Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Le tappe della cd. saga Taricco e alcune riflessioni in ordine sparso

di Andrea Natale
giudice, Tribunale di Torino
Nel presente contributo si ripercorrono sinteticamente i passaggi della cd. saga Taricco (§§ 1-2), procedendo poi (§ 3) a sintetizzare i contenuti dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 24 del 2017 (che ha ipotizzato l’opponibilità di controlimiti alla penetrazione nel nostro ordinamento della cd. regola Taricco) e della decisione della Corte di giustizia del 5 dicembre 2017 (§ 4). In conclusione (§ 5), si riflette su alcuni temi implicati dalla saga Taricco e si propongono alcune indicazioni metodologiche per affrontare i temi di interferenza tra diritto UE e diritto interno.

1. Le tappe della vicenda Taricco…

Si aggiunge un altro capitolo, interessantissimo, alla saga Taricco, inaugurata dal Tribunale di Cuneo. Prima di arrivare a dare sinteticamente conto dei contenuti più rilevanti della decisione della Corte di giustizia (Grande sezione), sentenza 5 dicembre 2017, nella causa C-42/17, è utile tratteggiare brevemente gli antefatti della vicenda (a beneficio dei pochi che avessero perso qualche capitolo della saga).

Il gup presso il Tribunale di Cuneo si trova a giudicare alcuni imputati, accusati di vari reati fiscali e di associazione per delinquere. Rendendosi conto che – con ogni verosimiglianza – il processo è destinato a non concludersi prima del decorso dei termini di prescrizione, il gup sospende il giudizio e promuove un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia perché questa accerti se la disciplina della prescrizione del reato propria del sistema penale italiano sia – o meno – conforme ad alcune norme dei trattati istitutivi dell’UE (e, segnatamente, gli articoli 101, 107 e 119 TFUE) (GUP Tribunale di Cuneo, ordinanza 17.1.2014).

La causa giunge in Lussemburgo e, nel corso del procedimento davanti alla Corte di giustizia, l’Avvocato generale propone alla Corte di giustizia un diverso inquadramento della questione promossa dal gup di Cuneo, suggerendo di valutare la questione alla luce di altri – e più pertinenti – parametri del diritto UE (vds. conclusioni dell’Avvocato generale Kokott).

La Corte di giustizia (grande sezione), con sentenza resa in data 8 settembre 2015 (in causa C-105/14), segue l’impostazione proposta dall’Avvocato generale Kokott e, al fine di un articolato ragionamento, assume come parametro di riferimento l’art. 325 TFUE e dichiara:

«1) Una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella stabilita dal combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, del codice penale, come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, e dell’articolo 161 di tale codice – normativa che prevedeva, all’epoca dei fatti di cui al procedimento principale, che l’atto interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di imposta sul valore aggiunto comportasse il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale – è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, circostanze che spetta al giudice nazionale verificare. Il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE.

2) Un regime della prescrizione applicabile a reati commessi in materia di imposta sul valore aggiunto, come quello previsto dal combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, del codice penale, come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, e dell’articolo 161 di tale codice, non può essere valutato alla luce degli articoli 101 TFUE, 107 TFUE e 119 TFUE».

(Corte di giustizia, Grande sezione, sentenza 8 settembre 2015 in causa C-105/14 ).

2. … e le sue problematiche ricadute

Comprensibile lo sconquasso che ha attraversato la giurisdizione (e l’Accademia) nel leggere le pagine scritte in Lussemburgo.

Il dichiarato contrasto tra la normativa italiana in materia di prescrizione dei reati e le norme dei trattati dotate di effetto diretto e poste a tutela degli interessi finanziari dell’Unione poneva gli operatori di fronte a drammatiche questioni.

Si doveva accordare primazia al diritto dell’UE e, conseguentemente, disapplicare le norme in materia di prescrizione, così giungendo a condannare imputati che, diversamente, avrebbero visto dichiarare l’estinzione del reato (è la soluzione adottata da Cass. Sez. 3, n. 2210 del 17/09/2015 - dep. 20/01/2016, Pennacchini, Rv. 266121)?

E in quali casi ciò si sarebbe potuto fare?

La Corte di giustizia accerta il contrasto tra normativa interna e diritto dell’UE allorché la disciplina della prescrizione «impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea».

Ma quand’è che una frode può dirsi grave? E con quali strumenti processuali accertare l’esistenza di un numero considerevole di casi in cui l’interesse finanziario dell’UE è messo in discussione? (per alcune indicazioni, si vedano, in sede di legittimità, Cass. Sez. 3, n. 31265 del 21/04/2017 - dep. 22/06/2017, P.G. in proc. Schiavolin, Rv. 270193, Cass. Sez. 3, n. 12160 del 15/12/2016 - dep. 14/03/2017, Scanu, Rv. 269323, Cass. Sez. 3, n. 44584 del 07/06/2016 - dep. 24/10/2016, Puteo e altro, Rv. 269281).

E, ancora, la disapplicazione della normativa sulla prescrizione deve avvenire anche nei casi di reati commessi in un momento precedente al deposito della Sentenza Taricco della Corte di giustizia (8 settembre 2015)? E che ne è del divieto di applicazione retroattiva delle norme penali di sfavore? (per esempio, in una decisione la Corte di cassazione ha escluso che si potesse disapplicare la normativa sulla prescrizione per contrasto con l’art. 325 TFUE in un caso in cui la prescrizione era già maturata prima del deposito della cd. sentenza Taricco, così accordando ad essa un effetto costitutivo e non dichiarativo; v. Cass. Sez. 4, n. 7914 del 25/01/2016 - dep. 26/02/2016, Tormenti, Rv. 266078).

Ma le questioni implicate dalla sentenza della Corte di giustizia nel caso Taricco non si fermano qui.

È ammissibile che una norma di diritto UE abbia effetto diretto in senso sfavorevole ai consociati? È possibile che ciò avvenga in materia penale?

È ammissibile che – a concorrere alla determinazione della fattispecie di diritto UE che ha conseguenze penali sfavorevoli per l’accusato – sia una sentenza della Corte di giustizia?

Si tratta, all’evidenza, di temi colossali che mettono al centro della scena il problema della legalità penale (la determinatezza delle norme penali, la prevedibilità delle conseguenze penali, la retroattività delle norme penali, la qualità della fonte penale e l’identità del suo artefice), ma anche gli stessi rapporti tra diritto interno e diritto UE.

E che fare nel caso si ritenga che la decisione della Corte di giustizia nel caso Taricco si ponga in frizione con i «principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale»?

Chi può opporre i cd. controlimiti? Solo la Corte costituzionale (come ha reiteratamente affermato la Consulta)? O anche i giudici di merito (come talora si è verificato in modo esplicito – e più spesso implicito – nella giurisprudenza dei giudici di merito)?

La Corte di cassazione e la Corte di appello di Milano hanno ritenuto che la vicenda scaturita nella cd. vicenda Taricco ponesse in questione i «principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale».

Conseguentemente, quei giudici hanno sospeso i giudizi promuovendo un incidente di legittimità costituzionale teso alla declaratoria di illegittimità costituzionale «dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), nella parte in cui autorizza alla ratifica e rende esecutivo l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), sottoscritto a Roma il 25 marzo 1957 (Testo consolidato con le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona 13 dicembre 2007), come interpretato dalla sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco» (Cass. Sez. 3, n. 28346 del 30/03/2016 - dep. 08/07/2016, Cestari e altri, Rv. 267259; C. App. Milano, sez. 2, ord. 18.09.2015).

3. L’ordinanza della Corte costituzionale n. 24 del 2017

Investita del caso Taricco, la Corte costituzionale sospende il giudizio e promuove a sua volta un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.

La Consulta non mette in discussione la decisione della Corte di giustizia nella parte in cui dichiara che l’art. 325 TFUE ha effetto diretto. Né pone in discussione il giudizio di possibile ineffettività dell’apparato sanzionatorio predisposto nel nostro Paese.

Tuttavia, la Consulta manifesta in modo esplicito serie perplessità sulla compatibilità delle ricadute della sentenza Taricco nel nostro ordinamento. La Corte di giustizia, nella sentenza Taricco, sembrava escludere che la disapplicazione della disciplina della prescrizione potesse comportare problemi di frizione con il principio di legalità in materia penale (ivi compresa la retroattività) e con quello di prevedibilità delle decisioni dei giudici penali (si vedano in particolare  i punti 52-57 della sentenza resa dalla Corte di giustizia nel caso Taricco).

Tuttavia, in alcuni passaggi della motivazione, i giudici del Lussemburgo demandavano comunque al giudice nazionale il compito di «assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati» (punto 53; si veda anche il punto 55, ove si allude ad una «riserva di verifica da parte del giudice nazionale»).

Ed è traendo spunto da tali incisi che la Corte costituzionale prospetta alla Corte di giustizia l’eventualità di potere azionare i controlimiti («Se l’applicazione dell’art. 325 del TFUE comportasse l’ingresso nell’ordinamento giuridico di una regola contraria al principio di legalità in materia penale, come ipotizzano i rimettenti, questa Corte avrebbe il dovere di impedirlo»; Corte cost. ord. n. 24 del 2017, punto 2).

La Corte costituzionale procede poi a delineare il cuore delle questioni in relazione alle quali ipotizza la possibilità di azionare il contro-limite, tratteggiando le forme ed i contenuti del principio di legalità in materia penale («principio supremo dell’ordinamento, posto a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo»; Corte cost. ord. n. 24 del 2017, punto 2), cui è soggetto anche il regime della prescrizione, in quanto istituto di diritto penale sostanziale (ivi, punto 4). La Consulta precisa che «la Costituzione italiana conferisce al principio di legalità penale un oggetto più ampio di quello riconosciuto dalle fonti europee, perché non è limitato alla descrizione del fatto di reato e alla pena, ma include ogni profilo sostanziale concernente la punibilità» (Corte cost. ord. n. 24 del 2017, punto 8) e aggiunge che «in questo principio si coglie un tratto costitutivo degli ordinamenti costituzionali degli Stati membri di civil law. Essi non affidano al giudice il potere di creare un regime legale penale, in luogo di quello realizzato dalla legge approvata dal Parlamento» (Corte cost. ord. n. 24 del 2017, punto 9).

Si badi: la Consulta non afferma esplicitamente che vi è un problema di qualità della fonte penale e di identità del suo fautore, limitandosi a trasmettere – per implicito – il messaggio.

Tuttavia, il cuore dei problemi sollevati dalla Consulta – e sui quali chiede un “confronto” alla Corte di giustizia – si incentra su due questioni in particolare.

In primo luogo, si pone un problema di prevedibilità delle conseguenze penali legate ai comportamenti:

«anzitutto, si tratta di stabilire se la persona potesse ragionevolmente prevedere, in base al quadro normativo vigente al tempo del fatto, che il diritto dell’Unione, e in particolare l’art. 325 del TFUE, avrebbe imposto al giudice di non applicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. in presenza delle condizioni enunciate dalla Corte di giustizia in causa Taricco.

È questo un principio irrinunciabile del diritto penale costituzionale. Occorre infatti che la disposizione scritta con cui si decide quali fatti punire, con quale pena, e, nel caso qui a giudizio, entro quale limite temporale, permetta «una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (sentenza n. 5 del 2004)»

(Corte cost. ord. 24 del 2017, punto 5).

È degno di un qualche rilievo il fatto che la Consulta sollevi il tema usando un linguaggio che è culturalmente “più vicino” alla Corte di giustizia (il tema della prevedibilità, in luogo di un mero riferimento al divieto di retroattività) e che – per rafforzare il proprio argomentare – faccia riferimento anche alla Convenzione Edu e alla giurisprudenza della Corte Edu).

In secondo luogo, si pone – e in modo netto – un problema di determinatezza della fattispecie penale:

«In secondo luogo, è necessario interrogarsi, sia sul rispetto della riserva di legge, sia sul grado di determinatezza assunto dall’ordinamento penale in base all’art. 325 del TFUE, con riguardo al potere del giudice, al quale non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale. In particolare il tempo necessario per la prescrizione di un reato e le operazioni giuridiche da compiersi per calcolarlo devono essere il frutto dell’applicazione, da parte del giudice penale, di regole legali sufficientemente determinate. In caso contrario, il contenuto di queste regole sarebbe deciso da un tribunale caso per caso, cosa che è senza dubbio vietata dal principio di separazione dei poteri di cui l’art. 25, secondo comma, Cost. declina una versione particolarmente rigida nella materia penale.

In tale prospettiva si tratta di verificare se la regola enunciata dalla sentenza resa in causa Taricco sia idonea a delimitare la discrezionalità giudiziaria e anche su questo terreno occorre osservare che non vi è modo di definire in via interpretativa con la necessaria determinatezza il requisito del numero considerevole dei casi, cui è subordinato l’effetto indicato dalla Corte di giustizia»

(Corte cost. 24 del 2017, punto 5).

Una volta affermato il contenuto irrinunciabile della legalità penale, la Corte costituzionale chiede ai giudici del Lussemburgo se i riferimenti operati nella sentenza Taricco (punti 53 e 55) alla «riserva di verifica» da parte del giudice nazionale sul rispetto dei diritti fondamentali alludessero alla possibilità – da parte dei giudici dell’ordinamento interno – di azionare i contro-limiti; in caso contrario – si precisa con franchezza nell’ordinanza – la Corte avrebbe il «dovere» di impedire la penetrazione del diritto UE che si trovasse in contrasto con un principio fondamentale dell’ordinamento che caratterizza la sua identità costituzionale.

4. La Corte di giustizia e la cd. Taricco 2

La questione sollevata dalla Consulta giunge in Lussemburgo e viene trattata con procedura d’urgenza. Nelle sue conclusioni, l’Avvocato generale Yves Bot si mostra scarsamente impressionato dalla richiesta di dialogo promossa dalla Consulta e propone alla Corte di giustizia di dare incondizionata applicazione alla decisione Taricco. In particolare, l’Avvocato generale esclude che si ponga una questione di indeterminatezza della fattispecie o di imprevedibilità delle conseguenze penali dei propri comportamenti. Ma, soprattutto, l’Avvocato generale – muovendo dal presupposto che l’istituto della prescrizione dei reati è una «nozione autonoma del diritto dell’UE» – esclude che un Paese membro possa paralizzare la primazia del diritto dell’UE rivendicando una propria (soccombente) identità costituzionale. Tantomeno – in un simile contesto – potrebbe essere consentito all’autorità giudiziaria di un Paese membro di paralizzare l’efficacia del diritto UE, invocando un più elevato livello di protezione dei diritti fondamentali sulla scorta dell’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

Sembrava preannunciarsi, dunque, una netta chiusura alla richiesta di dialogo promossa dalla Consulta, con una altrettanto netta affermazione della necessità di “comunitarizzare i contro-limiti” (ossia di rendere la stessa Corte di giustizia l’istituzione deputata a verificare se vi fosse un problema di lesione dei principi fondamentali dell’ordinamento interno di un Paese membro). Un po’ come avvenne nel noto caso Melloni (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni; in quel procedimento l’Avvocato generale era sempre Yves Bot).

Sennonché la Corte di giustizia (Grande sezione), sentenza 5 dicembre 2017, nella causa C-42/17, giunge a conclusioni ben diverse. Rimandando per il resto alla diretta lettura della decisione qui ci si limita ad osservare che la Corte anzitutto ribadisce il contenuto della sentenza Taricco (v. punti 29-39).

In secondo luogo, osserva che – sino all’adozione della direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio – il regime della prescrizione applicabile ai reati in materia di IVA non era oggetto di armonizzazione da parte del legislatore UE (punto 44), con la conseguenza che la Repubblica italiana era libera, «a tale data», di assoggettare il regime della prescrizione «al principio di legalità dei reati e delle pene» (punto 45).

Poste queste premesse, la Corte di giustizia passa all’esame dei temi posti dall’ordinanza 24 del 2017 della Corte costituzionale.

Al riguardo, la Corte di giustizia evidenzia anzitutto che «il principio di legalità dei reati e delle pene, nei suoi requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale applicabile» trova base legale nell’art. 49 della CDFUE e si impone agli stati membri quando attuano il diritto dell’UE (ex art. 51 §1 CDFUE), riflette le «tradizioni comuni agli Stati membri» ed ha identica portata rispetto al corrispondente diritto garantito dalla Conv. Edu (ex art. 52, § 3, CDFUE) (vds. punti 51-55).

Il contenuto del principio di legalità è articolato dalla Corte di giustizia nei termini che seguono (con abbondanti riferimenti alla giurisprudenza della Corte Edu):

a) le disposizioni penali devono rispettare requisiti di accessibilità e di prevedibilità per quanto riguarda tanto la definizione del reato, quanto la determinazione della pena (punto 55); b) la determinatezza della pena implica una definizione chiara dei reati e delle pene che li reprimono, sì che «il singolo [possa] conoscere, in base al testo della disposizione rilevante e, se del caso, con l’aiuto dell’interpretazione che ne sia stata fatta dai giudici, gli atti e le omissioni che chiamano in causa la sua responsabilità penale» (punto 56); c) il principio di irretroattività comporta che il giudice non possa sanzionare penalmente condotte non vietate da una norma penale al momento del fatto, né aggravare il regime di responsabilità (punto 57).

Poste tali premesse, la Corte di giustizia passa all’esame delle conseguenze da trarre nel caso concretamente proposto dalla Corte costituzionale; esse vengono esposte in modo estremamente lineare:

a) spetta al giudice nazionale il compito di verificare se il riferimento operato nella sentenza Taricco (al punto 58) ad «un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, conduca a una situazione di incertezza nell’ordinamento giuridico italiano quanto alla determinazione del regime di prescrizione applicabile». Ove incertezza fosse rilevata dal giudice nazionale, essa «contrasterebbe con il principio della determinatezza della legge applicabile», con la conseguenza che «il giudice nazionale non sarebbe tenuto a disapplicare le disposizioni del codice penale in questione» (punto 59);

b) in ogni caso, precisa la Corte di giustizia, il divieto di retroattività vigente in materia penale impone di escludere che possano essere disapplicate le norme sul regime di prescrizione “interno” per i fatti commessi prima della pronuncia Taricco; altrimenti, gli accusati potrebbero essere «retroattivamente assoggettate ad un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato» (punto 60).

In definitiva: sconfessando i timori di chi paventava che il “parlar franco” della Consulta potesse ingenerare reazioni di irrigidimento da parte dei giudici del Lussemburgo, la Corte di giustizia mostra di aver ben compreso il rilievo costituzionale dei temi sollevati con l’ordinanza n. 24 del 2017

5. Taricco torna “a casa”: alcune riflessioni

Tralascio volutamente ogni riflessione su temi – come il dialogo tra Corti, il rilievo della Carta, l’europeizzazione o meno dei controlimiti, la tutela multilivello dei diritti fondamentali, l’armonizzazione tra ordinamenti nazionali, ordinamento UE, Conv. Edu – che pure rivestono profili di indubbio fascino sul piano teorico. È piuttosto il caso di sviluppare alcune riflessioni di minor impegno, che prendono le mosse dalla saga Taricco.

1. In primo luogo, occorre immaginare le conseguenze che la decisione della Corte di giustizia avrà sul giudizio costituzionale in atto (e sui giudizi penali pendenti).

1.1. Con ogni probabilità, il tema della prevedibilità delle conseguenze penali (e, dunque, il tema della ipotizzata violazione del principio di irretroattività in materia penale) può dirsi risolto; la Corte di giustizia ha già chiarito che il principio di irretroattività è “parte” del diritto UE ed osta ad una disapplicazione – per contrasto con l’art. 325 TFUE – delle norme interne in materia di prescrizione, escludendo l’immediata applicazione della cd. regola Taricco.

Con tale precisazione, è da escludere che il diritto UE si ponga in frizione con un principio fondamentale del nostro ordinamento penale (l’irretroattività in materia penale), con la conseguenza che la Corte costituzionale non avrà necessità di opporre il relativo controlimite.

L’ulteriore conseguenza è quella che autorizza i giudici comuni a non dare applicazione alla cd. regola Taricco nei procedimenti relativi a reati commessi prima del deposito della sentenza Taricco (8 settembre 2015), perché ciò sarebbe in contrasto con lo stesso diritto UE; in tali casi, i giudici comuni potranno pertanto continuare ad applicare le norme sulla prescrizione dei reati (anche in materia di reati che ledono gli interessi finanziari dell’UE), senza porsi con ciò in contrasto con norme UE dotate di effetto diretto.

1.2. Resta la questione della determinatezza della fattispecie penale (“fattispecie” qui intesa in senso lato, ossia come comprensiva del regime prescrizionale). Sul punto, la Corte di giustizia ha demandato al giudice nazionale la verifica relativa ad eventuali «situazioni di incertezza nell’ordinamento giuridico italiano quanto alla determinazione del regime di prescrizione applicabile», incompatibili con il principio di determinatezza.

La questione conserva una sua autonoma rilevanza (sebbene non necessariamente nel giudizio devoluto alla Corte costituzionale); infatti, se è pur vero che gli effetti della sentenza Taricco non possono essere retroattivi, è altrettanto vero che potranno riproporsi in futuro casi analoghi, in relazione a reati consumati dopo il deposito della sentenza Taricco. E in quei casi sarà inevitabilmente necessario confrontarsi con la determinatezza della “regola” elaborata dalla sentenza Taricco.

Come già osservato, il caso devoluto alla Corte è relativo a fatti antecedenti al deposito della sentenza Taricco (e, dunque, la Consulta potrebbe ritenere assorbente il profilo dell’irretroattività della cd. regola Taricco e non pronunziarsi sul principio di determinatezza); qui ci si limita ad osservare che la Consulta, in realtà, si è già espressa con chiarezza sul punto, avendo rilevato – tra l’altro – che «non vi è modo di definire in via interpretativa con la necessaria determinatezza il requisito del numero considerevole dei casi, cui è subordinato l’effetto indicato dalla Corte di giustizia» (Corte cost. 24/2017, punto 5).

2. La sentenza in commento è l’occasione per svolgere un’ulteriore breve riflessione sull’autorità che – quantomeno nell’ordinamento interno – deve gestire i controlimiti, tema che non sempre incontra grande chiarezza tra i giudici comuni.

Occorre infatti stabilire se la verifica della eventuale violazione del principio di determinatezza rientri tra i compiti del giudice comune o se, viceversa, essa non debba essere riservata alla Corte costituzionale. La Corte di giustizia fa generico riferimento al «giudice nazionale», con ciò non escludendo che tale verifica possa essere espletata anche dal giudice comune. Ma un simile riferimento trova ragionevolmente spiegazione nel fatto che la Corte di giustizia non è tenuta ad occuparsi oltremodo delle ricadute che le sue decisioni hanno negli ordinamenti interni (essendo tenuta piuttosto ad affermare il contenuto del diritto dell’UE).

Sul punto è allora (forse) utile rimarcare che la Corte costituzionale rivendica a sé – e in via esclusiva – la gestione dei cd. controlimiti; la giurisprudenza costituzionale sul punto è consolidata. È dunque sufficiente un fugace richiamo all’ordinanza n. 24 del 2017, in cui la Consulta – ragionando sulla «verifica ultima circa l’osservanza dei principi supremi dell’ordinamento nazionale» – ha evidenziato che «la Costituzione della Repubblica italiana, a tale proposito, la rimette in via esclusiva a questa Corte, e bene hanno perciò fatto i rimettenti a investirla del problema, sollevando una questione di legittimità costituzionale» (Corte cost. ord. n. 24 del 2017, punto 6).

Dunque, l’opposizione di un controlimite alla penetrazione del diritto UE nell’ordinamento nazionale – per paventate lesioni di principi supremi dell’ordinamento – non può essere prerogativa del giudice comune, ma solo della Consulta. La ragione è logica ed evidente: in tali casi, infatti, è necessario sterilizzare la portata precettiva della norma di legge che autorizza la penetrazione del diritto UE – e delle sue regole – all’interno dell’ordinamento nazionale. In altri termini, ove un giudice comune opponesse direttamente un contro-limite si avrebbe una duplice patologia:

i) il mancato adeguamento dell’ordinamento interno all’ordinamento UE (che ha “copertura” costituzionale: artt. 11 e 117 Cost.);

ii) la mancata applicazione di una disposizione di legge di diritto interno (la norma di legge che dà esecuzione al Trattato) per contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento, senza passare per un giudizio di illegittimità costituzionale della norma di legge in questione.

Il che – in un sistema di controllo di costituzionalità accentrato – non può essere.

3. La decisione della Corte di giustizia e l’ordinanza di rinvio della Corte costituzionale convergono – tra le altre cose – su un ulteriore tema: le responsabilità del legislatore. La Corte di giustizia – aderendo alle ragioni della Consulta – ha effettivamente riconosciuto che «spetta, in prima battuta, al legislatore nazionale stabilire norme sulla prescrizione che consentano di ottemperare agli obblighi derivanti dall’articolo 325 TFUE» (Corte di giustizia (Grande sezione), sentenza 5 dicembre 2017, nella causa C-42/17, punto 41; vds. anche punto 42 e 61). La Consulta aveva già espresso con chiarezza che l’ineffettività del sistema di repressione dei reati che ledono gli interessi finanziari dell’UE non è risolvibile con la cd. regola Taricco, ma solo con adeguati interventi normativi: «Resterebbe in ogni caso ferma la responsabilità della Repubblica italiana per avere omesso di approntare un efficace rimedio contro le gravi frodi fiscali in danno degli interessi finanziari dell’Unione o in violazione del principio di assimilazione, e in particolare per avere compresso temporalmente l’effetto degli atti interruttivi della prescrizione» (Corte costituzionale, ord. 24 del 2017, punto 7).

Il che – detto in altri termini – suggerisce l’eventualità che l’Italia possa essere assoggettata a procedura di infrazione. Anche se – precisa la Consulta – «occorrerebbe verificare nelle sedi competenti se il problema sia stato risolto dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera l), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (…), che ha aumentato di un terzo i termini di prescrizione dei reati puniti dagli articoli da 2 a 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, con una disposizione che però non è applicabile a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge. Se l’esito della verifica fosse negativo sarebbe urgente un intervento del legislatore per assicurare l’efficacia dei giudizi sulle frodi in questione, eventualmente anche evitando che l’esito sia compromesso da termini prescrizionali inadeguati» (Corte costituzionale, ord. 24 del 2017, punto 7).

4. Il riferimento alle responsabilità del legislatore è l’occasione per svolgere una brevissima riflessione su un passaggio di Corte di giustizia (Grande sezione), sentenza 5 dicembre 2017, nella causa C-42/17 in commento. La Corte di giustizia osserva che – in ordine alla disciplina del termine di prescrizione – la Repubblica Italiana godeva di un ampio margine di apprezzamento, posto che «nella fattispecie, alla data dei fatti di cui al procedimento principale, il regime della prescrizione applicabile ai reati in materia di IVA non era stato oggetto di armonizzazione da parte del legislatore dell’Unione, armonizzazione che è successivamente avvenuta, in modo parziale, solo con l’adozione della direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2017, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale (GU 2017, L 198, pag. 29)» (punto 41; vds. anche il successivo punto 42).

4.1. Non è questa la sede per illustrare nel dettaglio i contenuti della direttiva (UE) 2017/1371 (il cui termine di recepimento è fissato al 6 luglio 2019). Qui basti dire che la disciplina dei termini di prescrizione per i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione è dettata dall’art. 12. Quest’ultima disposizione impone agli Stati membri di adottare «le misure necessarie a prevedere un termine di prescrizione che consenta di condurre le indagini, esercitare l’azione penale, svolgere il processo e prendere la decisione giudiziaria in merito ai reati di cui agli articoli 3, 4 e 5 entro un congruo lasso di tempo successivamente alla commissione di tali reati, al fine di contrastare tali reati efficacemente» (art. 12 § 1); il paragrafo successivo impone agli Stati membri di adottare le «misure necessarie per permettere che le indagini, l’azione penale, il processo e la decisione giudiziaria per i reati di cui agli articoli 3, 4 e 5 punibili con una pena massima di almeno quattro anni di reclusione, possano intervenire per un periodo di almeno cinque anni dal momento in cui il reato è stato commesso».

Sotto il profilo della determinazione in via generale e astratta della durata del termine di prescrizione, il nostro ordinamento non pone particolari problemi (posto che esso prevede termini di gran lunga superiori a quelli propri di altri ordinamenti); ben maggiori problemi derivano con riferimento alla predisposizione di misure necessarie a concludere i processi entro lo spirare del termine. Il tema sarà molto probabilmente oggetto delle relazioni che l’art. 18 della direttiva demanda alla responsabilità della Commissione per consentire a Parlamento e Consiglio europei di valutare l’adeguatezza delle misure adottate dai Paesi membri.

4.2. È solo il caso di svolgere – a margine della decisione della Corte di giustizia e dell’evocazione della direttiva (UE) 2017/1371 – solo un’ulteriore breve riflessione. La Corte di giustizia nella motivazione della sentenza  afferma che «spetta, in prima battuta, al legislatore nazionale stabilire norme sulla prescrizione che consentano di ottemperare agli obblighi derivanti dall’articolo 325 TFUE, alla luce delle considerazioni esposte dalla Corte al punto 58 della sentenza Taricco» (punto 41); dopodiché aggiunge che «a tale riguardo, occorre ricordare che il fatto che un legislatore nazionale proroghi un termine di prescrizione con applicazione immediata, anche con riferimento a fatti addebitati che non sono ancora prescritti, non lede, in linea generale, il principio di legalità dei reati e delle pene (vds., in tal senso, sentenza Taricco, punto 57, e giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo citata a tale punto)» (punto 42).

Occorre allora chiedersi cosa potrebbe accadere nel caso in cui il legislatore intervenisse sul regime della prescrizione – sulla falsariga della cd. regola Taricco (tassativizzandone le ipotesi applicative) – prevedendo l’applicabilità ai processi in cui la prescrizione non sia ancora maturata.

In tal caso, potrebbe porsi un (serio) problema di compatibilità di una simile (ipotetica) previsione di tale novella rispetto alle garanzie che il nostro ordinamento assegna alle norme di diritto penale sostanziale, quale è – sino ad oggi – ritenuta la disciplina della prescrizione. Intendiamoci: non credo vi siano ostacoli di ordine costituzionale rispetto ad una scelta del legislatore di attribuire rilievo processuale alla prescrizione; tuttavia, con ogni verosimiglianza, un simile intervento legislativo non potrebbe avere portata retroattiva.

Per inciso: l’affermazione della Corte di giustizia poco sopra riportata sembra peraltro porsi in contrasto con le successive affermazioni della Corte di giustizia in ordine al principio di irretroattività. L’apparente contraddizione può allora spiegarsi in due modi:

a) da un lato, per il fatto che l’affermazione della Corte di giustizia si rivolge ad un contesto europeo in cui diversi Paesi membri attribuiscono rilievo solo processuale all’istituto della prescrizione (tant’è che al punto 58, la Corte di giustizia ritiene utile ribadire che, in Italia,  il regime della prescrizione ha natura sostanziale); b) dall’altro lato con il fatto che la disciplina della prescrizione non era (ancora) oggetto di armonizzazione, avutasi solo con la direttiva (UE) 2017/1371.

È comunque da evidenziare che l’art. 17 della predetta direttiva prevede che le disposizioni con cui gli Stati membri recepiranno la stessa abbiano applicazione solo «a decorrere dal 6 luglio 2019».

5. Altra riflessione: tanto l’ordinanza della Corte costituzionale, quanto la sentenza della Corte di giustizia sono intrise di riferimenti al valore della legalità penale e, in particolar modo, al necessario rilievo da attribuire – in chiave di garanzia dei diritti fondamentali dell’accusato – al principio di determinatezza delle norme penali.

La speranza è che la chiara affermazione di tale principio, il suo ancoraggio al novero dei principi supremi dell’ordinamento, il suo riconosciuto rilievo sovranazionale, costituiscano uno spunto che il legislatore e tutti gli operatori (avvocati, giudici penali, Corte costituzionale) sapranno e vorranno cogliere per il reale inveramento di tale principio.

6. Si impone un’ultima riflessione. A ben vedere, tutta la vicenda Taricco nasce – oltre che dalla situazione di intollerabile lentezza dei nostri processi – da alcuni difetti di “comunicazione giudiziaria”. La Corte di giustizia se ne lamenta esplicitamente nella sentenza in commento e – dopo avere dato atto del contenuto dell’ordinanza di rinvio della Consulta – osserva che spetta al giudice nazionale descrivere «il contesto materiale e normativo nel quale si inseriscono [le] questioni [sollevate], quale definito dalla decisione di rinvio»; ciò posto, la Corte – riferendosi all’ordinanza di rinvio del gup presso il Tribunale di Cuneo – lamenta che gli interrogativi proposti dalla Consulta (i profili di contrasto con il principio di legalità penale accolto nel nostro Paese) non erano stati «portati a conoscenza della Corte nella causa all’origine della sentenza Taricco» (punti 24-28). Come dire: se il gup di Cuneo ci avesse meglio illustrato il contesto in cui si sarebbe innestata la decisione, la sentenza Taricco avrebbe potuto essere, quantomeno in parte, diversa o meglio chiarita in alcuni suoi passaggi.

È allora utile – come mera notizia, per chi non ne fosse a conoscenza e a costo di risultare didascalici –  ricordare che, in un encomiabile sforzo di chiarezza, la Corte di giustizia ha approvato un vademecum, che, benché privo di valore vincolante, è tuttavia utile al giudice nazionale che intenda sollevare una questione pregiudiziale interpretativa alla Corte di Giustizia (l’ultima versione è del 25 novembre 2016, pubblicata in GU UE del 25 novembre 2016, agevolmente reperibile sul web al seguente link). Esso, peraltro, sintetizza e rispecchia in larga parte il contenuto di norme dei trattati o di importanti arresti della Corte stessa. In questa sede, ci si limita a focalizzare l’attenzione su pochi aspetti:

«8. La domanda di pronuncia pregiudiziale deve riguardare l’interpretazione o la validità del diritto dell’Unione, e non l’interpretazione delle norme del diritto nazionale o questioni di fatto sollevate nell’ambito del procedimento principale.

9. La Corte può statuire sulla domanda di pronuncia pregiudiziale soltanto se il diritto dell’Unione è applicabile nel procedimento principale. A tale riguardo è indispensabile che il giudice del rinvio esponga tutti gli elementi pertinenti, di fatto e di diritto, che lo inducono a ritenere che determinate disposizioni del diritto dell’Unione siano applicabili nel caso di specie.

10. Per quanto concerne i rinvii pregiudiziali vertenti sull’interpretazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, occorre ricordare che in forza dell’articolo 51, paragrafo 1, della stessa, le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Sebbene le ipotesi di una siffatta attuazione possano essere diverse, è tuttavia necessario che dalla domanda di pronuncia pregiudiziale risulti in maniera chiara e inequivoca che una norma di diritto dell’Unione diversa dalla Carta è applicabile nel procedimento principale. Posto che la Corte non è competente a statuire su una domanda di pronuncia pregiudiziale se una situazione giuridica non rientra nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, le disposizioni della Carta eventualmente richiamate dal giudice del rinvio non possono giustificare, di per sé, tale competenza.

11. Infine, se è vero che per rendere la propria decisione la Corte prende necessariamente in considerazione il contesto di diritto e di fatto della controversia principale, come definito dal giudice del rinvio nella sua domanda di pronuncia pregiudiziale, essa non applica direttamente il diritto dell’Unione a tale controversia. Quando si pronuncia sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, la Corte cerca di dare una risposta utile per la definizione della controversia principale, ma spetta al giudice del rinvio trarne le conseguenze concrete, disapplicando all’occorrenza la norma nazionale giudicata incompatibile con il diritto dell’Unione.

(…)

15. Il contenuto di qualsiasi domanda di pronuncia pregiudiziale è stabilito dall’articolo 94 del regolamento di procedura della Corte ed è riepilogato nell’allegato del presente documento. Oltre al testo stesso delle questioni sottoposte alla Corte in via pregiudiziale, la domanda di pronuncia pregiudiziale deve contenere:

- un’illustrazione sommaria dell’oggetto della controversia nonché dei fatti rilevanti, quali accertati dal giudice del rinvio o, quanto meno, un’illustrazione delle circostanze di fatto sulle quali si basano le questioni pregiudiziali;

- il contenuto delle norme nazionali applicabili alla fattispecie e, se del caso, la giurisprudenza nazionale in materia, nonché

- l’illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi sull’interpretazione o sulla validità di determinate disposizioni del diritto dell’Unione, nonché il collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla causa principale.

In assenza di uno o più degli elementi che precedono, la Corte può essere indotta a dichiararsi incompetente a statuire sulle questioni sollevate in via pregiudiziale o a respingere la domanda di pronuncia pregiudiziale in quanto irricevibile».

7. È forse utile, infine, provare a ricavare alcuni insegnamenti che la vicenda Taricco (e i suoi seguiti) ci consegnano in relazione all’approccio che il giudice comune dovrebbe avere nell’affrontare le interferenze tra normativa UE e diritto interno.

Ognuno dei punti che seguono meriterebbe mille approfondimenti e mille citazioni di dottrina e giurisprudenza. Ci si limita a schematizzare le operazioni logiche che – credo – dovrebbe compiere un giudice comune:

1. accertare l’ambito di applicazione della norma interna e della norma UE;

2. verificare se – qualora sovrapponibile l’ambito – vi sia coerenza o contrasto tra le due previsioni;

3. in caso di contrasto, esperire un tentativo di interpretazione conforme;

4. ove impossibile il tentativo di interpretazione conforme, accertare se la norma UE abbia – o meno – effetto diretto;

5. in caso di dubbio – che non sussiste se la questione è già stata affrontata e risolta dalla Corte di giustizia – vi è la facoltà (dovere, per il giudice di ultima istanza) di sospendere il procedimento e sollevare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per ottenere l’esatta interpretazione del diritto UE;

6. nel caso in cui la norma UE abbia effetto diretto, disapplicazione della norma di diritto nazionale;

7. nel caso in cui la norma UE non abbia effetto diretto, sospensione del procedimento e trasmissione degli atti alla Corte costituzionale facendo leva – come parametro di legittimità costituzionale – sul dettato degli artt. 11 e 117, comma 1, cost.;

8. nel caso in cui la norma UE abbia effetto diretto ma entri in frizione con «i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana» (cd. controlimiti), sospensione del procedimento e trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, ponendo questione di legittimità costituzionale della «legge nazionale che ha autorizzato la ratifica e resi esecutivi i Trattati, per la sola parte in cui essa consente che quell’ipotesi normativa si realizzi», per contrasto con i parametri costituzionali che vengono implicati dai cd. controlimiti.

07/12/2017
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