L’adesione dell’UE alla CEDU: un obiettivo irraggiungibile?
Con l’espressa attribuzione all’Unione della competenza ad aderire alla CEDU pareva che il principale ostacolo giuridico verso l’adesione fosse stato superato e che, per il conseguimento di questo risultato, bastasse “solo” concordare le soluzioni tecniche più idonee a rendere effettiva la disposizione del Trattato “L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”[1].
La definizione di tali soluzioni tecniche è stata invero complessa, tant’è che i negoziati per concordare il testo di accordo sull’adesione hanno impiegato ben tre anni e non sono mancate manifestazioni di scetticismo circa la loro effettiva possibilità di conclusione positiva[2].
Gli aspetti problematici che i negoziatori hanno dovuto affrontare erano diversi ma tutti derivanti dalla circostanza di fondo relativa alla peculiare natura giuridica dell’Unione europea, ad oggi l’unica organizzazione internazionale ammessa a partecipare alla Convenzione europea, grazie all’entrata in vigore del Protocollo n. 14 alla CEDU che l’ha espressamente consentito. Numerose condizioni erano così state poste in capo ai negoziatori dell’accordo, in parte derivanti dallo stesso Trattato (art. 6(3) TUE; Prot. n. 8; dichiarazione n. 2 relativa all’art. 6(2) TUE) e in parte contenute nella decisione del Consiglio che ha dato il via libera ai negoziati[3]. Tra i lavori preparatori vi erano inoltre alcuni documenti dal peso specifico rilevante, come il documento di riflessione della Corte di giustizia e il parere del servizio giuridico del Consiglio. Tutti, comunque, volti a delineare le esigenze che l’accordo di adesione avrebbe dovuto soddisfare, tenuto conto delle peculiarità dell’ordinamento dell’Unione europea.
Concordato il testo dell’accordo, la Commissione l’ha sottoposto alla Corte di giustizia come richiesto in base all’art. 218(11) del TFUE; l’esito è stato devastante dato che la Corte ha pronunciato un parere nettamente negativo che rischia di bloccare il processo di adesione rinviandolo a data da destinarsi. Tuttavia non si può nascondere che, al netto di talune criticabili argomentazioni della Corte sulle quali ci si soffermerà più ampiamente, l’aver scongiurato l’entrata in vigore di questo progetto di accordo è, paradossalmente, l’aspetto più positivo del parere. I meccanismi individuati nel progetto di accordo, in particolare quello del convenuto aggiunto, sono esempi di ingegneria giuridica destinati a beneficiare solo chi potrà permettersi l’assistenza degli avvocati più preparati e attrezzati, ma che poco hanno a che vedere con l’obiettivo ultimo del rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali perseguito con l’adesione.
La Corte di giustizia, infatti, afferma espressamente che non è l’adesione in sé ad essere incompatibile con l’ordinamento UE e né lo è la conseguente sottoposizione al “controllo esterno” vincolante da parte della Corte EDU. Tuttavia formula poi indirettamente dei “requisiti di compatibilità” che sarà quasi impossibile superare o aggirare, addirittura giungendo ad affermare principi che travalicano le problematiche connesse all’adesione e che riguardano più in generale gli obblighi che già gravano sugli Stati membri[4].
Più in particolare la Corte giunge ad affermare l’incompatibilità del progetto di accordo con l’art. 6(2), del TUE e con il Protocollo n. 8 relativo all’art. 6(2) TUE per i seguenti motivi: - inidoneità del progetto di accordo a preservare le caratteristiche tipiche dell’ordinamento dell’Unione europea; - rischio di pregiudizio della procedura di rinvio pregiudiziale in seguito all’entrata in vigore del Protocollo n. 16 alla CEDU; - violazione del monopolio in capo alla Corte di giustizia circa le controversie tra Stati membri che mettano in causa il diritto dell’Unione europea; - rischio che sia pregiudicato il riparto delle competenze stabilito dai Trattati per effetto del conferimento alla Corte EDU del potere di interpretare il diritto UE in caso di giudizio sull’ammissibilità del meccanismo del convenuto aggiunto, nonché rischio di incidere sulle riserve sollevate da alcuni Stati membri sulla CEDU; - violazione delle competenze dell’Unione e delle attribuzioni della Corte in relazione alle regole sul previo coinvolgimento della Corte di giustizia di fronte alla Corte EDU in quanto non è stabilito che sia l’Unione a decidere se la Corte di giustizia si sia già pronunciata sulla questione pendente davanti alla Corte EDU e in quanto limitano il meccanismo alle sole questioni di validità e non anche di interpretazione; - violazione delle caratteristiche specifiche dell’ordinamento UE con riguardo alla politica estera e di sicurezza comune in quanto una corte esterna all’UE non può avere il potere di contestare la validità di suoi atti allorquando la Corte di giustizia non abbia tale competenza, come accade nella maggioranza degli atti della PESC.
Qui di seguito ci si soffermerà solo su alcuni profili di incompatibilità rilevati dalla Corte, rinviando ad altre sedi per una più completa e approfondita analisi.
Le peculiari caratteristiche dell’ordinamento dell’Unione europea
La Corte avvia le sue argomentazioni ribadendo alcuni aspetti basilari del diritto UE, più volte enunciati e precisati nella sua sessantennale giurisprudenza. Richiamando le storiche e tuttavia attualissime sentenze Van Gend & Loos (sentenza 5 febbraio 1963, causa 26/62) e Costa (sentenza 15 luglio 1964, causa 6/64), la Corte ribadisce che l’Unione europea non è uno Stato e, dunque, implicitamente afferma che l’Unione è un’organizzazione internazionale, sebbene si distingua da tutte le altre. Secondo la Corte anche gli stessi Trattati istitutivi si distinguono dai “trattati internazionali ordinari” (par. 157) in quanto hanno creato “un ordinamento giuridico di tipo nuovo” e sono considerati dalla Corte come fonte originaria dell’ordinamento dell’Unione (par. 166). L’Unione si distingue così da qualsiasi altra organizzazione internazionale per l’ampiezza dei poteri ad essa attribuiti dagli Stati membri e per l’avere come soggetti non solo gli Stati ma anche gli stessi cittadini. Il diritto dell’Unione inoltre gode del primato sugli ordinamenti nazionali, garantito tecnicamente attraverso l’idoneità di alcune delle norme sia primarie sia derivate a produrre effetti diretti, orizzontali e verticali, implicanti la disapplicazione delle norme nazionali con esse in conflitto.
Questo è il nucleo essenziale e originale del diritto UE, sul quale si basano tutti i principi dell’ordinamento UE. Giova qui ricordare che questo nucleo essenziale del diritto UE è stato costruito ed è “custodito” dalla Corte di giustizia attraverso le pronunce rese prevalentemente in seguito a ricorsi in via pregiudiziale, che hanno consentito al diritto UE di essere quello che oggi conosciamo. Tale nucleo di principi non trova, se non sporadicamente, riscontri testuali nel Trattato ed è anche per questo che la preservazione delle prerogative della Corte di giustizia è così necessaria per l’ordinamento dell’Unione europea.
Trattamento più favorevole versus primato del diritto UE
La sintesi degli elementi tipici dell’ordinamento dell’Unione è funzionale alla Corte di giustizia per individuare le parti dell’accordo che non tengono sufficientemente conto di questi aspetti. Tra questi vi è la mancanza di una preclusione in capo alla Corte EDU di sindacare l’ambito di applicazione dei diritti sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Union europea corrispondenti a quelli garantiti nella CEDU. In particolare la Corte EDU non dovrebbe poter applicare il principio del trattamento più favorevole, pacificamente ammesso invece nei rapporti tra CEDU e ordinamenti degli Stati membri, quando l’Unione abbia esercitato una competenza normativa che gli Stati devono rispettare. Secondo la Corte di giustizia, infatti, l’applicazione di standard nazionali non deve pregiudicare il livello di tutela previsto nella carta, né il primato, né l’unità né l’effettività del diritto dell’Unione (sentenza 26 febbraio 2013, Melloni, C‑399/11, EU:C:2013:107).
Sotto questo profilo il rilievo della Corte di giustizia è pienamente condivisibile. La prevalenza del diritto UE, anche di quello derivato, su qualsiasi norma interna anche di rango costituzionale discende, infatti, dai principi del primato e dell’uniforme interpretazione e applicazione, entrambi capisaldi dell’ordinamento dell’Unione europea. La Corte di giustizia non ha mai manifestato alcuna esitazione a questo proposito semmai evitando un eventuale conflitto tra ordinamenti attraverso la strada del dialogo tra le Corti e l’incorporazione dei diritti fondamentali nazionali all’interno dell’ordinamento dell’UE in quanto principi generali, cosa ancora possibile grazie all’art. 6(3) del TUE. È proprio in quest’ottica che quest’ultima disposizione mantiene una significativa rilevanza, anche dopo la codificazione dei diritti fondamentali avvenuta con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Nell’ordinamento dell’Unione non è dunque possibile ammettere che una norma UE possa trovare un limite di applicazione in virtù di una norma di rango costituzionale che offra una protezione maggiore rispetto a quella garantita dalla Carta dei diritti fondamentali eventualmente interpretata alla luce della CEDU e della giurisprudenza della Corte EDU. Diversamente invece nel sistema della CEDU il principio applicato dalla Corte europea è quello della tutela più favorevole, principio classico in materia di diritti umani tutelati da diverse fonti.
L’Unione europea non è un’organizzazione a tutela dei diritti umani ed è dunque plausibile che l’armonizzazione possa determinare una diminuzione del livello di tutela dei diritti garantiti in un ordinamento nazionale, anche di quelli fondamentali. La prassi ci offre molti esempi al riguardo, si pensi ad alcune delle norme in materia di diritto del lavoro o in materia di immigrazione e trattamento dello straniero. Ed è anche frequente che ciò che rappresenta una diminuzione del livello di tutela in uno Stato possa invece essere un aumento in un altro. È proprio questa realtà pluridimensionale dell’armonizzazione e della tutela dei diritti nell’Unione europea che giustifica nell’ordinamento dell’UE il sacrificio di una diminuzione dei diritti in uno o più Stati. Inoltre esistono ampi margini in fase di negoziazione degli atti normativi affinché uno o più Stati inseriscano modifiche, clausole di flessibilità e deroghe al fine di salvaguardare discipline e valori nazionali ritenuti imprescindibili.
La salvaguardia del “primato del rinvio pregiudiziale”
Secondo la Corte poi non esiste nell’accordo alcun meccanismo di coordinamento tra l’eventuale futura competenza pregiudiziale della Corte europea ai sensi del Protocollo n. 16 e il ricorso in via pregiudiziale disposto dall’art. 267 TFUE (par. 196-200). Il punto è condivisibile nella misura in cui vi potrebbero essere questioni sollevate di fronte alla Corte EDU su diritti identici scritti nella Carta e sulle quali potrebbe essere competente anche la Corte di giustizia. Considerando il ruolo cruciale che ha avuto il rinvio pregiudiziale nell’ordinamento dell’Unione ai fini dell’uniforme interpretazione e applicazione del diritto UE, il rilievo della Corte sul punto appare ampiamente condivisibile. Potrebbe essere fatto un parallelo con la c.d. doppia pregiudizialità sul piano interno, costituzionale e dell’Unione europea, ammessa e possibile senza un chiaro obbligo di esperire prima l’una o l’altra. E tuttavia non si può non notare che la Corte di giustizia ha compiti diversi rispetto alle corti costituzionali degli Stati membri, anche rispetto a quelle degli Stati federali: la Corte di giustizia deve salvaguardare le competenze attribuite all’Unione e garantire l’uniforme interpretazione e applicazione del diritto UE in ventotto Stati diversi sulla base di principi dell’ordinamento da essa stessa formulati e ancora in gran parte non codificati. In quest’ottica preservare il ruolo della Corte di giustizia attraverso il rinvio pregiudiziale significa preservare la natura stessa dell’Unione e di quell’“integrazione attraverso i diritti” dei quali la Corte è stata fautrice e garante.
Il principio di reciproca fiducia e gli obblighi derivanti dalla CEDU: un ostacolo insormontabile
La parte nella quale il parere della Corte risulta difficilmente condivisibile è quello relativo alla mancata adeguata considerazione della rilevanza assunta nell’ordinamento UE dal principio della reciproca fiducia e al ruolo che questo principio potrebbe svolgere in relazione alla tutela dei diritti fondamentali (par. 190). Secondo la Corte da questo principio deriverebbe un obbligo di presunzione di rispetto dei diritti fondamentali da parte degli altri Stati membri, senza la possibilità di esigere un livello di tutela più elevato di quello garantito nel diritto dell’Unione ma anche di verificare se uno Stato abbia rispettato in un caso concreto il diritto garantito dal diritto dell’UE, salvo casi eccezionali (par. 192). La Corte dunque conclude che il progetto di accordo di adesione non avrebbe tenuto sufficientemente in considerazione le peculiarità del diritto dell’UE, sostanzialmente equiparandola ad uno Stato ed omettendo di considerare che nei loro reciproci rapporti gli Stati UE sono governati da regole diverse rispetto a quelle vigenti tra gli Stati non membri e che dunque fra di essi non potrebbero applicarsi gli stessi parametri che valgono nei rapporti tra Stati non membri dell’UE (par. 193-194).
Leggendo questa parte del parere non può non venire in mente la c.d. “saga Dublino” nella quale si è registrata una marcata differenza di approccio tra la Corte europea e alcune corti nazionali da una parte e la Corte di giustizia dall’altra. Come noto, in seguito alla sentenza della Corte EDU M.S.S.[5]di condanna del Belgio per i trasferimenti verso la Grecia nell’ambito del c.d. regolamento Dublino II, nella sentenza N.S. (espressamente richiamata anche nel parere in commento), la Corte di giustizia ha pronunciato questa teoria della “presunzione di sicurezza” dei Paesi membri[6]. Una presunzione che secondo la Corte deve essere intesa in modo quasi assoluto e ribaltabile solo in presenza di violazioni sistemiche dei diritti fondamentali in uno Stato membro (una formulazione quasi identica è stata poi inserita nel c.d. regolamento Dublino III). Un’interpretazione estremamente riduttiva della giurisprudenza che la Corte EDU ha sviluppato in relazione all’art. 3 sul divieto di tortura e trattamenti disumani e degradanti applicato agli allontanamenti di persone tra uno Stato ed un altro. La Corte europea non ha infatti ritenuto che l’essere uno Stato parte dell’UE possa in alcun modo attenuare i propri obblighi derivanti dall’appartenenza alla CEDU, in particolare di quelli inderogabili come l’art. 3, rispetto al quale esiste ed esisterà sempre negli Stati anche un obbligo di tutela preventiva. Così nelle recenti sentenze Sharifi e Tarakhel, rispettivamente di condanna dell’Italia per gli allontanamenti verso la Grecia e della Svizzera per gli allontanamenti verso l’Italia, la Corte EDU ha ribadito il proprio costante orientamento in materia di allontanamenti di persone da uno Stato ad un altro[7]. Si consideri anche che anche se si considerasse l’UE tutta come un unico Stato, esisterebbero comunque responsabilità dei soggetti pubblici per le violazioni commesse nel loro territorio e questo sia in chi espone il soggetto al rischio grave di violazione sia in chi commette la violazione.
La Corte di Giustizia ritiene dunque che l’accordo di adesione sia deficitario perché non tiene in conto delle specificità dei rapporti tra Stati membri dell’UE rispetto a quelli esistenti tra Stati non membri che dovrebbero loro consentire di non indagare sul livello di tutela dei diritti umani esistente negli altri Stati basandosi su una presunzione di fiducia sostanzialmente assoluta.
Il controllo giurisdizionale in ambito PESC
Altamente criticabile è il ragionamento seguito dalla Corte di giustizia relativamente al controllo giurisdizionale degli atti in ambito PESC. La Corte afferma espressamente che “allo stato attuale del diritto dell’Unione, taluni atti adottati nell’ambito della PESC sfuggono al controllo giurisdizionale della Corte” (par. 252) mentre potrebbero essere sottoposti al controllo della Corte EDU “per effetto dell’adesione” (par. 254). Questa affermazione della Corte lascia letteralmente disorientanti: il senso della giurisprudenza Bosphorus era quello di astenersi dal sindacare su violazioni derivanti da atti UE in presenza “di una tutela equivalente”[8]. Il sistema della CEDU acquista tutta la sua rilevanza proprio quando i mezzi interni, nazionali e dell’UE, non esistono o non sono stati efficaci a proteggere una persona dalla violazione di un diritto fondamentale sancito nella CEDU. La stessa adesione dell’UE alla CEDU assume una rilevanza proprio come strumento sussidiario di protezione dei diritti laddove nessuna corte, né nazionale né UE, ha garantito la protezione, indipendentemente dal fatto che ciò sia successo perché non vi è la competenza della Corte. Si può anche affermare che proprio la giurisdizione della Corte EDU potrebbe divenire lo strumento per affermare la giurisdizione delle Corti UE nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione europea, perché la CEDU potrebbe arrivare a considerare l’assenza di competenza della Corte di giustizia come una violazione del diritto ad un ricorso effettivo ed imporre così una modifica dei Trattati istitutivi.
Lo scenario futuro
Nonostante che la Corte abbia espressamente affermato la propria disponibilità ad essere sottoposta ad un “controllo esterno”, il parere rischia di costituire un ostacolo insormontabile che potrebbe determinare uno stallo di lunga durata. Quanto richiesto dalla Corte di giustizia infatti è di difficile concessione da parte degli altri Stati membri della Convenzione europea. Sarebbe plausibile e accettabile da parte degli altri Stati parti della CEDU che per alcuni Stati “basti” un accordo internazionale tra loro, anche se “speciale” come quello UE, per derogare agli obblighi derivanti dalla CEDU nei loro rapporti reciproci o in relazione ad atti adottati in materia di politica estera?
Se la Corte di giustizia considerasse questo come ostacolo imprescindibile è evidente che difficilmente l’adesione potrà concretizzarsi. Per gli altri profili di incompatibilità invece, in gran parte condivisibili, possono essere trovate “soluzioni” attraverso strumenti diversi rispetto a quelli individuati nel progetto di accordo. Non è esclusa anche la revisione degli stessi Trattati UE: ciò potrebbe essere auspicabile, ad esempio, per modificare il meccanismo del rinvio pregiudiziale e renderlo un vero e proprio ricorso interno, che dovrebbe dunque essere necessariamente esperito previamente per soddisfare il requisito previsto ai sensi dell’art. 36 CEDU o, almeno, richiesto dalle parti pena la preclusione della possibilità di rivolgersi alla Corte EDU[9].
Non sarebbero invece ipotizzabili modifiche dei Trattati che “aggirino” i rilievi sollevati dalla Corte, almeno non di quelli che sono a tutela delle caratteristiche essenziali dell’ordinamento dell’Unione europea.
Ciò che è certo è che un compito molto arduo è affidato ai negoziatori che dovranno riscrivere l’accordo, ammesso che vi sia la volontà di entrambe le parti di riaprire i negoziati.
[1] Si ricorderà che con parere 2/94 del 1996 la Corte di giustizia aveva ritenuto che la competenza all’adesione, allora non espressamente prevista, non potesse essere neanche ricavata implicitamente dalle norme del Trattato.
[3] Si veda la raccomandazione del 17 marzo 2010, SEC(2010)305 per una decisione del Consiglio che autorizza la Commissione a negoziare l’accordo di adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
[4] Con straordinario tempismo già il giorno stesso della pronuncia sono stati pubblicati i primi critici commenti, ai quali ne sono seguiti poi altrettanti sempre di analogo tenore; si veda in particolare L.S. Rossi, Il Parere 2/13 della CGUE sull’adesione dell’UE alla CEDU: scontro fra Corti?, in http://www.sidi-isil.org/sidiblog/; nello stesso blog si veda S. Vezzani, “Gl’è tutto sbagliato, gl’è tutto da rifare!”: la Corte di giustizia frena l’adesione dell’UE alla CEDU; S. Peers, The CJEU and the EU’s accession to the ECHR: a clear and present danger to human rights protection, . Una rassegna dei commenti pubblicati si trova su Eurojus.it, http://www.eurojus.it/il-parere-213-della-corte-di-giustizia-sulladesione-dellunione-europea-alla-cedu-follow-up-sulle-reazioni-della-dottrina/
[5] Corte EDU, sentenza del 21 gennaio 2011, M.S.S. v. Belgium and Greece,Appl. no. 30696/09.
[6] Corte di giustizia, sentenza del 21 dicembre 2011, N.S., C-411/10.
[7] Corte Edu, sentenza del 21 ottobre 2014, Sharifi c. Italie et Grece, Req. n°16643/09; sentenza del 4 novembre 2014, Tarakhel v. Switzerland, Appl. no. 29217/12
[8]Corte EDU, sentenza del 30 giugno 2005, Bosphorus Hava Yollari Turizm Ve Ticaret Anonim Şirketi v. Ireland, Appl. no. 45036/98.
[9] Si veda il documento del Consiglio n. 10568/10 del 2 giugno 2010, punto D, pag. 6, che menziona questa possibilità come un’opzione intermedia e residuale ed infatti non è stata inserita nel progetto di accordo. Si veda anche la sentenza della Corte EDU dell’8 aprile 2014, Dhahbi c. Italie, Req. no. 17120/09, con la quale la mancata motivazione circa il mancato accoglimento della richiesta di rinvio pregiudiaziale presentata dalle parti di fronte alla Corte di cassazione italiana, giurisdizione di ultima istanza, è stata giudicata come una violazione dell’art. 6 della CEDU.