1. Il modello di Stato e di Europa in cui oggi viviamo rappresenta l’esito ultimo dell’affermazione di valori, avvenuta spesso attraverso lotte durissime e processi culturali di lungo periodo, che sono entrati a far parte della costruzione della nostra comunità, nazionale ed europea, e della loro specificità. Pensiamo alla pari dignità e all’eguaglianza fra le persone, senza distinzione di genere, di credo religioso, di identità etnica: un valore che è stato sino ad oggi un elemento portante dei sistemi costituzionali europei, ma anche un criterio attraverso il quale dividiamo il mondo tra “noi” e gli “altri”.
Nel processo di costruzione del sistema di valori che oggi fa ritenere l’Europa un modello globale di tutela dei diritti, e la terra promessa per chi è costretto a fuggire da situazioni di drammatica privazione di diritti, le giurisdizioni – fra alti e bassi, avanzamenti e arretramenti – hanno assunto un ruolo di protagoniste.
Attori costanti di questo processo sono stati infatti i giudici di tutti i Paesi europei e le istituzioni giudiziarie transnazionali che si sono create nei processi di europeizzazione del diritto del secondo dopoguerra, rappresentate dalla Corte di giustizia dell’UE e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, espresse rispettivamente dalle comunità europee, poi Unione Europea, e dal Consiglio d’Europa.
L’ interazione fra le Corti e i Tribunali nazionali significa che oggi ogni persona può far conto su una tutela dei propri diritti realizzata in più livelli di giurisdizione, alcuni dei quali estranei al sistema giuridico dello Stato nazionale di cui la persona è cittadino o in cui vive.
È un processo che ha prodotto un assoluto cambio di paradigma rispetto al modello degli Stati a sovranità illimitata, che non ammettevano altro giudice al di fuori del proprio giudice, espresso dalla propria Costituzione e dal legislatore nazionale. Un cambio di paradigma che si è intrecciato con l’affermazione di fonti giuridiche sovranazionali, e che ripete e moltiplica quello che in Europa occidentale è stato introdotto – come reazione alle derive totalitarie – con la diffusione generalizzata del controllo giudiziario di costituzionalità, intaccando il primato assoluto della legge a favore del primato dei diritti e della persona.
Il pluralismo di fonti e di giurisdizioni che si è creato ed affermato a livello europeo è espressione ed esso stesso origine di un sistema di tutela complesso, che interagisce in vario modo con i sistemi nazionali: la Corte Edu opera come corte direttamente accessibile, una volta esauriti i rimedi giurisdizionali disponibili a livello nazionale, dai soggetti che assumono di aver subito direttamente una violazione dei propri diritti fondamentali da parte dello Stato; la Corte di giustizia ha sviluppato il suo ruolo di “giudice dei diritti” soprattutto attraverso il dialogo con i giudizi nazionali che, nell’ambito di una controversia della quale sono investiti, possono interpellare la Corte in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione o alla validità di un suo atto, usando lo strumento del rinvio pregiudiziale previsto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.
Questa nuova architettura giudiziaria ha comportato un’ innovazione radicale per le persone, per tutti i cittadini europei e per chi si affacci oggi all’Europa: a differenza di quanto accadeva per le generazioni anteguerra, oggi la tutela dei diritti delle persone non è circoscritta all’ambito e alle culture giuridiche espresse dai sistemi statali ma viene sviluppata all’interno di istituzioni nelle quali le pressioni politiche e sociali, con le quali i singoli giudici nazionali sono inevitabilmente costretti più direttamente a confrontarsi, si diluiscono e si bilanciano con simmetriche spinte che agiscono in altri Paesi, secondo la logica dei sistemi federali. Una logica che si comprende bene se si pensa all’antefatto più evidente di “giudice di più Stati”, quello statunitense, e ai momenti più alti del suo ruolo di giudice delle libertà garantite negli emendamenti alla costituzione che costituiscono il cd. Bill of rights. Basti ricordare come negli anni ‘50 la Corte suprema riuscì ad affermare il divieto di segregazione razziale che, in molti Stati della federazione, il contesto politico e sociale non consentiva neppure di immaginare.
La storia delle giurisdizioni europee è certo molto differente dall’antefatto statunitense, ma ne condivide il presupposto di una giurisprudenza sovranazionale che pone una serie di principi distillati dalle carte di riferimento, che costituiscono l’intelaiatura indiscussa e la base della valutazione da compiere nel caso concreto, e definiscono il quadro in cui l’azione statale è tenuta svolgersi. È di questi giorni la notizia della legge approvata in Alabama sul divieto di aborto: vale la pena ricordare che solo il mantenimento di una maggioranza ad esso favorevole tra i nove giudici di Washington ha sino ad ora garantito il diritto all’interruzione della gravidanza contro i ricorrenti tentativi di arretramenti con svolte conservatrici dei legislatori statali.
Oggi non sarebbe pensabile un passo indietro, una mancanza di verifica giurisdizionale e di un controllo di costituzionalità delle leggi in punto di libertà degli atti dei legislatori, centrale e statale.
Oggi non è per noi immaginabile una cultura giuridica europea senza la giurisprudenza in tema di libertà e di diritti delle Corti europee che non assicurano una semplice “istanza in più”, ma rappresentano la garanzia di uno strumento di verifica del rispetto dei diritti che permette una rilettura svincolata dai limiti tecnici, culturali, politici che possono impedire al giudice nazionale di dare ai diritti un’adeguata tutela o di affrontare tutti gli aspetti rilevanti delle questioni esaminate. Non si tratta di ritenere lo sguardo dei giudici europei sempre e comunque più acuto, ma di cogliere l’importanza che il discorso sui diritti comprenda una capacità di visione attraverso una lente in grado di cogliere uno spettro più ampio di prospettive, in un’ottica non puramente nazionale. È questo sguardo più ampio che consente di interpretare e di dare risposta ai nuovi bisogni, seguendo quell’evoluzione e quell’espansione che i diritti devono avere perché, nel contesto di una società che muta e di un rapporto mutevole fra individuo e società, individuo e potere pubblico, la centralità e il primato della persona non vengano mai meno e la dimensione dei diritti si adegui al venir meno dei limiti di spazio e di tempo prodotto dalle trasformazioni globali della società.
2. Questo percorso di ampliamento delle tutele si coglie bene attraverso la lettura di numerose ed importanti sentenze della Corte di Strasburgo che riguardano il nostro Paese e che bene esemplificano gli effetti prodotti dalla giurisdizione sovranazionale in direzione di un innalzamento del livello di protezione dei diritti, e le diverse modalità con le quali questi effetti si possono realizzare.
L’effetto conformativo che la giurisprudenza della Corte produce sulla decisione del giudice comune – come chiarito dalla Corte costituzionale – implica che, nell’interpretazione del sistema di norme da applicare al caso concreto, questi è tenuto ad uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente, in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza; di fronte a un diritto consolidato, generato dalla giurisprudenza europea, il giudice è tenuto a porlo a fondamento del proprio processo interpretativo e, in caso di normativa nazionale in alcun modo interpretabile in senso convenzionalmente orientato, non potendo disapplicare la norma interna, dovrà ricorrere all’incidente di legittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 117 della Costituzione, norma attraverso la quale il diritto convenzionale incide su quello interno.
Spesso il vuoto di tutela nel sistema nazionale che la giurisprudenza europea della Corte Edu può colmare è determinato dall’inerzia del legislatore, dalla mancanza di adeguati strumenti di tutela a disposizione del giudice o da limiti strutturali dell’ordinamento interno.
Significative in tal senso sono le decisioni sui ricorsi promossi per il mancato riconoscimento delle unioni di coppie dello stesso sesso: la Corte di Strasburgo ha riconosciuto la violazione del diritto alla vita privata e familiare delle coppie ricorrenti ai sensi dell’art. 8 Cedu, in un contesto normativo nel quale il legislatore era rimasto inerte anche dopo le indicazioni venute in particolare dalla Corte costituzionale che aveva riconosciuto la necessità di tutela ma ribadito che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spettava al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme per riconoscerla e garantirla.
La condanna dei giudici di Strasburgo, inserendosi nel circuito di tutela attivato in ambito nazionale, sia pure con esiti non risolutivi in termini di riconoscimento dei diritti, ha di fatto messo in mora il nostro legislatore, ed ha in tal modo contribuito all’approvazione della cd. legge Cirinnà.
Un percorso inverso si è sviluppato nel caso della violazione del divieto sancito dall’art. 3 Cedu di trattamenti disumani e degradanti in relazione alle condizioni delle persone in stato di detenzione determinate dalle condizioni di sovraffollamento carcerario. Dopo la condanna della Corte del gennaio 2013 (nel noto caso Torreggiani), i Tribunali di sorveglianza di Venezia e di Milano , proprio richiamando la pronuncia di Strasburgo, sollevavano la questione di legittimità costituzionale della norma che nel nostro ordinamento consente di differire a particolare condizioni l’esecuzione della pena nella parte in cui non prevedeva, oltre alle ipotesi espressamente contemplate, il caso di pene da eseguire in condizioni contrarie al senso di umanità a causa del sovraffollamento degli istituti penitenziari. La Corte costituzionale, pur affermando l’intollerabilità dell’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema del sovraffollamento carcerario, dichiarava inammissibile la questione a fronte della pluralità di possibili configurazioni dello strumento normativo da introdurre per risolverlo e il necessario rispetto della priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario.
L’intervento della Corte di Strasburgo, seguito da quello dei giudici nazionali e della Corte costituzionale, anche in questo caso ha aperto la strada all’intervento attuato con l’adozione nel 2013 di disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena e di misure finalizzate a ridurre il fenomeno del sovraffollamento nonché a garantire forme di riparazione alle persone costrette a scontare la pena in condizioni disumane e degradanti.
Gli esempi potrebbero continuare con le pronunce che hanno preceduto l’approvazione della legge sulla tortura: qui le condanne dell’Italia per violazione dell’art. 3 Cedu, nate dalle gravissime vicende del G8 di Genova, erano motivate dal sostanziale diniego di giustizia che, nonostante l’esemplare fermezza dei giudici nazionali nel sanzionare le condotte di reato accertate, si era prodotto per effetto di una complessiva e strutturale inadeguatezza del quadro giuridico di repressione della tortura nel nostro ordinamento, a cui avevano contribuito la mancanza di una specifica norma incriminatrice, e la possibilità per i responsabili di beneficiare della prescrizione e dell’indulto.
Particolare interesse riveste anche la vicenda relativa all’uso del crocifisso nelle aule scolastiche. Dopo una prima pronuncia di condanna, in sede di riesame dinanzi alla Grande Camera, la Corte ha ritenuto che la semplice esposizione di un crocifisso, come «simbolo essenzialmente passivo», assicura il rispetto del principio di neutralità e non contrasta con la libertà di pensiero, coscienza e religione (articolo 9 della Convenzione).
Al di là del merito della decisione, il caso interessa per le modalità con cui la questione era stata incanalata nell’architettura giudiziaria italiana: a seguito dell’ordinanza di rimessione del Tar del Veneto, la Corte costituzionale si era pronunciata per l’inammissibilità della questione, vista la natura regolamentare delle norme che impongono l’esposizione del crocefisso; successivamente, il giudice amministrativo (Tar e Consiglio di Stato) aveva escluso il contrasto tra obbligo di esposizione e il principio di laicità, ritenendo il crocifisso un simbolo non solo religioso, ma anche storico e culturale. Con il ricorso alla Corte di Strasburgo, si è dunque fatta valere la lesione di un diritto in una questione con enormi implicazioni di principio, rispetto alla quale, a livello nazionale, i ricorrenti non avevano avuto possibilità di ottenere una decisione dalla giurisdizione specificamente deputata alla tutela dei diritti fondamentali.
3. Se l’esperienza della Corte Edu è nata dalla scelta compiuta nel secondo dopoguerra di creare le condizioni di una pace durevole attraverso il riconoscimento e la garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali, quella rappresentata dalla Corte di giustizia è indicativa di come, nella dimensione sovranazionale – ancorché inizialmente limitata negli scopi, se non nelle intenzioni dei padri fondatori, per effetto della connotazione prevalentemente economica assunta dall’ambito definito come unitario – la tutela dei diritti è inevitabilmente destinata ad espandersi e un sistema multilivello di tutela si è realizzato anche in assenza di accesso diretto al giudice europeo del singolo privato di un diritto dal suo Stato, dalla legge del suo stato o dall’errore del suo giudice.
Se guardiamo al percorso di integrazione europea dal punto di vista della giurisdizione, comprendiamo la nota affermazione di Rodotà: non senza incertezze e passi indietro, con molte luci e non poche ombre, «nel silenzio e nell’incomprensione della politica, i giudici hanno fatto l’Europa». Non si tratta di un riconoscimento al lavoro dei giudici ma di una affermazione che ci mette di fronte alla realtà della forza unificante e trainante che hanno avuto i diritti nel processo di integrazione, e che richiama l’Europa alle responsabilità che oggi, in nome dei diritti, è tenuta ad assumersi.
Come scrive Mauro Cappelletti [1], la storia dell’Europa ci dimostra che sempre le epoche più gloriose della sua civiltà giuridica sono state caratterizzate da una grande pluralità di fonti del diritto e, con il nuovo pluralismo delle fonti emerso quando il diritto statale ha incontrato nuovi compagni e competitori (il diritto dell’Unione, i principi generali non scritti, Bills of rights nazionali e sovranazionali), per i giudici si è posta la necessità di interpretare, di sviluppare tutte le implicazioni di questo nuovo complesso ordito e di ritrovare in esso ogni volta il filo conduttore, che è diventato il principio della massima tutela che nello spazio dell’Unione ai diritti fondamentali può essere assicurato.
E proprio la filosofia dei diritti, sviluppata in questo sistema, è diventata una forza di integrazione che ha avuto una svolta decisiva con l’adozione della Carta di Nizza. I giudici hanno fatto la “loro parte”, “prendendo sul serio”, come ha scritto Franco Ippolito, i principi delle Carte, sviluppando tutte le loro implicazioni sul piano della tutela effettiva dei diritti e operando senza resistenze culturali rispetto all’ interazione con il livello sovranazionale che ne garantisce la massima attuazione.
Ancorché non concepita all’origine come giudice dei diritti e delle libertà se non negli ambiti dell’integrazione economica (quindi libertà di circolazione dei beni e delle persone), la Corte di giustizia ha posto le basi per lo sviluppo nella giurisdizione, e attraverso la giurisdizione, di un modello di integrazione europea fondato sui diritti e sullo Stato di diritto. Partendo dal principio del primato del diritto dell’Unione, la Corte ha riaffermato il carattere diffuso e inderogabile del controllo giurisdizionale al quale, nell’ambito dell’Unione, tutti sono soggetti (anche gli Stati membri e le istituzioni europee) e al quale tutti i giudici nazionali concorrono, applicando il diritto dell’Unione.
Si può affermare che sin dai primi anni Sessanta la Corte di giustizia ha cominciato ad assumere la sua fisionomia di giudice dei diritti delle persone. Nella storica sentenza van Gend & Loos (causa 26/62, 5 febbraio 1963), la Corte riconosceva alla Comunità i caratteri di un ordinamento giuridico di nuovo genere a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani: tale ordinamento riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini e il diritto comunitario, indipendentemente dalle norme emananti dagli Stati membri, nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi.
Da questa impostazione è derivata l’attribuzione ai giudici nazionali del potere di far valere l’effetto primario e diretto del diritto comunitario, disapplicando il diritto nazionale con esso contrastante, in modo che la tutela dei diritti conferiti alle persone dal diritto dell’Unione non sia subordinata al riconoscimento da parte del legislatore nazionale, e dell’obbligo di interpretazione del diritto nazionale in maniera conforme alla formulazione e allo scopo del diritto dell’Unione. E la garanzia di una effettività della tutela dei diritti conferiti alle persone dal diritto dell’Unione ha portato all’affermazione della responsabilità dello Stato per i danni arrecati ai singoli allorquando la mancata attuazione dei diritti sia imputabile al legislatore nazionale o la loro violazione sia riconducibile all’erronea interpretazione del diritto dell’Unione da parte dei giudici nazionali di ultima istanza.
Attraverso il sistema multilivello, la tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali si è realizzata e rafforzata in numerosi e rilevanti ambiti.
Pensiamo solo alla costruzione del diritto antidiscriminatorio europeo, un ambito di tutela di diritti fondamentali con caratteristiche multilivello da sempre molto marcate. La Corte nell’interpretare il diritto eurounitario, nel quale un ruolo cruciale è svolto dalle direttive del 2000 in tema di discriminazione etnica e razziale, ha spesso oggettivamente riempito vuoti di tutela emersi a livello nazionale, dovuti alle infinite e sempre mutevoli forme del fenomeno discriminatorio. Un esempio tra tanti è la decisione del 2015, relativa alla Bulgaria, che riguardava l’installazione di contatori elettrici a un’altezza inaccessibile in un quartiere densamente popolato da Rom ritenuta discriminatoria, in quanto misura sproporzionata basata su una semplice presunzione di comportamenti illeciti in una certa comunità identificata su base etnica. Può sembrare questione di ambito limitato, ma è una decisione che rappresenta una importante risposta in termini di tutela a fronte di fenomeni di discriminazione e stigmatizzazione che oggi vediamo chiaramente emergere nel nostro Paese.
Nell’ambito della tutela dei diritti dei migranti, vale la pena ricordare la sentenza El Dridi del 2011 con la quale la Corte di giustizia, in risposta alla domanda pregiudiziale di interpretazione sottopostale dalla Corte d’appello di Trento, forniva un’interpretazione della direttiva sulle norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri per il rimpatrio di cittadini di Paesi terzi irregolari, ostativa alla normativa nazionale che prevedeva la pena della reclusione per la semplice permanenza del cittadino extracomunitario, senza giustificato motivo, nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine di allontanamento emesso nei suoi confronti.
La Corte ha chiarito che scopo della direttiva era perseguire l’attuazione di un’efficace politica in materia di allontanamento e rimpatrio nel pieno rispetto dei diritti fondamentali e della dignità dei cittadini dei Paesi terzi e per effetto della natura incondizionata e sufficientemente precisa delle relative disposizioni, ha riconosciuto la sua applicabilità nell’ordinamento interno nonostante la scadenza del termine per la sua attuazione.
La pronuncia, come noto, ha prodotto immediato effetto nel nostro ordinamento portando alla disapplicazione della norma incriminatrice (art. 14 comma 5-ter d.lgs 286/1998) e, per effetto di una sostanziale abolitio criminis, con una interpretazione costituzionalmente obbligata, alla revoca delle sentenze di condanna.
4. Nell’attuale contesto caratterizzato dalla deriva verso forme di democrazie illiberali in paesi membri dell’Unione (l’Ungheria, la Polonia e da ultimo la Romania) e dall’instaurazione di un vero e proprio regime autoritario in Turchia, il ruolo svolto dalla Corte di giustizia, e dal dialogo con i giudici nazionali, appare fondamentale per la tenuta dei principi dello Stato di diritto.
Si può affermare che la Corte di giustizia ha contribuito anzitutto a scardinare quel concetto di Stato di diritto tradizionalmente legato al concetto di sovranità e di identità nazionale, e alle tradizioni giuridiche e storiche dei singoli Stati (e per questo rientrante nell’ambito del loro domaine réservé ), oggi rivendicato proprio da quei Paesi che hanno avviato e portato a compimento riforme per alterare in maniera permanente gli equilibri fra i poteri dello Stato, ed assoggettare la magistratura e i Consigli di Giustizia al controllo dell’esecutivo. Questa “visione” dello Stato di diritto come espressione del nucleo intangibile della sovranità nazionale è alla base del rifiuto opposto alla Commissione Europea di avviare una interlocuzione sugli effetti di tali riforme nell’ambito del nuovo quadro di tutela dello Stato di diritto adottato nel 2014 per fronteggiare le situazioni di crisi sistemica, rifiuto che ha portato la Commissione ad attivare per la prima volta la procedura di infrazione nei confronti della Polonia per violazione dei valori comuni su cui si fonda l’Unione e il Parlamento europeo a sollecitare l’avvio di analoga procedura nei confronti dell’Ungheria.
La Corte di giustizia ha avallato la definizione di “Stato di diritto” che è alla base della scelta della Commissione Europea di introdurre un sistema di verifica della persistente conformità degli Stati membri ai requisiti di adesione, fra cui la presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia e lo “Stato di diritto” (il cd. criterio politico, definito dal Consiglio europeo di Copenaghen nel 1993 in vista dell’allargamento dell’Unione a Est).
Una definizione che include il principio di certezza giuridica e di legalità non solo in senso formale ma quale principio posto a presidio dei diritti fondamentali, che diventano il parametro di valutazione anche di scelte compiute nel rispetto della “legalità” formale; il divieto di esercizio arbitrario dei poteri pubblici; il diritto di accesso ad una giurisdizione indipendente, effettiva ed imparziale, che assicuri il rispetto dei diritti fondamentali e la conformità degli atti delle istituzioni europee ai trattati, ai principi generali e ai diritti fondamentali; il diritto a un giusto processo, che presuppone e richiede la separazione dei poteri e l’indipendenza del sistema giudiziario; il principio di eguaglianza di fronte alla legge.
Il principio di indipendenza dei sistemi giudiziari appartiene dunque al nucleo essenziale del patrimonio di valori comuni dell’Unione: riforme e interventi con ricadute sui requisiti di indipendenza e di imparzialità di un sistema giudiziario riguardano l’Unione nel suo complesso e tutti gli Stati che ne fanno parte; il corretto funzionamento dell’Unione esige uno standard comune di qualità e di efficienza delle giurisdizioni nazionali per garantire un’amministrazione della giustizia equa, efficiente ed imparziale.
Dopo una recente pronuncia resa sul ricorso proposto dall’Associazione dei giudici portoghesi con riferimento a provvedimenti di riduzione dell’importo della retribuzione, la Corte di giustizia ha riaffermato questi principi decidendo sulla domanda di rinvio pregiudiziale proposta in via d’urgenza da un giudice irlandese, nel corso di una procedura di esecuzione di un mandato di arresto europeo emesso dall'autorità giudiziaria polacca nei confronti di un cittadino polacco: la decisione quadro relativa al mandato d'arresto europeo, ha chiarito la Corte, deve essere interpretata nel senso che, in presenza di elementi concreti idonei a dimostrare l'esistenza di un rischio reale di violazione del diritto fondamentale ad un equo processo per carenze sistemiche o generalizzate riguardanti l'indipendenza del potere giudiziario dello Stato membro emittente, l'autorità giudiziaria richiesta della consegna deve verificare se sussistano elementi seri e comprovati per ritenere sussistente il rischio di violazione di tale diritto fondamentale.
È importante sottolineare il ruolo fondamentale che, anche in questo contesto, ha avuto ancora una volta il dialogo fra la Corte di giustizia e i giudici nazionali, ponendosi come giudici europei, appartenenti ad una comunità di diritto fondata su valori e principi comuni.
E da Strasburgo è finalmente arrivata pochi giorni fa la tanto attesa risposta, che ha interrotto quello che Medel (l’Associazione dei magistrati europei “per la democrazia e le libertà”, da sempre attivamente impegnata per una Europa dei diritti e dello Stato di diritto) ha definito il mutismo della Corte sulle gravissime violazioni dei diritti fondamentali che si sono consumate e intensificate in Turchia dopo il fallito colpo di Stato del luglio 2016, con arresti di massa di migliaia di magistrati, avvocati, giornalisti, funzionari pubblici, insegnanti. Dopo le prime pronunce di inammissibilità di ricorsi che pendono dinanzi alla Corte di Strasburgo, motivate dal mancato esperimento dei ricorsi interni stabiliti dalla legislazione di emergenza, la Corte si è pronunciata sul ricorso di Alparslan Altan, giudice costituzionale dal 2010, arrestato nel luglio 2016, destituito e poi condannato perché ritenuto affiliato all’organizzazione terroristica Gulenista FETÖ/PDY.
La Corte ha ritenuto fondato il ricorso per violazione dell'art. 5 della Cedu (diritto alla libertà e sicurezza) ribadendo che, secondo la propria consolidata giurisprudenza in materia, il diritto alla libertà personale può essere limitato da un ordine legittimo di arresto o di detenzione, sulla base di un ragionevole sospetto di commissione di reato o di prevenzione della commissione di un reato o di pericolo di fuga dopo la commissione di un reato, secondo una procedura stabilita dalla legge, e ha ribadito il ruolo di garanzia che i sistemi giudiziari svolgono in ordinamenti democratici secondo i principi dello Stato di diritto e di separazione dei poteri.
Principi che, pur in un contesto di stato di emergenza e di deroga alla Cedu (notificata al Consiglio d'Europa dalla Turchia dopo gli eventi del luglio 2016), impongono il rispetto delle garanzie che devono assistere la privazione della libertà personale in base all’ art. 5 della Cedu sulla base di un ragionevole e riscontrabile sospetto di commissione di un reato.
5. Mancano pochi giorni ad un appuntamento decisivo per il futuro dell’Europa unita.
Non vi è giudice nei confini dell’Europa che oggi non sia consapevole che solo la comune appartenenza ad una comunità di diritto, fondata sul primato dei diritti e dello Stato di diritto, può garantire l’indipendenza della giurisdizione e per questo il suo ruolo di garanzia e di protezione della persona contro ogni uso arbitrario del potere.
E non vi è giudice nei suoi confini che oggi non si senta giudice europeo, che non avverta il senso di un percorso irreversibile che la giurisdizione deve continuare a compiere verso l’effettiva realizzazione di un spazio comune di Giustizia.
Un percorso irreversibile che l’Europa deve proseguire, tenendo fede alla promessa solenne che leggiamo nel preambolo della Carta dei diritti fondamentali, con la quale ha assunto l’impegno per «un futuro di pace fondato su valori comuni» – quelli definiti «indivisibili e universali» di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà– e doveri e responsabilità «di fronte alla comunità umana e alle generazioni future» perché dovunque e a tutti sia garantito il godimento dei diritti e delle libertà fondamentali della persona.
Oggi siamo testimoni e protagonisti di un tradimento di queste promesse, che si consuma con l’indifferenza dell’Europa rispetto al destino di morte e di sofferenze che attende in mare o nei centri di detenzione libici i popoli migranti: oggi è questa la comunità umana che ci richiama all’impegno solenne assunto nella Carta.
Ereditiamo un’Europa indebolita dagli effetti della crisi economica e sociale, dall’esplosione delle diseguaglianze, dalla disaffezione dei cittadini dalle sue istituzioni che non hanno saputo rispondere alle istanze di maggiore equità sociale e di solidarietà di interi Paesi provati duramente dalla crisi economica.
Un’Europa vittima della sua incompiutezza politica, che ha significato un deficit di legittimazione delle sue istituzioni, un’incapacità di compiere scelte all’altezza del ruolo che la storia le assegna e che oggi la rende vulnerabile di fronte all’avanzata di progetti eversivi di disgregazione e di attacco alla democrazia.
Ma l’Europa dei diritti deve restare la nostra aspirazione. E l’Europa dei diritti avrà un futuro se, guidata dai valori indivisibili e universali che fanno parte del suo patrimonio spirituale e morale, saprà ritrovare quella via obbligata che ci indica la Carta dei diritti fondamentali per una rifondazione in senso democratico dell’Unione.
[*] Intervento al seminario L'Europa dei diritti e delle migrazioni (Roma, Fondazione Basso - 15 maggio 2019)
[1] Vds. M. Cappelletti, Le Dimensioni della giustizia nelle società contemporanee, Il Mulino, Bologna, 1994.