1. Habent sua sidera …
Habent sua sidera leges, si sarebbe tentati di dire parafrasando il noto brocardo latino. L’esplodere della pandemia da Coronavirus, se è consentito indulgere ancora in analogie astrali, ha colpito il diritto dell’impresa (e non solo quello) come la caduta imprevista di un meteorite, e non è tuttora possibile valutare appieno né la portata degli effetti che ha prodotto né quanto questi effetti siano destinati ad incidere in modo duraturo sulla futura evoluzione dell’ordinamento in questo come in altri settori.
Gli ordinamenti giuridici prevalentemente fondati sul diritto scritto hanno, inevitabilmente, un tasso di rigidità maggiore e quindi una minore capacità di adattarsi rapidamente ai cambiamenti improvvisi ed imprevisti; e questa loro caratteristica tanto più si accentua quanto più strette ed anelastiche sono le maglie del tessuto normativo col quale il legislatore ha inteso disciplinare la mutevole realtà sociale. Quello italiano, visto nel suo complesso, pur ovviamente appartenendo alla famiglia degli ordinamenti di civil law, si caratterizza per la frequente (ma non sempre ben calibrata) compresenza di un certo numero di norme elastiche e clausole generali, da un lato, e dall’altro lato di ancor più numerose e talvolta alquanto asfissianti disposizioni di dettaglio, spesso distribuite in ordine sparso tra fonti normative di tipo e grado diverso (primarie, secondarie, nazionali, regionali, ecc.). Non è forse del tutto estraneo a questo fenomeno anche il problematico rapporto che si è andato sviluppando negli anni tra potere legislativo e potere giudiziario (ovvero, detto in termini più giornalistici, tra i politici ed i magistrati), in bilico tra deleghe di responsabilità e tentativi di imbrigliare paventate invasioni di campo da parte di giudici incontrollabili. Con l’effetto di generare un viluppo non sempre ben districabile tra diritto positivo e regole o principi di stampo giurisprudenziale.
Neanche il diritto dell’impresa fa eccezione. Anzi esso costituisce, in certo senso, uno dei terreni nei quali maggiormente si avverte la contraddizione tra una sempre più enfaticamente enunciata esigenza di certezza e prevedibilità del diritto e la difficoltà di incasellare in regole rigidamente delineate una realtà, quale quella economica ed imprenditoriale, che per sua stessa natura è quanto mai multiforme e dinamica.
E’ fatale che l’irrompere improvviso di un fenomeno epidemico di gigantesca portata, quale è quello cui stiamo assistendo, con effetti devastanti sul tessuto economico ed in particolare su quello imprenditoriale, metta ancor più a nudo queste difficoltà strutturali dell’ordinamento e rischi di esaltarne oltre misura le contraddizioni. La vicenda del codice delle crisi d’impresa e dell’insolvenza (in prosieguo vi farò riferimento chiamandolo semplicemente il codice della crisi), emanato con il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, è da questo punto di vista esemplare.
Quel codice nasce dalla duplice esigenza di riordinare e di modernizzare una normativa concorsuale assai risalente nel tempo, la quale, dopo esser rimasta a lungo quasi del tutto immutata, nell’ultimo quindicennio era stata interessata da una serie di modifiche, di portata ora più ora meno estesa, ma sempre parziali, attuate per lo più con lo strumento della decretazione d’urgenza e che si erano andate infine accavallando con ritmo vieppiù crescente seguendo indirizzi talvolta contraddittori. Occorreva, dunque, cercare di restaurare un quadro normativo divenuto instabile ed incoerente; e nel medesimo tempo occorreva metterlo al passo con i tempi e con una concezione del diritto concorsuale che appariva ormai alquanto lontana da quella corrente all’epoca in cui era stata emanata la legge fallimentare ma che era rimasta ancora imperante per larga parte del secolo scorso. Taluno ha parlato di una riforma epocale. E’ certamente un’esagerazione, ma è indubbio che l’obiettivo perseguito dal codice della crisi sia alquanto ambizioso, anche per l’originario intento di unificare intorno ad un corpo di principi giuridici coerenti non solo la disciplina contenuta nella legge fallimentare del 1942, ma altresì quella del sovraindebitamento e quella (a propria volta alquanto frammentata) dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi ed insolventi.
Quell’intento è stato solo in parte raggiunto, e non è comunque qui il caso di valutare se, o fino a qual punto, il codice, emanato dopo circa quattro anni di elaborazione, sia rimasto del tutto fedele agli obiettivi dichiarati, né se esso appaia o meno davvero in grado di soddisfare le esigenze cui ho sopra fatto cenno. Altrove io stesso ho avuto occasione di sollevare delle critiche, ma bisogna pur dire che un impianto normativo così ampio e complesso inevitabilmente di critiche ne solleva, e rischia comunque di scontrarsi con un certo naturale conservatorismo dei giuristi, per lo più poco inclini a rimettere in gioco impostazioni ed abitudini mentali a lungo sedimentate.
Proprio in considerazione dell’ampiezza e della complessità della nuova normativa, d’altronde, lo stesso codice della crisi aveva previsto una vacatio legis di ben diciotto mesi (ad eccezione di un piccolo gruppo di articoli, quasi tutti volti a modificare disposizioni del codice civile in materia societaria, entrati in vigore entro il canonico termine di quindici giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale). La legge 8 marzo 2019, n. 20, ha poi delegato il Governo ad emanare eventuali decreti correttivi del medesimo codice entro due anni dalla sua entrata in vigore e, nel febbraio di quest’anno, un primo schema di decreto correttivo risulta essere stato già approvato dal Consiglio dei ministri. Nel frattempo è anche intervenuta la c.d. Direttiva Insolvency (Direttiva 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l'esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l'efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione), che dovrà essere recepita dall’Italia entro il 17 luglio 2021.
Da oltre un paio d’anni, com’era facile immaginare, sono fioriti convegni e seminari di studio e si sono moltiplicati gli scritti di dottrina a commento della nuova normativa. Ma ecco il colpo di scena, l’evento improvviso che ha colto tutti di sorpresa: l’esplosione di una pandemia che nessuno (o quasi) aveva immaginato possibile e che ha sconvolto completamente, in Italia e nel resto del mondo, sia le abitudini ed il modo di vivere quotidiano dei cittadini, sia il funzionamento e le prospettive economiche delle imprese.
Forse del tutto imprevedibile non era la pandemia, ma di certo non era stata prevista: almeno non nei tempi e nei modi in cui si è verificata. Abbiamo perciò fatto tutti molta fatica, da principio, a comprendere davvero quel che stava accadendo. Non sapevamo bene neppure come definirla, ed all’inizio abbiamo parlato di epidemia – espressione già di per sé carica di implicazioni paurose, evocativa di eventi tragici che con quel nome la storia ci ha tramandato – ma poi ci hanno detto che si tratta di una vera e propria pandemia, cioè di qualcosa di ancor più grave perché il contagio si espande dappertutto nel mondo. Ed anche la definizione del temibile virus è rimasta per un po’ incerta. Si è inizialmente parlato di Coronavirus, ma poi abbiamo appreso che quel termine è generico, in quanto designa un’intera categoria di virus, e ci siamo allora abituati a chiamarlo Covid-19: un acronimo che deriva dall’espressione inglese Coronavirus Disease e dall’anno in cui il virus è stato isolato per la prima volta, il 2019. Di recente, però, l’International Committee on Taxonomy of Viruses e l’European Centre for Disease Prevention hanno adottato una nuova denominazione del virus: Sars-CoV-2, mentre, a quanto pare, con la parola Covid-19 si dovrebbe designare la malattia provocata da quel virus. Se è vero che nomina sunt consequentia rerum, bisogna dire che in questo caso le incertezze terminologiche esprimono appieno le difficoltà di misurarsi con un fenomeno di natura e di portata tale quale gran parte dei contemporanei non aveva finora neppure immaginato.
2. Il contraccolpo
Che un simile evento dovesse riflettersi anche sul diritto delle imprese è assolutamente ovvio. In difetto di rimedi sanitari capaci nell’immediato di arginare il contagio non v’è stata altra scelta se non quella di ridurre al minimo possibile le occasioni di contatto fisico, quello essendo il veicolo attraverso cui il virus si trasmette da persona a persona. E questo ha necessariamente provocato l’arresto di gran parte delle attività produttive e commerciali, con un pesante contraccolpo sulla capacità delle imprese (o almeno di una larga parte di esse) di produrre reddito. Se la crisi d’impresa, quale la definisce lo stesso codice della crisi (art. 2, comma 1, lett. a), «si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate», perciò determinando una situazione di «probabile insolvenza», è intuibile che l’arresto totale o parziale dell’attività produttiva o commerciale dell’impresa ed il conseguente venir meno dei ricavi preventivati rischia di produrre una situazione di crisi generalizzata: una sorta di pandemia economica, che ha colpito il mercato contemporaneamente sia sul lato dell’offerta sia su quello della domanda. La crisi di ogni singola impresa facilmente si propaga ad altre, soprattutto quando si tratta di filiere imprenditoriali, perché accade che l’incapacità di un’impresa di fornire regolarmente prodotti o servizi paralizzi l’attività delle imprese alle quali quei prodotti o servizi sono destinati, e la temporanea carenza di liquidità genera ritardi nei pagamenti ed inadempienze a catena. Né va trascurato l’effetto che tale situazione può produrre sul sistema bancario, aggravando pesantemente il carico dei crediti deteriorati (i cosiddetti non performing loans) delle banche e perciò stesso rendendo più problematica l’erogazione dei finanziamenti bancari proprio nel momento in cui gli imprenditori ed i consumatori ne avrebbero maggior bisogno.
E’ chiaro che di tali conseguenze il legislatore dovesse in qualche modo farsi carico. Infatti, già il 20 marzo 2020 il Comitato esecutivo della CERIL (Conference of European Restructuring and Insolvency Law) ha raccomandato a tutti i legislatori europei l'immediata adozione di provvedimenti volti sia a sospendere obblighi e termini di presentazione delle domande di accesso a procedure concorsuali sia a sopperire alla carenza di liquidità delle imprese con interventi diretti e con una moratoria delle azioni esecutive.
Il caso ha voluto che, come s’è visto, questa drammatica situazione si sia manifestata proprio quando, trascorso ormai oltre due terzi del lungo periodo di vacatio legis, il codice della crisi era relativamente vicino al traguardo della completa entrata in vigore. L’impatto di una crisi economica generalizzata, quale quella prodotta dalla pandemia, non avrebbe certamente potuto non riflettersi (ed infatti si è riflessa) sulla normativa concorsuale vigente, e quindi non sorprende che abbia subito sollevato interrogativi anche per quel che concerne una normativa ancora futura ma ormai in procinto di diventare operativa. Vi era la necessità di verificare se regole destinate a disciplinare situazioni di crisi ed insolvenza generatesi nel quadro del normale svolgimento delle attività imprenditoriali, siano adeguate quando quel quadro di normalità risulti sconvolto e ci si trovi a dover fronteggiare una situazione di crisi sistemica, affatto imprevista, che ha investito le imprese nel loro insieme. Dunque è ben comprensibile che una tal verifica abbia riguardato anche il codice della crisi ancora in procinto di entrare in vigore. Nessuno infatti appare oggi in grado di prevedere quando la pandemia cesserà di abitare il nostro paese (né tanto meno l’intero pianeta) ed ancor meno prevedibili sono, allo stato, la portata e la durata dei suoi effetti sul sistema economico. Ma non è certo pensabile che, entro la data stabilita originariamente per l’entrata in vigore del codice della crisi, ossia entro la metà del mese di agosto di quest’anno, quegli effetti si possano esaurire senza lasciare conseguenze e che tutto riprenda come se nulla fosse stato..
Nel clima surriscaldato dei mesi immediatamente successivi alla proclamazione della pandemia il Governo ha perciò emanato una nutrita serie di disposizioni dirette sia a contenere il più possibile la diffusione del contagio, sia a fronteggiare le conseguenze economiche dell’arresto della maggior parte delle attività imprenditoriali; e, per le ragioni, appena sopra indicate, alcune di tali disposizioni hanno interessato il diritto societario ed il diritto concorsuale, ed anche in particolare l’entrata in vigore codice della crisi. Dopo un primo intervento volto unicamente a differire l’operatività di alcuni degli istituti più importanti introdotti dal codice – l’allerta e la composizione assistita della crisi – con il d.l. n. 23 del 2020 (art. 5) si è scelto di rinviare in blocco l’entrata in vigore di detto codice sino al 1° settembre del 2021.
Sull’opportunità di una scelta così radicale e di un rinvio così prolungato nutro qualche perplessità, ma poiché è davvero assai improbabile che vi possano essere ripensamenti del legislatore in proposito mi sembra ora inutile indugiare in sterili recriminazioni. Resta il fatto che, proprio quando si stava cercando di porre le basi per una normativa dotata di maggiore sistematicità e di più ampio respiro, ci ritroviamo invece con una riforma organica, deliberata ma tuttora in lista d’attesa, di cui non è facile prevedere né se effettivamente potrà divenire operativa tra oltre un anno né quali eventuali modifiche nel frattempo potrà subire. Una situazione normativa di forte instabilità, nuovamente caratterizzata da interventi emergenziali concepiti nel breve periodo e con prospettive future tutt’altro che chiare.
3. Il diritto dell’emergenza
Intanto, passando da un decreto legislativo all’altro, si è andata sviluppando, anche e soprattutto nel settore dell’economia, quello che taluno già definisce un diritto dell’emergenza.
Delle tante (forse troppe) disposizioni emanate a questo proposito, molte delle quali espressamente destinate ad operare solo per un lasso di tempo limitato, alcune mirano al rifinanziamento delle imprese venutesi a trovare in difficoltà per effetto della pandemia, così da consentire loro di superare la fase di crisi più acuta e, sperabilmente, di riprendere poi una più tranquilla navigazione; altre, invece, sono volte a sospendere talune disposizioni di diritto societario e di diritto concorsuale la cui applicazione, in questa particolare situazione, rischierebbe essere controproducente, e sono quindi del pari finalizzate a dare maggior respiro ad imprese messe in crisi dal blocco delle attività conseguenti alla pandemia (o la cui crisi risulti per tal motivo aggravata) ed a far sì che eventuali prospettive di risanamento non siano definitivamente compromesse.
Non è possibile passare qui in rassegna tali disposizioni, del resto ancora in parte suscettibili di ulteriori integrazioni e modifiche. Mi sembra tuttavia di poter dire che, in linea di massima, il temporaneo congelamento di alcuni meccanismi normativi – quale quello che prescrive l’obbligo di ricapitalizzare la società o di porla in liquidazione quando si verifichino perdite superiori ad una certa soglia – appare opportuno in un momento nel quale quei meccanismi rischierebbero di avere effetti disgreganti su una larga quantità di imprese trovatesi improvvisamente ad operare in perdita. E lo stesso dicasi per la temporanea improponibilità delle istanze di fallimento e per il differimento dei termini di predisposizione dei piani di concordato e di ristrutturazione dei debiti: tutte misure evidentemente funzionali ad evitare che si producano nell’immediato conseguenze irreversibili sulla vita delle imprese. Ma, ovviamente, un tal genere di disposizioni può funzionare solo in un’ottica di breve periodo; può servire a permettere al sistema imprenditoriale di varcare con il minor danno possibile questo difficile guado, a patto però che si riseca poi al più presto a riguadagnare l’altra sponda ed a rimettere piede su un terreno solido. E’ insita in ciò la scommessa che ci si possa lasciare alle spalle l’emergenza entro un lasso di tempo relativamente breve e che, quindi, le disposizioni cui si è fatto cenno possano fungere da ponte, ma resta ancora da capire quale scenario si presenterà dopo e se sarà semplicemente possibile ripristinare il quadro normativo preesistente o come eventualmente lo si dovrà ricostruire.
Nell’immediato, peraltro, le disposizioni di maggiore impatto sono quelle intese a fornire alle imprese la liquidità indispensabile per sopravvivere al blocco temporaneo delle attività. Nella fase dell’emergenza ciò che soprattutto rileva, più ancora che paralizzare le prevedibili dichiarazioni di fallimento di imprese ormai divenute insolventi, è riuscire a porre le imprese in difficoltà (o la più parte possibile di esse) in condizione di non divenire irreversibilmente insolventi. Occorre cioè somministrare ossigeno all’ammalato prima che entri in coma, perché poi si rischierebbe solo di indulgere in forme di accanimento terapeutico più dannose che utili.
Fondamentale è perciò il tema dell’accesso al credito e del supporto finanziario alle imprese, che si declina sia chiamando in causa il sistema bancario sia in varie forme di supporto pubblico. A questo proposito, in un succedersi un po’ caotico di diversi decreti legge, sono state emanate molteplici disposizioni, non sempre di facile lettura.
Si è scelto, anzitutto, di favorire il finanziamento bancario delle imprese in difficoltà supportandolo con garanzie pubbliche offerte dalla Sace s.p.a. (art. 1 del d.l. n. 23 del 2020). E’ quindi soprattutto al sistema bancario che viene affidato, in prima battuta, il delicato compito di verificare la sussistenza delle condizioni per erogare i finanziamenti. Scelta non priva di logica, essendo le banche i soggetti meglio attrezzati a questo scopo, e tuttavia non priva neanche di inconvenienti dal momento che le medesime banche restano libere di concedere o meno il credito richiesto e, pur se garantite (almeno in parte) da Sace, potrebbero essere naturalmente restie a concederlo ad imprese che versino in seria difficoltà, stante l’imprevedibile evolversi della situazione generale che non rende facile calcolare il c.d. merito di credito (ossia la probabilità del futuro rimborso) soprattutto se, in epoca di pandemia, questo debba esser vagliato in una logica di più lungo periodo come recentemente suggerito anche dall’Autorità bancaria europea (EBA).
Perciò, per facilitare il compito del sistema bancario chiamato ad erogare prestiti alle imprese nell’attuale situazione emergenziale, mentre mi sembra discutibile (e forse anche inutile) coltivare ipotesi di scudi penali di vario genere che rischierebbero di coprire sotto il medesimo impenetrabile manto comportamenti scorretti e comportamenti ragionevolmente prudenti, credo opportuna l’emanazione da parte dell’Abi, con il patrocinio della Banca d’Italia, di chiare linee-guida il cui rispetto consenta agli operatori bancari di operare con maggiore tranquillità e di adoprare parametri omogenei nella valutazione del merito di credito. Valutazione che però – è importante sottolinearlo – non andrebbe compiuta secondo gli usuali criteri, palesemente inadatti alla situazione eccezionale nella quale ci troviamo, bensì alla stregua della realistica previsione che il finanziamento accordato consenta all’impresa di non soccombere nel periodo di tempo entro cui è ragionevole prevedere il superamento dell’attuale crisi sistemica. Mi rendo conto che si tratta di una previsione difficile, per il grande numero di incognite che comporta, ma non se ne può prescindere, giacché non avrebbe davvero senso versare acqua in un recipiente bucato se non si confidasse nella possibilità di ripararlo entro un ragionevole lasso di tempo.
L’intervento pubblico, come ho accennato, si esplica con modalità diverse, anche a seconda della dimensione delle imprese cui è destinato. Accanto alla già menzionata funzione di garante svolta dalla Sace, sono previsti sia contributi a fondo perduto, ove ricorrano le condizioni prescritte dall’art. 25 del d.l. n. 34 del 2020, sia la possibilità di sottoscrizione, da parte del Fondo PMI, di obbligazioni ed altri titoli di debito emessi da medie imprese, anche in deroga ai limiti di cui al primo comma dell’art. 2412 c.c. (art. 26, comma 12, del citato decreto).
Il carattere sistemico della crisi rende inevitabile che, almeno in un una qualche misura, il supporto finanziario alle imprese debba gravare, direttamente o indirettamente, anche sulle finanze pubbliche. Altrettanto inevitabilmente ciò comporta, però, che non si possa prescindere da strumenti di controllo tanto sull’erogazione del denaro pubblico (o sulla concessione delle pubbliche garanzie) quanto sulla sua corretta utilizzazione. Un controllo destinato, quindi, ad investire anzitutto l’esistenza delle condizioni richieste all’impresa per fruire del supporto dello Stato e poi volto ad assicurare che le risorse erogate vengano effettivamente impiegate per il superamento della crisi e non dirottate in altre direzioni. La presenza nel nostro Paese di una criminalità organizzata, che già in passato ha mostrato di saper profittare delle situazioni di emergenza, impone un siffatto tipo di cautela, anche per salvaguardare l’immagine italiana all’estero, tanto più in un contesto nel quale si chiede all’Unione europea di sorreggere il nostro sforzo finanziario.
Molte lamentele già però si sono levate per la lentezza con la quale i finanziamenti alle imprese vengono effettivamente erogati. Si tratta, probabilmente, di lamentele non del tutto prive di fondamento, essendo d’altronde fuor di dubbio che la drammaticità della situazione impone di fare in fretta e di evitare che eccessi di cautela burocratica finiscano per frustrare le finalità della normativa di cui s’è detto, ma neppure è possibile far piovere soldi indiscriminatamente su tutti come se fossero lanciati da un elicottero («helicopter money», come spiritosamente disse una volta Milton Friedman).
E’ chiaro che ci si trova in presenza di esigenze (almeno entro certi limiti) conflittuali e che occorre – benché non sia agevole – ricercare il giusto contemperamento. Per un verso, la situazione sembra richiedere un intervento finanziario molto tempestivo, pena altrimenti il rischio della sua inutilità; ma, per altro verso, gli indispensabili controlli cui ho fatto cenno necessariamente postulano la fissazione di un certo numero di regole e l’instaurazione di alcune procedure che, se non ben calibrate, potrebbero rallentare l’erogazione dei finanziamenti e comprometterne l’efficacia. Anche se qui non è consentito entrare in dettagli, credo si possa senz’altro convenire sul fatto che, per realizzare questo bilanciamento, occorre che i controlli ex ante siano il più possibile agili, e quindi affidati essenzialmente a forme di autocertificazione (con relativa assunzione di responsabilità amministrativa/penale) e di produzione documentale minima, anche per quel che riguarda la pregressa situazione economica e finanziaria dell’impresa, senza mettere in campo attestazioni di soggetti terzi difficilmente acquisibili in tempi brevi; ma che debba essere al contempo assicurata la piena tracciabilità del flusso finanziario erogato, in modo da consentire la verifica ex post della veridicità di quanto dichiarato e documentato, nonché dell’utilizzo del finanziamento in modo coerente con gli scopi della sua erogazione.
In questo quadro, mentre ha una logica il richiedere che il supporto finanziario sia concesso alle sole imprese che abbiano subito gli effetti negativi provocati dalla pandemia, mi sembra discutibile pretendere che tali imprese non fossero già qualificate dal sistema bancario come “deteriorate” quando quegli effetti si sono verificati. E’ come si dicesse che chi era già malato quando ha contratto il virus non ha diritto ad esser curato. Di imprese in crisi, ma con prospettive di possibile recupero, in Italia ce ne sono moltissime ed è quanto mai opportuno cercare di impedire che l’attuale emergenza pregiudichi le loro possibilità di ripresa. D’altro canto, non ci si può nascondere che anche la distinzione tra imprese la cui crisi è stata provocata o aggravata dalla situazione pandemica ed imprese le cui difficoltà derivano da altri pregressi fattori non si presenta agevole, perché l’attività imprenditoriale, come è ben noto, si sviluppa in un flusso continuo di operazioni i cui effetti si dislocano e protraggono variamente nel tempo. Se allora, come ho già detto, è ragionevole – ed inevitabile anche alla luce dei vincoli europei – che il supporto finanziario sia concesso alle sole imprese che abbiano subito gli effetti negativi provocati dalla pandemia, occorre evitare di porre in essere a tal riguardo distinzioni e meccanismi di controllo che risulterebbero oggettivamente di difficile attuazione, e comunque richiederebbero tempo e probabilmente finirebbero col provocare contenzioso.
4. La ricapitalizzazione delle imprese
Se ci si limitasse ad erogare nell’immediato liquidità alle imprese sotto forma di finanziamenti si rischierebbe però solo di spostare in avanti il problema, senza risolverlo. Si può ragionevolmente sperare che l’emergenza sanitaria prima o poi abbia termine, e che cessi con essa la normativa emergenziale, ma le imprese si troveranno a quel punto gravate da pesanti oneri di rimborso che potrebbero seriamente pregiudicare la loro effettiva possibilità di recupero della piena efficienza aziendale. La cronica sottocapitalizzazione di molta parte dell’imprenditoria italiana, soprattutto quella di dimensioni medio-piccole, non faciliterebbe certo lo scioglimento di tali nodi.
Si pone perciò, ora più che mai, anche l’esigenza di favorire la ricapitalizzazione delle imprese in un’ottica di più lungo periodo. A tale scopo sono finalizzate alcune ulteriori disposizioni del citato d.l. n. 34/2020, a cominciare da quelle dell’art. 26 che consentono di beneficiare di crediti d’imposta alle società le quali, trovandosi nelle condizioni previste da detto articolo, abbiano deliberato di aumentare il proprio capitale, ed analoghi crediti d’imposta si prevedono in favore di chi abbia sottoscritto tali aumenti di capitale. Ancor più rilevante è però forse il successivo art. 27, che contempla l’istituzione, da parte della Cassa depostiti e prestiti, di un apposito patrimonio destinato (denominato “Patrimonio Rilancio"), alimentato con apporti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, cui è consentito anche emettere obbligazioni ed altri strumenti finanziari di debito da offrire in sottoscrizione al pubblico. Il legislatore prescrive espressamente che le risorse di questo patrimonio debbano essere impiegate per il sostegno ed il rilancio del sistema economico e produttivo italiano, ed in particolare che esse debbano servire a sottoscrivere obbligazioni convertibili ed azioni di società, rivenienti da aumenti di capitale o acquistate sul mercato secondario.
Si prefigura dunque la possibilità di un massiccio intervento pubblico nel capitale delle imprese italiane di rilevanti dimensioni (l’intervento è consentito infatti solo in favore di società con un fatturato annuo superiore a cinquanta milioni di euro) che presentino profili di pubblico interesse: profili sin d’ora individuati nello sviluppo tecnologico, nell’importanza strategica delle infrastrutture, delle filiere produttive e della rete logistica dei rifornimenti, nella sostenibilità ambientale e nel mantenimento dei livelli occupazionali, pur essendo demandando poi ad un successivo decreto ministeriale la più specifica determinazione dei requisiti di accesso, delle condizioni, dei criteri e delle modalità degli interventi che il menzionato Patrimonio Rilancio potrà effettuare.
E’ ancora evidentemente troppo presto per una meditata valutazione del quadro risultante da queste disposizioni, del resto ancora mobile e da completare con importanti strumenti di normativa secondaria; né probabilmente una tale valutazione la si potrà davvero fare se prima non sarà stato possibile verificare in concreto come saranno stati utilizzati gli strumenti operativi ai quali si è fatto cenno. Non si può però evitare l’impressione che, almeno nell’immediato, il pendolo della storia stia ricominciando a spostarsi di nuovo verso quelle forme d’intervento della mano pubblica nell’economia che ancora fino a pochi anni addietro erano viste dai più con forte sospetto, se non addirittura con aperta ostilità. Che nei momenti di maggiore difficoltà anche i più accesi liberisti talvolta non esitino ad invocare l’ausilio salvifico dello Stato non è certo un fatto nuovo, ma è difficile predire se e quali prospettive ne possano derivare nel medio o lungo periodo, se si tratta di una tendenza destinata a stabilizzarsi o se il pendolo tornerà ben presto ad oscillare nell’altra direzione. Le passate esperienze hanno ampiamente dimostrato che, indipendentemente dalle contrapposte opzioni ideologiche, l’intervento dello Stato nell’economia può risultare benefico solo a condizione che esso sia sorretto da una ben chiara visione dell’interesse pubblico, profondamente radicata nell’animo e nella cultura dei decision makers, e da una lungimirante capacità progettuale che rifugga da logiche di breve respiro, da suggestioni contingenti e da spinte clientelari o corporativi. Il livello del dibattito politico in corso a questo riguardo nelle sedi istituzionali e sui media non incoraggia a grande ottimismo, ma non è mai vietato sperare.
5. Debito e colpa
Non mi sento in grado di prendere posizione nella discussione tra chi prevede che, superata l’emergenza pandemica, tutto tornerà più o meno come prima e chi, viceversa, sostiene che siamo in presenza di una svolta radicale della storia e che, perciò, niente potrà più essere come in precedenza. Nessuno è oggi in condizione di dire con un minimo di certezza quanto tempo occorrerà perché ci si possa gettare davvero alle spalle la drammatica fase che stiamo attraversando e venga ripristinata una situazione di mercato, per così dire, fisiologica. E già questo basta a rendere azzardato qualsiasi tentativo di prevedere il futuro.
Tornando però al tema dal quale eravamo partiti – la riforma in sospeso del diritto concorsuale – è forse consentito fare, se non una previsione, almeno un auspicio.
Quella riforma al tempo stesso presuppone ed intende promuovere alcuni mutamenti di atteggiamento culturale nell’approccio degli operatori economici e dei giuristi al fenomeno della crisi d’impresa, dell’insolvenza e dell’indebitamento. Tali mutamenti, in estrema sintesi, dovrebbero anzitutto investire il modo in cui si guarda all’insolvenza, da considerare come un fenomeno oggettivo, che occorre regolare in funzione dei molteplici interessi da essa coinvolti indipendentemente dalle cause soggettive che la possano aver prodotta, rifuggendo quindi da ogni prospettiva sanzionatoria (da perseguire, se ve n’è ragione, in altro contesto e con altri strumenti). Non meno importante è lo sforzo di mettere al centro dell’attenzione, prima ancora dell’insolvenza vera e propria, la fase della crisi dell’impresa (o quella ad essa ancora precedente), al fine di percepirne i sintomi il più precocemente possibile e, perciò stesso, di favorire soluzioni di risanamento quasi sempre assai più vantaggiose di quanto lo sia lo sbocco liquidatorio: non solo per lo stesso imprenditore in crisi ma anche per i suoi creditori, per i dipendenti e per il mercato tutto. Il che per un verso implica l’abbandono da parte dell’imprenditore del tradizionale atteggiamento volto a negare e nascondere il più a lungo possibile gli indizi di una crisi incipiente e, per altro verso, una sua maggiore responsabilizzazione in ordine ai profili organizzativi dell’impresa, la cui adeguatezza condiziona la possibilità stessa di cogliere tempestivamente quegli indizi e di reagirvi efficacemente, anziché cercare di mascherarli. Tutto ciò, infine, all’interno di un quadro più generale che, ampliando le possibilità di esdebitazione tanto dell’imprenditore divenuto insolvente quanto del cosiddetto debitore civile, che versi in situazione di sovraindebitamento e rischi di rimanerne indefinitamente schiacciato dal peso irredimibile dei suoi debiti, tende ad offrire loro una seconda chance ogni volta che sia possibile, purché non vi siano condizioni soggettive ostative.
Queste linee di tendenza – vorrei ripeterlo – non esprimono soltanto determinate scelte regolatorie di carattere tecnico-giuridico, in parte del resto già anticipate da molteplici modifiche legislative attuate negli ultimi decenni, ma sottintendono dei veri e propri mutamenti di paradigma culturale. E questi mutamenti, che oltre tutto appaiono coerenti con l’impostazione della già ricordata Direttiva Insolvency, prossima ad essere recepita nel nostro ordinamento, credo ci si debba in ogni modo sforzare cercare di favorirli nel futuro post-Covid, quale che sia il definitivo assetto normativo cui si approderà.
La lezione che la pandemia ci ha impartito dovrebbe servire a convincerci di quanto le sorti di un’impresa possano dipendere da fattori oggettivi, che il singolo imprenditore spesso non è in grado di governare; di come la sempre più forte interconnessione delle realtà imprenditoriali operanti sul mercato renda necessario incoraggiare soluzioni idonee ad agevolare il risanamento aziendale, piuttosto che la disgregazione delle realtà imprenditoriali, favorendo perciò gli strumenti capaci di far emergere tempestivamente i sintomi della crisi e di prevenire situazioni di insolvenza irreversibile; e soprattutto di quanto sia importante sostenere la condizione di chi, non riuscendo più a reggere la propria posizione debitoria, non deve perciò solo essere definitivamente espulso dal circuito della produzione e del consumo di cui il mercato, nel suo insieme, si alimenta.
Ed è forse proprio la riflessione su quest’ultimo profilo, quello dell’esdebitazione, che potrebbe più d’ogni altro ricevere ulteriore impulso dall’esperienza della pandemia, incoraggiando il definitivo allentamento del tradizionale nesso (evidente anche sotto il profilo semantico in altre lingue quali il tedesco) tra debito e colpa. Un nesso assai antico, non privo persino di ascendenze religiose, che traspaiono in qualche misura anche dalla ben nota formula del Padrenostro in cui si chiede a Dio la remissione dei nostri debiti, evidentemente intesi come colpe; di talché in ambito giudiziario la condizione di debitore è stata tradizionalmente ammantata da un’aura negativa, confinante con la colpa. Ma già da gran tempo, lungo l’arco della storia, quel legame tra debito e colpa si è andato man mano affievolendo, o almeno se ne sono attenuati gli effetti sul piano giuridico, ed è venuta meno l’idea che il debitore potesse essere soggetto con la sua stessa persona al soddisfacimento delle ragioni del creditore e che, quando si fosse reso inadempiente, o addirittura insolvente, egli fosse meritevole di punizioni di vario genere. Si tratta di un percorso storico – di storia del diritto ma, al tempo stesso, di storia delle mentalità – non breve, che ha condotto ad un moderno approccio al tema del debito (e dell’insolvenza) suscettibile di trovare il proprio compimento proprio nell’esperienza della crisi da pandemia che stiamo vivendo, in cui risalta pienamente come nell’incapacità di far fronte ai propri debiti non debbano scorgersi né presumersi necessariamente elementi di colpevolezza, ma spesso soltanto gli effetti di una situazione negativa prodotta da un’infinita possibile serie di cause diverse, spesso indipendenti dalla volontà della persona che ne viene coinvolta. Donde la necessità che il debitore insolvente non sia perseguibile dai creditori vita natural durante ma possa, salvo che ne risulti soggettivamente immeritevole, recuperare una condizione di vita respirabile e ritornare ad avere un ruolo attivo nella dinamica del mercato e nella società.
Anticipiamo qui il saggio di Renato Rodorf destinato alla pubblicazione nel numero 2/2020 di Questione Giustizia trimestrale.