Orientarsi sul tema della criminalità – agita e percepita – in un periodo fluido e complesso come quello contemporaneo, può essere facilitato dall’analisi dei dati statistici, pur nella consapevolezza del numero oscuro dei reati non emersi.
Nella mappa appare necessario attingere ai dati Istat[1], secondo i quali nel 2021 gli omicidi risultano in lieve calo (303), in 184 casi le vittime sono uomini e in 119 sono donne. Nel medesimo anno si arresta il calo degli omicidi di donne e sono in lieve aumento quelli di uomini. È straniero il 19,1% delle vittime, dato stabile nel tempo, nella maggior parte dei casi (63,8%) uomini. Tra gli italiani i maschi sono il 60% del totale.
Sempre secondo il medesimo Istituto, le vittime uccise in una relazione di coppia o in famiglia sono 139 (45,9% del totale), 39 uomini e 100 donne. Il 58,8% delle donne è vittima di un partner o ex partner (57,8% nel 2020 e 61,3% nel 2019).
In merito alle condanne eseguite in carcere, riportando i dati dal DAP[2], evidenzia che i detenuti maschi che sono in carcere per avere commesso violenza sessuale sono 3.403, per avere commesso maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli sono 3.951, sono 1.586 per stalking, 235 per percosse e 190 per tratta e riduzione in schiavitù.
La sensazione, dati a parte, di un innalzamento dei reati contro le donne ha indotto, negli anni, risposte sanzionatorie sempre più severe: dall’adesione a convenzioni internazionali (es. la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e contro la violenza domestica, Istanbul, 2011) al cosiddetto Codice rosso (Legge 69/2019) e ancora prima alla legge 38/2009 che ha incluso i reati di natura sessuale nell’art 4 bis dell’ordinamento penitenziario, prevedendo un meccanismo che rende più complesso l’ottenimento di eventuali benefici.
Ancora, sul piano sanitario, vari progetti si sono occupati della prevenzione e rilevazione dei reati conto le donne. E’ stata approvata la legge 53 del 5 maggio 2022[3], recante Disposizioni in materia di statistiche in tema di violenza di genere, che all’articolo 4 prevede che tutte le strutture sanitarie pubbliche, e in particolare le unità operative di pronto soccorso, hanno l'obbligo di fornire i dati e le informazioni relative alla violenza contro le donne.
Il clima di paura diffuso induce a gran voce a chiedere pene più severe e certe, ‹‹nonostante il carcere si dimostri inefficace – per cui il forte investimento politico ed economico non viene a tradursi in un guadagno sociale – pare inscalfibile la tendenza a focalizzare l’attenzione su rei-reati-pene piuttosto che sulle criticità che caratterizzano tanto il contesto socio-culturale quanto il sistema penitenziario››[4].
Si tende a screditare gli esperti e si invoca l’autorità della gente e del senso comune[5] per cercare di far fronte, in termini protettivi, al timore della vittimizzazione e per tali ragioni, cioè per una sorta di moral panic[6] su base emotiva, pur prendendo atto che, in alcuni contesti e occasioni, il timore della brutalizzazione è tutt’altro che meramente percepito e quindi il problema appare di complessa lettura e ancor più di complessa “soluzione”.
In questo clima, è stata pubblicata la versione italiana del testo della sociologa Gwénola Ricordeau, Pour elles toutes. Femmes contre la prison, curata da Silvia Buzzelli per Armando Editore, dal titolo Per tutte quante. Donne contro la prigione.
Il volume, coraggioso e provocatorio, che per esperienze personali e professionali dell’autrice si muove tra Francia, Canada e Stati Uniti, dichiara i suoi intenti sin dalla premessa all’edizione italiana: ‹‹Va sferrato un attacco coraggioso a due dogmi: uno sul carcere nel suo complesso, l’altro sulla repressione penale della violenza contro le donne›› (pag. 9) da inguaribili eretiche si mette in atto una critica al carcere senza esclusioni, anche quando chi sconta una pena è un uomo violento.
Sin dalle prima pagine, infatti, si comprende quanto lo sforzo sia quello di mettere in comune tutte le donne che, a vario titolo, cioè vittime di uomini, mogli di detenuti che attendono alle porte del carcere, detenute, dovrebbero invocare il carcere per nessuno e di superare la dipendenza dal sistema penale, senza mancare di rileggere in termini critici quel femminismo che si è reso, nei fatti, antagonista dell’abolizionismo.
Il primo capitolo ci accompagna nella conoscenza dell’abolizionismo penale, con le sue letture critiche sulla costruzione storica del crimine e la necessità di modificare, anzitutto, il linguaggio che, mai come in questo contesto, sa essere potente generatore di realtà.
Vengono rievocati i sostenitori scandinavi del movimento, Nils Christie, con il suo timore che la lotta contro il crimine potesse portare a un nuovo totalitarismo e Thomas Mathiesen. Ciò era motivato da una visione del problema tutt’altro che ingenua, con la consapevolezza che un totale abolizionismo non può non tenere conto di quei dangerous few verso i quali appare di difficile applicazione tale modello.
Nel prosieguo del testo si analizza la vittimizzazione delle donne: pur tenuto conto dell’ovvio numero oscuro, l’autrice riporta alcuni non tranquillizzanti dati: quelli dell’OMS (secondo il quale quasi 1/3 delle donne in una relazione di coppia hanno subito una qualche forma di violenza) e al contempo rileva l’eterogeneità delle vittime, sottolineando la cultura dello stupro e la banalizzazione che i media utilizzano (pag. 68).
In modo analogo a vittime e rei, assumono un ruolo importante, nei contesi analizzati dall’autrice, la classe sociale e l’appartenenza a minoranze: se si tratta di vittime è più alta la probabilità di impunità, se si tratta di rei è più facile la condanna.
Si passa poi ad analizzare le condotte omicide delle donne, come forma di autodifesa dalla brutalizzazione ma anche quelle sindromi, quali la battered woman syndrome[7] che hanno cercato di trovare, soprattutto in contesto statunitense, un riconoscimento giuridico[8].
La Ricordeau evidenzia quanto il processo stesso spesso sia un’esperienza di vittimizzazione secondaria per la parte offesa, a riprova della mancanza di efficacia satisfattoria degli strumenti giuridici, tanto che, citando sempre Nils Christie, ritiene che ‹‹il sistema penale deruba gli individui del loro conflitto››. (pag. 86).
Il terzo capitolo analizza il rapporto tra donne e sistema penale (sia in termini criminologici, sia penitenziari) tra reati commessi da donne per i loro uomini e l’analisi dei dati della maggiore criminalizzazione di donne transessuali e lesbiche (con annessa imposizione di un’identità non percepita come la propria). Nel testo emergono le criticità della detenzione vissuta dalle donne (in un contesto pensato come “roba da maschi”[9]) ma anche quella sperimentata come donna solidale al compagno recluso, tema che viene approfondito nel capitolo successivo (quelle sulle donne ai cancelli delle prigioni) che tratta la pena vissuta e sofferta dai familiari, con relativi costi materiali, sociali e di stigmatizzazione, stante il trattamento infantilizzante che l’istituzione penitenziaria riserva ai familiari e il problema delle second generation prisoners.
Gli ultimi due capitoli ci accompagnano al cuore del testo con l’analisi del difficile rapporto tra abolizionismo penale e femminismo e dei possibili paradigmi alternativi al sistema penale.
La Ricordeau lamenta quanto il femminismo moderno abbia spesso dimostrato disinteresse verso le donne detenute e quanto il femminismo carcerario (carceral feminism) abbia fatto delle pene detentive un punto centrale della lotta, a differenza di alcuni movimenti LGBTQ che, anche a causa della persistente criminalizzazione, hanno avanzato critiche radicali a polizia, sistema giudiziario e carcere.
Al contempo la stessa evidenzia anche il disinteresse dell’abolizionismo verso la violenza contro le donne, eppure, secondo l’autrice, l’abolizionismo penale è (o dovrebbe essere) femminista e queer.
Si afferma che ‹il ricorso a strumenti penali segna il fallimento collettivo e si strutturano proposte alternativa legate alla giustizia trasformativa (transformative justice), con gruppi di persone che rappresentano fattori di protezione e prevenzione. Si tratta di un paradigma connesso al concetto di responsabilità della collettività (community accountability).
Il volume termina con un epilogo e delle riflessioni psicosociali (queste ultime a cura di Chiara Volpato) e giunge alla conclusione che l’abolizionismo penale non può che essere incompiuto (come sosteneva Mathiesen), quasi a indicare la strada di una tensione a piuttosto che di una soluzione alternativa alla giustizia penale ordinaria.
Infatti, scrive la curatrice, si deve andare oltre alle misure alternative per ipotizzare un modello alternativo di giustizia, evidenziando che spesso emerge l’impossibilità a modificare il sistema perché mancano le condizioni e ci si interroga su chi è disposto a creare queste condizioni.
Il testo, senza troppe esitazioni, guarda a due mondi apparentemente incompatibili (femminismo/tutela della donna da un lato e abolizionismo dall’altro), dato che anche i movimenti più progressisti a tutela di minoranze o fasce deboli rischiano di cadere nel giustizialismo, poiché la giustizia penale è (o pare essere) l’unico paradigma di riferimento e quindi l’unica protezione possibile, lasciando, pertanto, qualcuno, fuori dalla lotta dei diritti, forse perché se lo merita.
Il messaggio della Ricordeau, tradotto e arricchito da Silvia Buzzelli, è dirompente perché non lascia alibi, né zone d’ombra (neanche, forse, per quei dangerous few) e riesce ad essere un testo scritto da una donna, per le donne (tutte, come indica il titolo) e per gli uomini (tutti, aggiungerei anche in questo caso).
Ovviamente non restituisce una soluzione ma sprona a spingersi fuori dagli schemi mentali ordinari, che si muovono tra meno o più pena o tra un tipo e un altro di sanzione, per farci ipotizzare una non pena, senza dubbio suggestiva, culturalmente alta, che rimette al centro le persone.
[1] Le vittime di omicidio - Anno 2021 (istat.it).
[2] Istat.it - Violenza sulle donne.
[3] Violenza sulle donne (salute.gov.it).
[4] F. Oggionni, Osservare le complessità del carcere per illuminare le zone d’ombra, in R. Bezzi, F, Oggionni, Educazione in carcere. Sguardi sulla complessità, Milano, FrancoAngeli, 2021 (pag. 15).
[5] D. Garland, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, Il Saggiatore, Milano, 2001.
[6] A. Ceretti, R. Cornelli, Oltre la paura. Affrontare il tema della sicurezza in modo democratico, Feltrinelli, Milano, 2018 (pag. 35).
[7] Vi sono stati tentativi di spiegazione dei meccanismi che inducono comportamenti che cronicizzano la condizione di vittima, uno di questi approcci è la sindrome della donna maltrattata (battered woman syndrome) e mette in luce disturbi correlati alla vittimizzazione domestica (post traumatic stress disorder), in R. Bezzi, M.L. Fadda, Il trattamento dell'autore di reato all'interno della coppia e la vittima precipitante, in Persona e danno, 21.06.2014.
[8] Si veda per approfondimenti C. Pecorella, L’importanza di considerare il contesto della reazione inattesa: il contributo della battered woman sindrome, in C. Pecorella (a cura di), La legittima difesa delle donne. Una lettura del diritto penale oltre pregiudizi e stereotipi, Milano, Mimesis, 2022.
[9] E. Zilioli, Donne detenute. Percorsi educativi di liberazione, FrancoAngeli, Milano, 2021.