I. Non ho le competenze dello storico ma il saggio del prof. Marco Gervasoni su Tangentopoli in prospettiva storica, apparso sul n. 3 del 2015 di "Rivista di Politica", merita senz’altro alcune considerazioni.
Di metodo, in primo luogo: sarà senz’altro vero che la storiografia non ha ancora compiutamente indagato e ricostruito le cause che hanno portato al «crollo della Repubblica» ma sostenere che sarebbe una «beata ingenuità» credere che la magistratura sia intervenuta soltanto perché c’erano dei reati da accertare appare francamente una forzatura.
È sufficiente ripercorrere la radiografia delle indagini svolte dalla Procura di Milano per rendersi conto che la doverosa azione di accertamento dei reati si era dovuta misurare con un fenomeno criminale senza precedenti: dal 1992 al 2000 era state aperte 3146 posizioni processuali, corrispondenti in realtà a 2565 persone fisiche, 1408 delle quali avevano patteggiato la pena o erano state condannate, 790 erano state prosciolte e per 246 era stata dichiarata la prescrizione del reato[1].
Senza precedenti non solo in Italia ma anche all’estero, se è vero che, stando alle comparazioni statistiche della Commissione europea per l’efficacia della giustizia (CEPEJ), in quel periodo i magistrati italiani hanno ricevuto la più alta domanda di giustizia penale in Europa e si sono collocati al primo posto per la capacità di definizione annua dei procedimenti[2].
Ma ovviamente non si tratta soltanto di numeri.
Le inchieste giudiziarie avevano fatto emerge un sistema di «patologica fisiologia»[3] in cui la corruzione politico-amministrativa aveva finito per pervadere tutte le articolazioni dello Stato e dell’apparato pubblico con l’immediata conseguenza che, nel ’92, il nostro Paese era soffocato da un debito pubblico che aveva superato il prodotto interno lordo e non aveva più fiato per gli investimenti[4].
I principali gruppi industriali pubblici e privati furono coinvolti dalle indagini assieme ai dirigenti dei partiti di governo ma anche dell’opposizione e il quadro che ne emerse fu devastante per la democrazia italiana: non solo la prassi sistematica del voto di scambio aveva finito per svuotare di contenuto le istituzioni fondamentali del procedimento democratico ma era stato accertato, contrariamente ad una tesi difensivista molto in voga all’epoca, che il frutto della corruzione solo in minima parte era stata destinato per «finanziare la politica»[5].
La magistratura si trovò ad affrontare questa enorme emergenza democratica, e quella contestuale e ben più tragica proveniente dalle stragi mafiose, e lo fece ricorrendo esclusivamente alla sua posizione costituzionale di indipendenza, sino ad allora mai apertamente contrastata ma da quel momento divenuta oggetto di attacchi radicali e delegittimanti, di sistematiche denigrazioni ed intimidazioni nei confronti dei titolari degli uffici procedenti anche mediante massicce campagne mediatiche televisive e giornalistiche, di adozione di strategie difensive giustificate dalla inaffidabilità della magistratura[6], di conflitti di attribuzione strumentalmente sollevati per tutelare la posizione di parlamentari imputati, di approvazione di leggi finalizzate a modificare norme processuali e sostanziali mentre erano in corso i processi con l’inevitabile assoluzione degli imputati[7].
Se si astrae dalle condizioni economiche, politiche ed istituzionali in cui maturò la corruzione in quegli anni si rischia di non comprendere il reale ruolo svolto dalla magistratura che – pur con le molte inefficienze e gli errori che caratterizzavano ed ancora caratterizzano l’amministrazione della giustizia, con le inettitudini o le complici sottovalutazioni da parte di taluni dirigenti di uffici giudiziari cosi come anche con gli eccessi di sovraesposizione mediatica di altri – ha comunque dovuto supplire all’incapacità del sistema politico di arginare la diffusione generalizzata della corruzione ed ha dovuto procedere all’accertamento di migliaia di fattispecie di reato con mezzi spesso inadeguati[8].
D’altra parte la più evidente dimostrazione della inesistenza dell’ipotizzato disegno politico perseguito della magistratura, in via autonoma o anche soltanto collaterale a quello di talune forze politiche, è fornita dagli esiti delle elezioni politiche intervenute dopo l’avvio delle inchieste, che non spostarono l’asse politico del Paese verso quei partiti che si ritenevano sostenitori dell’azione della magistratura ma anzi aprirono la strada alla formazione politica che, più di ogni altra sino agli anni 2000, perseguirà programmaticamente il più devastante e drammatico attacco mai perpetrato alla magistratura repubblicana nella sua storia: l’obiettivo dichiarato era quello di ridurne l’indipendenza esterna e l’autonomia interna e di sterilizzarne l’esercizio del potere di controllo, finalizzato alla tutela dei diritti e della legalità dell’azione della Pubblica Amministrazione, per renderlo sempre più compatibile (e perciò inoffensivo) con la discrezionalità tendenzialmente illimitata rivendicata dal potere economico-finanziario e politico[9].
In realtà la stagione di Tangentopoli aveva innalzato il livello di legalità nel Paese, estendendolo a settori della Pubblica Amministrazione che ne erano ormai privi, ed aveva così finito per adeguarlo – per la prima volta nella storia repubblicana – ai canoni costituzionali su cui è fondato l’equilibrio dei poteri dello Stato, anche per via dell’allentamento della tradizionale solidarietà della magistratura con i centri di potere politico ed economico[10].
Non a caso, ad un certo punto del conflitto con la classe politica uscita vincitrice dalla Prima repubblica, si era posto al primo punto dell’agenda politica la necessità di riformare la Costituzione, al dichiarato scopo di trasformare l’ordine giudiziario «in una variabile dipendente degli equilibri politici che via via si consolidavano»[11].
In altri termini, il tentativo di riscrivere il ruolo della magistratura sulla base di un inesistente, e comunque mai convincentemente dimostrato, progetto politico autonomo, né sul piano giudiziario né tantomeno su quello storico, evidenzia anche il rifiuto di accettare che la Costituzione repubblicana riconosce e protegge l’indipendenza della magistratura nell’attività di accertamento ma anche di interpretazione ed in definitiva l’inevitabile e legittima politicizzazione dell’attività giudiziaria «nel senso dell’assunzione di una policy a criterio orientativo di qualunque attività interpretativa»[12].
II. Ma c’è anche una ragione più schiettamente di merito che non convince nelle argomentazioni sviluppate dal prof. Gervasoni per sostenere l’invadenza della magistratura negli «spazi decisionali della politica»: attiene alla constatazione che l’assoluta autonomia, di cui dispone la magistratura, sarebbe alla base del suo protagonismo politico, della sua divisione in correnti e che una di queste, Magistratura democratica, addirittura non avrebbe esitato a farsi portatrice di propositi palingenetici sposando ideologie leniniste e operaiste.
Si tratta di un argomento molto ricorrente nella pubblicistica più aggressiva di quegli anni, ed ancora oggi ossessivamente utilizzato da alcuni degli organi di stampa riconducibili o politicamente vicini al leader della forza politica nata dalle ceneri della Prima repubblica[13], che tuttavia appare poco compatibile con il rigore che dovrebbe caratterizzare la ricostruzione storica.
Si trascura infatti di considerare che la garanzia costituzionale di indipendenza della magistratura (art. 104, comma 1°, Costituzione) non è espressione di una posizione di privilegio corporativo della categoria ma è direttamente funzionale alla realizzazione della tutela dei diritti – diritti inviolabili (art. 2 Cost.), diritti di libertà, diritti politici, civili e sociali (artt. 13 e segg., 32 e segg.) riconosciuti all’uomo e al cittadino, soprattutto a quelli più deboli, la cui libertà ed eguaglianza di condizioni è limitata da ostacoli di ordine economico e sociale (art. 3, commi 1° e 2° Cost.) – e della conseguente necessità di assicurare l’eguaglianza di tutti di fronte alla legge mediante lo strumento dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 102 Cost.).
La grande “eresia” di Magistratura Democratica è consistita nello “scongelare” i valori costituzionali[14], ritenendoli immediatamente efficaci ed acquisibili nel patrimonio dei singoli cittadini e della collettività e non mere enunciazioni di principio in attesa di una loro declinazione legislativa, nel rompere l’asfittica e servile chiusura della corporazione giudiziaria attraverso la critica argomentata dei provvedimenti giudiziari, nel riconoscere il valore dell’uguaglianza sostanziale quale obiettivo della giurisdizione specie in materia lavoristica e soprattutto nel riconoscere l’intrinseca politicità della giurisdizione[15]. L’inevitabile policy del diritto, direbbe Pizzorusso, che si elabora sul piano della politica costituzionale in cui alla giurisdizione è riconosciuto un ruolo promozionale di estensione delle garanzie e delle tutele, in rapporto agli altri organi costituzionali dello Stato ma anche ai soggetti economici operanti sul mercato, contrapposta alla politics, alla lotta politica quotidiana in cui sono impegnati i partiti e che nulla ha a che fare con la giurisdizione[16].
In questa nuova configurazione della giurisdizione, centrale è il ruolo dell’attività interpretativa, della quale Md ha definitivamente smascherato la vetusta ed ipocrita concezione meccanicistica per restituirle – così come era stato riconosciuto da Beccaria e da altri giuristi classici[17] – il significato di atto intrinsecamente politico, finalizzato al discernimento ed alla tutela dei beni giuridici sostanziali sottesi ad ogni vicenda umana, avendo sempre come criterio vincolante di orientamento la tavola dei valori costituzionali e delle fonti sovranazionali e la loro gerarchia.
Uno «strano animale», la definì Pietro Ingrao[18], le cui elaborazioni in materia di diritti e di prassi giudiziarie sono divenuti oggi patrimonio comune di tutta la magistratura, ma anche della costituzione materiale del Paese, e che per prima ha sperimentato e concretamente attuato il valore del garantismo penale nella sua accezione autenticamente liberale di presidio rigido verso l’esercizio del potere giurisdizionale, come di qualsiasi altro potere costituzionale o privato, a tutela dei diritti e delle libertà fondamentali. Una concezione radicalmente diversa da quella sbandierata durante gli anni di Tangentopoli dalla generalità della classe dirigente interessata esclusivamente a conseguire l’impunità attraverso la sottrazione ad ogni forma di controllo penale.
Grazie a questa forte legittimazione teorica e costituzionale, Magistratura Democratica, sia durante la stagione dell’emergenza terroristica che anche nelle fasi più acute e drammatiche della lotta alla mafia e di tangentopoli, non ha esitato ad esprimere critiche verso metodi investigativi e scorciatoie probatorie che, in nome di una visione sostanzialistica della giurisdizione penale, avallata anche da una parte del sistema mediatico e dell’opinione pubblica, rischiava di sacrificare i diritti e le garanzie delle persone coinvolte nel processo penale.
Contrariamente a quanto comunemente si ritiene, e a quanto potrebbe lasciare indurre anche l’analisi del prof. Gervasoni, Md è stato il primo gruppo della magistratura associata a segnalare i rischi di quella «dislocazione del consenso» popolare in capo a singoli magistrati, che alcune iniziative finivano per legittimare, caricando la giurisdizione di un ruolo improprio[19]; nel 1994, nel pieno dell’inchieste di Tangentopoli e di fronte al dilagare della criminalità della classe dirigente, Md organizzava un seminario di studi in cui veniva riaffermata la centralità del ruolo del giudice e del dibattimento, rispetto alla raccolta degli elementi di indagine da parte del pubblico ministero, e la necessità dello scrupoloso rispetto delle garanzie difensive soprattutto nella valutazione dei presupposti per la adozione della custodia cautelare che doveva essere sempre imposta nei casi di assoluta indispensabilità[20].
Già in quella occasione venne fermamente espressa la critica verso ogni forma di protagonismo giudiziario, ribadita con nettezza anche recentemente in tutti quei casi di singoli titolari di uffici del Pubblico Ministero poi passati a svolgere un ruolo politico, i quali con la loro diretta partecipazione al dibattito pubblico, hanno cercato il consenso verso le loro inchieste e soprattutto verso le loro persone[21].
Un argine al populismo giudiziario è il codice di deontologia giudiziaria elaborato dal prof. Luigi Ferrajoli, e adottato per acclamazione dal XIX Congresso nazionale di Md del 2013, per rendere tanto «più rigorosa la deontologia dei magistrati quanto più è riconosciuta l’intrinseca politicità della giurisdizione»[22] accompagnato dalla richiesta al legislatore di introdurre rigidi sbarramenti per il passaggio dei magistrati in politica con la previsione della non riammissione nell’ordine giudiziario.
Una storia complessa, come si vede, qui appena superficialmente accennata, che non si può pretendere che venga restituita dalla sintesi banalizzante della fiction, ma che la storiografia ha il dovere di ricordare.
*Gli articoli di Marco Gervasoni e Calogero Gaetano Paci sono apparsi sul trimestrale “Rivista di Politica” (www.istitutodipolitica.it) diretto da Alessandro Campi rispettivamente nel numero 3/2015, pp. 5-8 e nel numero 1/2016, pp. 15-18.
[1] Dati estratti da L. Ferrarella, Mani pulite 2565 imputati, in «Corriere della Sera», 17 febbraio 2000.
[2] La verità dell’Europa sui magistrati italia, a cura dell’Associazione Nazionale Magistrati, Cepej 2008, p. 14.
[3] Espressione di Piero Craveri riportata da G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell’Italia attuale, Donzelli, Roma 2009, p. 148
[4] V. Castronovo, Storia economica d’Italia, Einaudi, Torino 1995, p. 546, con l’ulteriore precisazione che il debito pubblico aveva una incidenza del 108,6% contro il coefficiente massimo del 60% stabilito dagli accordi di Maastricht.
[5] G. Palombarini, Giudici a sinistra. I 36 anni della storia di Magistratura Democratica, ESI, Napoli 2000, p. 291. Ampie considerazioni al riguardo anche in Crainz, Autobiografia di una Repubblica, cit., p. 195 e segg.
[6] È quanto accaduto, ad esempio, in materia di rogatorie internazionali, in relazione alle quali gli avvocati di un noto gruppo imprenditoriale, innanzi agli organi giudiziari stranieri, non hanno esitato a sostenere la inaffidabilità della magistratura italiana che aveva richiesto la trasmissione di documentazione bancaria, societaria ed altri mezzi di prova. Anche per via di tali atteggiamenti, delle 613 richieste di rogatoria inoltrate dalla Procura di Milano, ancora nel 2000 ben 393 attendevano di essere esitate.
[7] Sull’analisi del passaggio di fase storica che si compì prima e dopo tangentopoli, nel rapporto tra politica e giustizia, si rinvia alla chiara sintesi di A. Pizzorusso, Politica e giustizia in Italia dal dopoguerra ai nostri giorni, in «Questione giustizia», n. 4, 2002, che al riguardo parla della aberrazione giuridica di «leggi di assoluzione» . Un esempio scolastico fu il decreto legge n. 440 del 1994 con il quale vennero modificate, in corso di processo e per imputati eccellenti, le regole processuali. Si possono ricordare ancora gli interventi in materia di rogatorie, abuso di ufficio, falso in bilancio e prescrizione dei reati. Al riguardo si veda anche g. palombarini, Giudici a sinistra, cit., p. 330 e nota n. 21.
[8] Sulle conseguenze della corruzione nella Pubblica Amministrazione in quegli anni, con particolare riferimento alla sistematica distorsione della spesa pubblica per fini di arricchimento privato ed alla inadeguata rappresentazione mediatica del fenomeno, cfr. G. Colombo, Il vizio della memoria, Feltrinelli, Milano 1996, p. 155 e segg.
[9] Palombarini, Giudici a sinistra, cit., p. 291.
[10] Ivi, p. 293.
[11] Con riferimento alla Commissione parlamentare Bicamerale ed ai propositi di riforma in essa coltivati, cfr. R. Scarpinato, La normalità italiana, storia di ordinarie violenze, in «MicroMega», n. 4, 2002, p. 100. Si veda anche A. Pizzorusso, Politica e giustizia in Italia, cit., p. 10, a proposito del sostanziale fallimento dell’offensiva scatenata contro i magistrati italiani da Craxi e Cossiga.
[12] A. Pizzorusso, Politica e giustizia in Italia, cit., p. 5.
[13] Si veda al riguardo l’articolo di C. Cerasa, Chissà che direbbe Montesquieu dell’ultimo colpo di genio di Md, apparso sull’edizione de «Il Foglio» del 14 gennaio 2016.
[14] Sul “disgelo” costituzionale, cfr. L. Ferrajoli, Dei diritti e delle garanzie, il Mulino, Bologna 2013, p. 46 e segg.
[15] Al riguardo si veda la sintesi storica di N. Rossi, Magistratura Democratica tra eresia e riforma, in «Questione Giustizia», n. 2, 2014.
[16] A. Pizzorusso, Politica e giustizia in Italia, cit., p. 5.
[17] Sul punto le lucide argomentazioni svolte da M. Donini in Scienza penale e potere politico, in «Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale», 2015, n. 58, p. 97 e segg.
[18] P. Ingrao, Una politica per la giustizia, in Quali garanzie, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 489.
[19] G. Gilardi, Tangentopoli e processo penale, in «Questione Giustizia», n. 2, 1994, p. 691.
[20] Ivi, p. 696.
[21] L. Ferrajoli, Dei diritti e delle garanzie, cit., p. 14.
[22] Le nove massime di deontologia giudiziaria si possono leggere sul sito di Magistratura Democratica ma anche in L. Ferrajoli, Dei diritti e delle garanzie, cit., p. 15.