeno a parole, si è detto destinato a puntare sulla green economy, sull’ambiente come opportunità per lo sviluppo e sulla sua tutela in quanto bene comune principale.
Tutto ciò è possibile solo se esistono delle condizioni, tutte con un denominatore comune, che risiede nel rispetto della legalità. Tanto, in questo caso, non è avvenuto. A proposito di legalità è doveroso stigmatizzare quanto da più parti, purtroppo, viene richiesto ai Magistrati e cioè il rispetto della legge. Non accetto, non accettiamo lezioni di legalità da nessuno. Coloro i quali offendono in modo grave la Magistratura meglio farebbero a studiarsi Montesquieu, approfondire il problema della divisione dei poteri e, da ultimo, a leggere la Costituzione, a cercare di capirla e, soprattutto, a rispettarla.