Una serie di polemiche molto accese è stata innescata dalla pubblicazione del comunicato stampa riguardante la sentenza della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’incostituzionalità del regime attuale di concessione dei benefici penitenziari nei confronti di alcune categorie di detenuti, condannati per reati gravi commessi quali esponenti di associazioni di stampo mafioso o per favorire l’attività di tali associazioni.
Una parte dei commentatori ha salutato con estremo favore la decisione della Corte, enfatizzando la corrispondenza della pronuncia con il principio rieducativo della pena, accolto nell’articolo 27 della Costituzione. Ma molti altri, tra opinionisti, magistrati ed esponenti politici, hanno criticato severamente la sentenza, alcuni addirittura hanno sottoscritto un appello per richiedere al legislatore un intervento normativo, volto a mitigare gli effetti della decisione, in relazione al “pericolo” che il sistema del controllo antimafia risulti troppo indebolito dall’abrogazione degli ostacoli alla concessione dei benefici premiali ai “mafiosi”.
Siamo evidentemente in attesa della motivazione della Consulta ed è quindi prematuro azzardare giudizi sulle ragioni profonde della decisione sull'ergastolo ostativo, ma credo che la vera matrice culturale della pronuncia debba essere individuata nella necessità di un superamento di rigide preclusioni ed automatismi nella gradazione della risposta penale, che – restituendo al giudice il potere di libero apprezzamento – gli consenta di adeguare la reazione giuridica, innanzitutto alla reale dimensione offensiva del fatto e, in secondo luogo, all’attuale pericolosità del reo, valutata “in divenire”.
Un percorso argomentativo che, in verità, non dovrebbe sorprendere i lettori abituali delle sentenze della Corte e che sembra ricalcare le analoghe cadenze argomentative della giurisprudenza, prima di legittimità e poi costituzionale, che hanno, ad esempio, lentamente condotto al superamento di quasi tutte le presunzioni originariamente previste nell’art. 275, comma terzo, cpp.
Si tratta di un percorso, oramai portato a compimento, che – nel caso di specie – richiederà una forte assunzione di responsabilità da parte del giudice di sorveglianza nella valutazione dei presupposti per la concessione dei permessi ai soggetti detenuti per reati di stampo mafioso e che, dunque, parallelamente, investirà il pubblico ministero del delicato compito di “guida” autorevole dei provvedimenti del giudice.
Tuttavia si tratta di un percorso che deve confortare, soprattutto in una stagione difficile per l’autorevolezza delle decisioni giudiziarie, perché – in sostanziale controtendenza rispetto al cliché invalso nel dibattito politico (il giudice presunto "bouche de la loi", nel significato meno autentico dell'espressione) – investe decisamente nella capacità dei giudici di interpretare e di adeguare il comando legislativo alla realtà concreta. Ossia investe nella "funzione giudiziaria".
Ma se così fosse, se davvero fosse possibile leggere in controluce – nel filo rosso che congiunge tra loro le sentenze della Corte Costituzionale che hanno demolito gli automatismi presuntivi – una consapevole restituzione della “plena iuris dictio” al giudice, bisognerebbe allora prestare molta attenzione a rivendicare, al contrario, meccanismi "auto-produttivi" di soluzioni certe a condizioni date. Bisognerebbe, cioè, stare attenti a richiedere “scudi interpretativi” per i giudici che devono applicare il diritto, presunzioni assolute o applicazioni vincolate.
Perché, concettualmente, la partita è più ampia e più insidiosa.
Non ho mai avuto simpatia per le presunzioni assolute e, men che meno, per chi intende ridurre gli spazi di interpretazione dei giudici.
Innanzitutto perché, con un po' di esperienza, quella di ridurre gli spazi interpretativi nelle decisioni giudiziarie mi sembra una pretesa campata in aria, che può essere avanzata solo da chi non ha mai provato a scrivere una motivazione o da chi non ha indossato una toga: è ridicolo per ogni magistrato pensare che esistano meccanismi capaci di azzerare l'inevitabile discrezionalità (starei per dire “politicità”, ma dovrei essere certo che s’intenda il termine nel suo significato reale) nelle decisione giudiziarie.
L’irriducibilità degli spazi d’interpretazione nel giudizio è un tema fin troppo trattato perché possa essere qui ripreso. Nessuno più ritiene che sia filosoficamente fondata, oltre che materialmente possibile, un’attività di giudizio senza interpretazione. Giudizio indipendente e interpretazione sono consustanziali e, soprattutto, rappresentano l’unico vero strumento di tutela dei diritti dei singoli.
D’altra parte, se si conviene che la supremazia dei diritti fondamentali del singolo rappresenta la “dimensione sostanziale della democrazia”, la necessaria “giustiziabilità” di quei diritti, ossia la loro attuazione in modo indipendente, determina di per sé la legittimazione autonoma della giurisdizione. Insomma, è la stessa preesistenza costituzionale di taluni diritti individuali inalienabili a legittimare l’esistenza di una magistratura indipendente che sia in grado di tutelarli “ad ogni costo”, ed anche contro le scelte politiche del momento. In quest’ottica, l’interpretazione del diritto, soprattutto quando si muove nell’accertamento della dinamica tra fonti di rango diverso, rappresenta il primo strumento per l’attuazione dei principi fondamentali.
In realtà, dietro l’angolo c’è quello che è stato brillantemente definito il “sogno della pre-costituzione dell’esito del processo”. Sappiamo che, per taluni, ai giudici non è vietato interpretare. È vietato, invece, raggiungere conclusioni non gradite, non orientabili, imprevedibili, disomogenee dalle scelte politiche od economiche. Una magistratura che, pur nell’ambito meramente applicativo ed interpretativo della legge, agisca in maniera indipendente, come strumento di attuazione dei diritti soggettivi dei singoli e di tutela delle regole, anche e soprattutto nei confronti del Parlamento e del Governo o dei poteri economici, costituisce un turbamento per le classi politiche o economiche dirigenti.
La tendenza, dunque – assai più scoperta quando si affronta il tema della separazione delle carriere, ma non per questo abbandonata in altri momenti del dibattito – è esattamente quella di “sistematizzare” la giurisdizione, rendendola funzionale all’amministrazione del potere ed inducendo decisioni omogenee rispetto alle scelte politiche fondamentali. O, almeno, si prova a rendere le decisioni controllabili, prevedibili, neutralizzabili e – se si può – ad evitare quelle inopportune. Ed il “legislatore del momento” reagisce sempre con una restrizione della facoltà di interpretazione agli orientamenti non graditi, perfino quando si tratta della tutela dei diritti umani. La presunzione assoluta, il meccanismo applicativo asettico, rappresentano sempre uno strumento di compressione dell’indipendenza nelle decisioni giudiziarie.
Ma attenzione, perché per controllare l’interpretazione le strade sono note.
La creazione nella giurisdizione di una struttura verticistica, che vede al culmine la Corte di Cassazione ed il Ministro della Giustizia, la sottrazione al pubblico ministero del potere di direzione della polizia giudiziaria nel corso delle indagini, la riproposizione di meccanismi concorsuali di carriera controllati dal Ministro e dalla Corte di Cassazione, lo svuotamento dell’autogoverno, rappresentano le soluzioni da sempre immaginate – ed oggi concretamente riproposte – per disarmare la giurisdizione, sottraendole il chiavistello che ha condotto al riconoscimento di diritti rimasti a lungo inattuati, eppure riconosciuti dalla Costituzione, ed a svelare fenomeni criminosi evidenti, ma mai accertati in precedenza.
Perché l’indipendenza interna ed esterna liberano l’interpretazione, e – per converso – il controllo delle carriere addormenta il dibattito giurisprudenziale, sterilizza il dissenso, isola la decisione sgradita. Ma si tratta di un tentativo non nuovo e da sempre accompagnato da una riduzione cospicua dei diritti individuali, il vero prezzo da pagare alla riduzione dell’autonomina interpretativa dei giudici.
Ovviamente tutto questo è distante anni luce dalla sentenza della Corte.
Ma non è distante dal tono del dibattito successivo alla sentenza, dal significato recondito della polemica sulla (presunta) incapacità dei giudici di regolare i fenomeni criminali, sulla necessità di barriere protettive, sulla sfiducia per l'analisi del caso concreto. E però ognuno vede che sarebbe difficile difendere l’autonomia della giurisdizione se, i magistrati per primi, declinano la libertà di valutazione o si presentano timorosi nello svolgimento del compito che è stato loro assegnato dalla Costituzione.
Tuttavia, proprio in quest’ottica, in alcuni commenti, certamente resi in perfetta buona fede, si offre un argomento a chi diffida nella capacità della Giustizia di affrontare i fenomeni criminali.
Non è possibile, ad esempio, giustificare il rifiuto della collaborazione con la giustizia da parte del detenuto per i pericoli che deriverebbero al dichiarante a o alla sua famiglia (Cfr. per esempio V. Onida, L’ergastolo ai mafiosi: dietro quella scelta, Corriere della Sera, 7.11.2019; “ … è una scelta ‘libera’ che si può esigere dal condannato quella di collaborare, quando ciò comporti… esporre i propri cari a vendette o ritorsioni da parte delle organizzazioni criminali (e non bastano certo i programmi di protezione eventualmente previsti)?”). Non è possibile perché è storicamente falso. Né si può paventare il timore che la necessità della collaborazione potrebbe “indurre qualcuno a collaborare anche costruendo accuse false”.
In oltre trent'anni di funzionamento il sistema ha dato risposte positive, ha protetto centinaia di collaboratori di giustizia e migliaia di congiunti, ha consentito di acquisire volumi di dichiarazioni e di condannare definitivamente centinaia di affiliati in ogni distretto.
Ed anche quando qualcuno si è “bevuto” le dichiarazioni di presunti collaboratori, il sistema prima o poi ha quasi sempre svelato l’inganno. Centinaia di magistrati del pubblico ministero, e poi di giudici, hanno sezionato le dichiarazioni dei collaboratori, in fase di indagini ed al dibattimento, ed impegnato le migliori forze della polizia giudiziaria italiana nei riscontri.
La rinuncia all’automatismo vuol dire fiducia nella giurisdizione e difesa della sua autonomia.
La libertà di interpretazione è un fardello pesante, ma i giudici sono pronti ad assumersene il carico. Come sempre.