«Tutto il nostro lavoro di magistrati è comunicazione e noi dobbiamo saperlo», ricordava una presidente di Corte d’appello della Romania ai colleghi italiani il 9 ottobre 2015 a Roma, durante un seminario su Giustizia e comunicazione organizzato da Csm, Scuola della magistratura e Ordine dei giornalisti. «Anche se siamo una democrazia giovane, non come la vostra, sul problema della comunicazione siamo un po’ più avanzati di voi» esordì la giudice, mettendo il dito sulla piaga del deficit di cultura della comunicazione tra le toghe italiane. In effetti, a differenza di altri Paesi tra i quali, evidentemente, anche la Romania, da noi non è affatto «basic che i magistrati studino comunicazione». Il che non è privo di ricadute sulla credibilità e sulla fiducia nella giustizia.
Anche il caso Zuccaro – il procuratore della Repubblica di Catania finito nella polemica per alcune sue dichiarazioni sulle Ong e il traffico di migranti – è la conferma che la Giustizia italiana ha un problema di comunicazione e che il problema non si risolve pensando che i capi delle procure siano comunque in grado di far fronte a questo compito; che, cioè, diano la garanzia di una comunicazione corretta. Inoltre: può sembrare una provocazione ma il caso Zuccaro è anche la conferma che la cultura del riserbo – almeno per com’è stata troppo spesso veicolata e recepita – nuoce alla Giustizia perché non la allena ad una comunicazione corretta, esponendola così al rischio di gaffe, fraintendimenti, errori, strumentalizzazioni, e a volte anche narcisismi, che poi si ritorcono, appunto, contro la credibilità e la fiducia nell’istituzione.
Chi conosce il procuratore della Repubblica di Catania lo descrive come «uomo di grande valore» e «magistrato competente, serio, onesto», nonché «riservato». «Forse proprio per questo – si aggiunge – non ha saputo gestire la comunicazione». Insomma, talmente abituato a tacere, che ha sbagliato per inesperienza. Con l’effetto paradossale, tra l’altro, di essere stato dipinto come una sorta di «sceriffo del mare», nemico delle Ong che cercano di soccorrere i migranti nel Mediterraneo; proprio lui che ai migranti ha riservato sempre «attenzione e sensibilità», che ha conseguito «straordinari risultati» investigativi e «ottenuto decine di condanne per i capi delle organizzazioni criminali nonché riconoscimenti anche internazionali (Onu, Commissione europea) del proprio lavoro».
Certo, se è vero che il suo obiettivo era soltanto denunciare con forza «la mancanza di strumenti investigativi adeguati contro il traffico di migranti di fronte a un’Europa che se ne frega», allora Zuccaro ha davvero sbagliato tutto, a cominciare dalla sottovalutazione di un’inevitabile (e puntuale) strumentalizzazione politica delle sue parole, confuse e contraddittorie.
Come ricordò in quel seminario del 2015 Antonello Mura, sostituto procuratore generale presso la Cassazione, esperto di relazioni internazionali, un aspetto importante segnalato dal Consiglio consultivo dei procuratori europei è anche la capacità del pubblico ministero di fornire «informazioni inequivoche, che quindi non tendano ad influenzare ma a chiarire».
Ebbene, al di là del merito, le esternazioni di Zuccaro non hanno certo avuto il dono della chiarezza ma semmai il difetto dell’oscurità. Tipico, forse, di chi ritiene (a torto) che il proprio ruolo consenta di spargere sospetti generici, incurante di chi finirà nel tritacarne politico-mediatico «senza alcuna prova». Questo non è consentito a un procuratore della Repubblica. E non ha niente a che vedere con l’analisi argomentata di fenomeni sociali conosciuti grazie all’esperienza maturata sul campo, certamente consentita a un magistrato e, anzi, spesso utile e necessaria.
Inoltre, quand’anche la sortita mediatica di Zuccaro fosse stata decisa sulla base di una precisa strategia investigativa, l’oscurità del suo messaggio – per di più travolto da polemiche politiche che non ne hanno agevolato la comprensione – ha finito per delegittimare la fonte e per rendere inefficace quella stessa strategia.
Ecco, se tutto questo è davvero il frutto di una scarsa frequentazione della comunicazione in ossequio al sacro principio del riserbo, allora c’è qualcosa di malinteso in questo principio che condanna la Giustizia al mutismo. Peraltro, detto per inciso, l’idea di una Giustizia muta non trova riscontro neppure nella mitologia, dove Dike è rappresentata con la benda sugli occhi ma mai imbavagliata.
Comunicare – in modo corretto – è un dovere della Giustizia. E se il pericolo paventato è quello di un eccesso di “protagonismo” delle toghe, è però difficile non vedere i danni provocati da quella malintesa cultura del riserbo che demonizza la comunicazione giudiziaria e gerarchizza la cultura della comunicazione riservandola ai procuratori della Repubblica, spesso “inesperti” ma uniche voci legittimate dall’Ordinamento giudiziario. Tanto che in Italia, a differenza di altri Paesi, soltanto una piccola percentuale della magistratura considera essenziale acquisire questa specifica competenza.
Dall’indagine conoscitiva su Identità, ruolo e immagine sociale dei magistrati italiani – commissionata dalla Scuola della magistratura ai professori Nadio Delai e Stefano Rolando, e pubblicata nella collana Diritto e società di Franco Angeli – risulta infatti che solo il 13,8% dei magistrati intervistati chiede di imparare queste competenze, relegate così all’ultimo posto della classifica sulle richieste formative.
La nomina di Zuccaro alla guida della Procura di Catania risale a circa un anno fa. Non sappiamo se, tra le sue attitudini, l’organo di autogoverno della magistratura abbia riscontrato e valutato positivamente anche quelle “comunicative”, come avrebbe dovuto fare visto che ai “capi” spetta la responsabilità della comunicazione. Né sappiamo se Zuccaro faccia parte di quella esigua percentuale di magistrati interessati ad acquisire competenze comunicative ed abbia quindi frequentato i corsi della Scuola della magistratura o se li abbia invece ritenuti inutili, come molti dei suoi colleghi.
Siamo invece certi che il Csm ne avrà apprezzato il “riserbo”, anche se oggi – quando non è trascorso neanche un anno da quella “promozione” – si trova nella paradossale situazione di “processarlo” proprio per mancanza di riserbo (perché di processo si tratta, al di là che si apra o meno un procedimento disciplinare o una pratica per incompatibilità).
Forse questa vicenda dovrebbe trasformarsi in un’occasione per cambiare passo e riprendere il filo di un progetto non ancora realizzato: creare le condizioni per sviluppare nella magistratura una vera cultura della comunicazione. Che, al di là di attribuzioni specifiche, è un dovere istituzionale “diffuso”, come peraltro riconobbe il vicepresidente Giovanni Legnini proprio in quel seminario del 2015.
«La mia personale opinione è che comunicare la Giustizia costituisca un dovere. Lo dico con l’aspirazione di poterlo far dire al Csm nei modi e nei tempi possibili» disse allora Legnini, augurandosi che la magistratura e l’autogoverno «assumano questo impegno, questo principio. E cioè, che comunicare bene, in modo tempestivo e completo, costituisce un dovere istituzionale».
È dunque il momento di recuperare il ritardo accumulato, dando a tutti i magistrati gli strumenti necessari per gestire la comunicazione in modo consapevole e responsabile. Perché la fiducia nella giustizia non ha bisogno né di bavagli né di megafoni ma piuttosto della capacità di comunicare in modo trasparente e responsabile.
Donatella Stasio