Il giudice antropologo e il test culturale
Mentre la costruzione di una compiuta dogmatica della diversità oscilla ancora tra teoria dei diritti fondamentali e teoria del pluralismo degli ordinamenti giuridici, il compito di risolvere i conflitti multiculturali viene affrontato soprattutto dai giudici. Sono stati loro che, sentenza dopo sentenza, conflitto dopo conflitto, si sono fatti antropologi e hanno forgiato un diritto multiculturale giurisprudenziale da cui è possibile partire alla ricerca di più stabili tecniche argomentative che aiutino il diritto a confrontarsi con la categoria cultura. Mettendo assieme gli esercizi topici più persuasivi compiuti dai giudici italiani e comparati, il contributo suggerisce un «test culturale», ossia un iter logico che procedimentalizzi i passaggi argomentativi che ogni giudice dovrebbe affrontare nella risoluzione dei conflitti multiculturali. Il test vuole promuovere una maggiore certezza nell’uso dell’argomento culturale e creare un dialogo più fecondo tra diritto e antropologia, immettendo nel processo le competenze tecniche di questa disciplina, ma assicurando nel contempo le peculiarità del ragionamento more juridico.
1. Premessa. Il diritto multiculturale come diritto giurisprudenziale
A partire dal 1990, il processo italiano, civile e penale, ha visto un crescente uso dell’argomento culturale. Con tale espressione si indica la ragione per cui la diversa visione del mondo di una delle parti, derivante dalla appartenenza ad una cultura diversa da quella della maggioranza, debba rilevare nella decisione del caso. Generalmente immesso nel processo a cura dell’avvocato, tale argomento introduce nel ragionamento giuridico un parametro extra-sistemico, di origine esterna all’ordinamento – la cultura in senso antropologico[1] – con il quale il giudice che deve risolvere il caso è chiamato a confrontarsi, sia che decida di accoglierlo sia che lo respinga.
Il fenomeno è globale, ha luogo in tutti gli ordinamenti che regolano società multiculturali e porta all’emersione della figura del giudice antropologo, intendendo con tale termine il giudice che si confronta con la cultura, categoria per l’appunto forgiata da una delle più giovani scienze sociali: l’antropologia. L’espressione «giudice antropologo» ha sia una valenza descrittiva, indicando che cosa i giudici fanno, che tipo di argomentazioni producono e come risolvono i casi quando la cultura entra in gioco, sia una valenza prescrittiva e programmatica, volta a indagare come dovrebbe essere un giudice che voglia confrontarsi in modo più consapevole con la categoria cultura evitando approcci poco accurati ad essa. E in tale duplice accezione la userò in questo lavoro.
Indagare il ruolo del giudice antropologo e i suoi strumenti interpretativi e argomentativi è cruciale in quanto il diritto multiculturale, in particolare quello che nasce dalla risoluzione dei conflitti multiculturali, è essenzialmente un diritto pretorio, giurisprudenziale[2]. Non si vuole con tale affermazione negare il contributo che sia il legislatore sia i teorici hanno dato alla costruzione del multiculturalismo. La ricca messe di norme internazionali, costituzionali e legislative che riconoscono diritti culturali o proteggono la diversità culturale come valore delle società democratiche sono, ovviamente, il presupposto entro cui i giudici agiscono. Tuttavia, deve registrarsi che la loro genericità non sempre riesce a costituire un punto di riferimento per i giudici, che si sono pertanto sforzati di elaborare un proprio strumentario di fronte ad ogni singolo conflitto.
In questo contributo proverò a fare il punto sullo stato dell’arte della dogmatica e della topica del multiculturalismo.
Nella prima parte del lavoro ricostruirò le due principali concettualizzazioni giuridiche della cultura: la teoria dei diritti fondamentali, secondo cui la cultura è un diritto umano e la teoria del pluralismo degli ordinamenti giuridici, secondo cui la cultura è una consuetudine esterna. Tali teorie, come cercherò di dimostrare, non riescono a compenetrarsi in modo coerente ed esaustivo, lasciando insolute grandi questioni di fondo che, a mio avviso, potrebbero invece trovare una prima pratica e operativa soluzione proprio guardando alla topica, ossia al diritto multiculturale giurisprudenziale finora prodotto. A questa è dedicata la seconda parte del lavoro, dove si rileva che dall’approccio case by case seguito dai giudici sono, dopo decenni di conflitti multiculturali, emersi dei punti fermi, dei topoi argomentativi che si rivelano più persuasivi di altri e che andrebbero incorporati nel ragionamento di ogni giudice. Sempre dalla topica provengono nuove tecniche argomentative di interesse per il giudice italiano: i test culturali. Con tali strumenti ci si muove verso una topica sistematizzata in cui il giudice, anziché essere lasciato solo nella motivazione, è guidato da un insieme di domande e di passaggi che evitano gli errori più insidiosi in cui generalmente incorre quando si fa antropologo. A tal fine il lavoro avanza una proposta di test culturale per il giudice italiano (ma in prospettiva anche per il legislatore), che potrebbe essere recepito nella forma di linee guida da tener presenti nell’approccio a qualsiasi conflitto culturale. Il test cerca di mettere in dialogo il diritto con l’antropologia dando voce sia al tipo di valutazioni tecniche che questa scienza apporta al processo, sia alle componenti più tipiche del diritto quale scienza che deve garantire la convivenza e aiutare il vivere sociale a svilupparsi nel pluralismo.
2. La dogmatica della diversità culturale tra teoria dei diritti fondamentali e teoria del pluralismo degli ordinamenti giuridici
Sono due le teorie dentro le quali i conflitti multiculturali vengono inquadrati in Italia: la teoria dei diritti fondamentali, utilizzata per tutti i conflitti che hanno una matrice religiosa, e la teoria del pluralismo degli ordinamenti giuridici, dentro cui la Corte di cassazione, ma anche i giudici di merito tendono ad inquadrare i conflitti strictu sensu culturali, ossia privi di alcuna componente religiosa. Tali teorie sono molto diverse e il loro intrecciarsi genera delle aporie e degli stalli concettuali che portano a dire che una costruzione dogmatica della diversità è ancora lungi dal considerarsi compiuta[3].
2.1. L’ingresso della cultura nel diritto. La nascita dei diritti culturali
È il 1966. Con l’art. 27[4] del Patto internazionale dei diritti civili e politici, la cultura in senso antropologico fa il suo ingresso nell’orizzonte del diritto, autonomizzandosi rispetto alla religione e alla lingua, le due componenti della cultura che fino a quel momento avevano trovato riconoscimento nei testi costituzionali e nelle carte internazionali. Si tratta di un ingresso trionfale: la cultura viene positivizzata con, addirittura, lo status di diritto umano. Tale diritto sembrava riservato alle sole minoranze nazionali, finché il Comitato Onu dei diritti umani preposto alla garanzia del Patto, nel 1994, riferisce l’art. 27 a tutte le minoranze presenti in uno Stato, lasciando pensare che vi siano compresi anche gli immigrati[5].
Il riconoscimento internazionale è l’inizio di un fenomeno che poco dopo avrebbe coinvolto le Costituzioni nazionali. Tra il 1980 e il 1990, cinquanta delle centonovantaquattro Costituzioni esistenti vengono modificate per inserire la nuova generazione dei «diritti culturali», che entra così a pieno titolo nell’età dei diritti[6]. Le formule della costituzionalizzazione sono eterogenee: talvolta si tratta di diritti individuali, talaltra di gruppo; talvolta i diritti culturali sono riservati a minoranze nazionali o popoli nativi, talaltra invece sono diritti universali volti a proteggere qualsiasi identità culturale[7]. Pur caratterizzati da questa eterogeneità, i diritti culturali diventano, in cinquanta Stati, diritti fondamentali costituzionali.
La cultura viene giuridificata anche con un’altra formula: altre trenta Costituzioni, nello stesso arco temporale, inseriscono un principio multiculturale o di diversità culturale.
Protagonisti di questo processo di costituzionalizzazione della cultura sono gli Stati del Sud-America, dell’Africa, dell’Europa dell’Est e il Canada, che diviene la prima democrazia occidentale a costituzionalizzare un principio multiculturalista nel 1982[8].
Le Costituzioni degli Stati europei più risalenti non vengono adattate a questa ondata «culturale». La Costituzione italiana appartiene a quelle centodieci costituzioni che non includono nel loro catalogo di diritti quelli culturali, né ha costituzionalizzato un principio multiculturalista, tuttavia si può ritenere che anche in Italia l’argomento culturale trovi un suo fondamento costituzionale. Questo può dedursi, dal principio pluralista, da un’interpretazione evolutiva dell’art. 9 Cost., nonché dal principio personalista dell’art. 2 Cost. nel suo riferimento alle formazioni sociali, di cui il gruppo culturale fa parte. Più problematico invece è dire che i diritti culturali esistono in quanto fondati sul diritto internazionale, argomento non a caso mai usato dai giudici italiani. Se, infatti, è vero che l’art. 117 c. 1 come modificato dalla legge di revisione costituzionale 3/2001 ha elevato la forza delle norme internazionali pattizie, per cui l’art. 27 del Patto internazionale dei diritti civili e politici del 1966 ha una forza superiore alla legge è, infatti, altrettanto vero che l’applicabilità delle Carte dei diritti sovranazionali, che non siano la Cedu o la Carta europea dei diritti fondamentali, resta incerta[9]. Neanche quest’ultima, peraltro, è sufficiente a fondare i diritti culturali: l’art. 22[10], infatti, non è direttamente applicabile visto che la Carta europea dei diritti fondamentali vincola gli Stati membri nei limiti delle competenze stabilite dai Trattati e non può essere utilizzata aldilà di queste, come ribadito dalla sent. 80/2011 della Corte costituzionale.
La cornice normativa citata, per quanto non del tutto esplicita, consente sicuramente di respingere quell’accusa che è stata rivolta ai giudici antropologi di molti ordinamenti di attivismo multiculturalista e di produrre una giurisprudenza normativa, ma dimostra anche che il fondamento normativo dell’argomento culturale risulta troppo indeterminato e generico per essere di valido aiuto ai giudici nella risoluzione dei conflitti multiculturali. Non solo, ma tale fondamento normativo (principio pluralista, principio culturalista dell’art. 9 Cost., riconoscimento internazionale dei diritti culturali come diritti umani) genera in qualche modo delle aporie concettuali, che di seguito proverò a illustrare.
2.2. Le aporie della dogmatica che costruisce la cultura come diritto umano e fondamentale
L’ingresso trionfale della cultura nei testi giuridici come diritto umano e fondamentale è un passo simbolico molto rilevante per la protezione di gruppi a lungo negletti che dà voce a nuove teorie della giustizia e ad un nuovo concetto di cittadinanza multiculturale[11] più consono al mondo globale. Esso, inoltre, meglio invera il principio personalista adattandolo alle nuove teorie filosofiche sulla soggettività e sull’identità, che si disfano definitivamente dell’idea di un individuo à la Robinson Crusoe,astratto, non situato. Tuttavia, a mio avviso, un aspetto che è sfuggito nel momento in cui si concettualizzava la cultura dentro la teoria dei diritti fondamentali è stato che in tal modo si incorporava nell’ordinamento un parametro extra-sistemico dalla portata quasi onnicomprensiva rispetto ai comportamenti umani, una portata dagli esiti imprevedibili. I diritti culturali operano, infatti, come una sorta di clausola di «rinvio mobile» a tutte le numerosissime pratiche e comportamenti di cui una cultura si compone[12]. Che il rapporto con la cultura sia più problematico di quanto l’irenico riconoscimento quale diritto umano faccia pensare ben si coglie nell’ambito del processo penale, dove le interazioni tra cultura e diritto hanno portato alla figura del reato culturalmente motivato, o reato culturalmente orientato o reato compiuto per ragioni culturali. Alcune pratiche culturali sono, dunque, delitti, in quanto violatrici di beni giuridici cruciali protetti a livello penale e di rilievo costituzionale. La teoria dei diritti fondamentali comincia, in qualche modo, a scricchiolare perché genera equazioni incongruenti: se in una cultura esiste la pratica della vendetta, dovremmo ritenere che sussista un diritto culturale alla vendetta[13]? O un diritto culturale alle mutilazioni genitali? o un diritto culturale all’ojaku shinju, l’omicidio-suicidio giapponese[14]? Ovviamente, attraverso il bilanciamento, il diritto alla vita e all’integrità fisica prevarranno rispetto al diritto culturale alla vendetta, ma la teoria dei diritti fondamentali si rivela concettualmente insidiosa poiché, pur non consentendo la giustificazione della vendetta (grazie al bilanciamento), in qualche modo prefigura un diritto culturale alla vendetta con un effetto simbolico e concettuale perturbante.
I diritti culturali sembrano, in qualche modo, rivelarsi un vaso di Pandora, un cavallo di Troia che, una volta immesso nel sistema, lancia una sfida anche all’idea del monismo giuridico statale.
2.3. I diritti culturali come clausola di «rinvio mobile» alla folk law?
Ciò può apprezzarsi se consideriamo che dando riconoscimento massimo, addirittura al livello di diritti umani, alla cultura, si recepisce anche quella parte della cultura che è il suo diritto. Con il folk-lore cioè entra nell’ordinamento giuridico statale anche la folk-law[15], il cosiddetto diritto popolare. Ma quando la folk law include la vendetta[16], si crea, come accennato, il paradosso che tale pratica appare rivestita del manto del diritto soggettivo.
Considerato che, dal punto di vista antropologico, il diritto è una delle componenti del più ampio concetto di cultura, si potrebbe arrivare a dire che l’esistenza di diritti culturali sfida lo stesso principio di territorialità del diritto, in quanto incorpora non soltanto la folk law, ma anche la official law, la written law del gruppo culturale altro. Il caso del genitore italiano che durante una vacanza in Norvegia aveva dato uno schiaffo al figlio venendo arrestato per maltrattamenti su minore e che si difendeva sostenendo che le forme di punizione fisica non sono punite dal diritto italiano, è emblematico di questa possibilità. Può, nell’assetto dato dal diritto internazionale alla cultura, parlarsi di un diritto culturale del padre italiano a punire fisicamente il proprio figlio, visto che in Italia lo ius corrigendi fisico non è stato abolito integralmente, come lo stesso ordinamento giuridico italiano, riflesso della cultura italiana, dimostra?
L’idea dei diritti culturali, dunque, si rivela un contenitore aperto, una sorta di clausola di «rinvio mobile» verso tutto quel sistema organico che è una cultura, costituito anche dal diritto in senso oggettivo. Credo di non esagerare affermando che attraverso il riconoscimento della cultura come diritto o principio costituzionale, si è in qualche modo rivitalizzata la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici che si è trovata, di fatto, introdotta nei vari ordinamenti monisti sotto la veste dei diritti culturali.
2.4. La cultura come «rete di regole» e come ordinamento giuridico tout court?
Potrebbe esservi un’altra versione, ancora più radicale, dell’incorporazione del pluralismo giuridico tramite i diritti culturali, che qui vorrei brevemente ipotizzare. Pur non condividendola perché dilata eccessivamente l’idea di che cosa è diritto, infatti, mi sembra rilevante per mostrare le problematiche insite nella teorizzazione della cultura come diritto fondamentale.
Se applichiamo una lettura pan-giuridica, che vede il diritto esistere ogni qualvolta vi è una regola di comportamento, a ben vedere ogni cultura in sé sarebbe leggibile tutta intera come un ordinamento giuridico, come una grande, fitta e interconnessa «rete di regole»[17]. Che si parli della ricetta della pasta o di come si macella un agnello, delle regole per seppellire i morti, per sposarsi o per vestirsi, dei meccanismi con cui si ricerca la giustizia – rivolgendosi a un terzo imparziale o praticando la vendetta – le culture appaiono insiemi olistici di norme di comportamento, condivise, trasmesse intergenerazionalmente, sanzionate. Tutto il folk-lore sarebbe, dunque, in questa lettura pan-giuridica folk-law. Degli ordinamenti giuridici, le culture condividono molte caratteristiche: la cultura è composta da regole condivise attraverso meccanismi di legittimazione sociale, ma che sono anche modificabili e rinnovabili; come negli ordinamenti giuridici, le regole culturali hanno diversi livelli di cogenza alcune essendo imperative altre facoltizzanti altre promozionali. L’aspetto giuridico insito nello stesso concetto di cultura, secondo tale lettura, si coglierebbe anche a livello linguistico: quando si parla di codici di abbigliamento, codici alimentari, codici di comportamento sessuali e più ampiamente codici culturali si evocano, infatti, proprio «insiemi di regole».
A qualunque delle due visioni – quella che distingue dentro la cultura tra folk-lore e folk-law o quella pan-giuridica che guarda a tutta una cultura come rete di regole e quindi come ordinamento tout court – si aderisca, credo che entrambe mettano in luce la difficoltà di usare la teoria dei diritti fondamentali come fondamento concettuale alla risoluzione dei conflitti multiculturali in quanto questa teoria si rivela la porta aperta per un diritto, più o meno ampio nei suoi contenuti, prodotto altrove che entra nel nostro ordinamento con lo status più alto possibile: quello di diritti umani. Si potrebbe, invero, ribattere che questo fenomeno non è nuovo ed accade anche con il riconoscimento della libertà religiosa, della libertà di manifestazione del pensiero, dell’obiezione di coscienza e la teoria dei diritti fondamentali è già attrezzata a risolverlo[18], ma la portata onnicomprensiva del concetto di cultura sembra rendere il caso dei diritti culturali più problematico.
2.5. L’arenarsi della dogmatica dei diritti culturali
La giuridicizzazione della cultura come diritto soggettivo è forse avvenuta senza prendere adeguatamente in considerazione gli effetti dirompenti che questa avrebbe potuto avere a causa del carattere così ampio del concetto di cultura. Il legislatore internazionale aveva forse in mente specifici aspetti del folklore e, in parte pressato dalle risposte alle ingiustizie subite dai popoli vittime dell’imperialismo culturale (e materiale) occidentale, in parte stregato dall’esotismo e fascino per le culture, non ha accuratamente considerato in che cosa i diritti culturali si sarebbero poi inverati e concretizzati; quando si è reso conto che, con la cultura che diventava diritto, facevano ingresso non soltanto i modi in cui ci si veste, si mangia, si osserva il giorno di riposo, ma anche forme violente di disciplina dei bambini, mutilazioni genitali, vendetta e omicidi d’onore, lo scenario è mutato.
In un primo tempo, a fronte di queste difficoltà date dal fatto che la cultura era una clausola troppo aperta, la stessa teoria dei diritti fondamentali ha sostenuto un approccio case by case ai vari conflitti, ma ciò ha significato arrendersi alla impossibilità di fissare dei parametri certi per il giudice. Poi progressivamente la fiducia nel multiculturalismo si è offuscata. Da movimento progressivo e liberatorio esso ha iniziato ad essere percepito come un passo indietro verso la via della giustizia.
Il diritto costituzionale si è tirato indietro: il processo di costituzionalizzazione dei diritti culturali si è arrestato con il risultato finale che soltanto 80 Costituzioni su 194 hanno esplicitamente incorporato la cultura. La stessa frase ricorrente in gran parte della dottrina e della giurisprudenza per cui la cultura può trovare riconoscimento «sempre se non viola diritti fondamentali», porta a ritenere che la cultura sia sempre più spesso percepita come potenziale antitesi dei diritti fondamentali[19].
Anche il diritto penale si è arenato sulla possibilità di prevedere un’eccezione culturale e se fondarla sull’esercizio del diritto o su altri elementi. In pochissimi ordinamenti l’argomento culturale ha trovato riconoscimento a livello di codice penale[20]. Uno di questi è il Perù che all’art. 15 cp rubricato «errore di comprensione culturalmente condizionato» stabilisce che: «colui che per la sua cultura o costumi commette un fatto punibile senza poter comprendere il carattere delittuoso del suo atto o agire conformemente a tale comprensione, sarà esente da responsabilità. Quando per la stessa ragione, tale possibilità sia diminuita si attenuerà la sanzione»[21]. Il riconoscimento dell’esimente avviene dentro la categoria dell’errore e non dell’esercizio del diritto. In Canada, Paese multiculturale per eccellenza, l’idea di introdurre un’esimente culturale è stata esclusa nel 1994. Negli Stati Uniti, Paese che per primo ha visto i giudici accogliere forme di cultural defense, non esiste alcun riconoscimento esplicito di questa. Lo stesso dicasi per i Paesi europei. Ciò non ha impedito ai giudici di tener conto dell’argomento culturale, seguendo altri canali– le circostanze attenuanti o clausole generali quali il giustificato motivo – ma sicuramente dal diritto penale provengono forti dubbi alla concettualizzazione della cultura come diritto fondamentale.
La teoria della cultura come diritto fondamentale è sotto accusa anche da parte del femminismo giuridico, che negli anni ’90 ha cominciato a rompere il matrimonio troppo frettoloso contratto con il multiculturalismo. Il celeberrimo saggio di Susan Moller Okin Is multiculturalism bad for women?[22] poneva il problema dell’intrinseca incompatibilità tra diritti culturali e diritti delle donne[23], ma il dibattito è poi andato ben oltre proponendo l’idea che la configurazione di molti conflitti non dovesse avvenire più sub specie cultura, bensì sub specie patriarcato[24]. Il diritto internazionale, seguendo il femminismo giuridico, sta avviando un processo di de-culturalizzazione di diverse pratiche culturali che non vengono più presentate come tali, ma come espressione del patriarcato. L’ultimo caso sono le mutilazioni genitali femminili, che sono state definite dalla risoluzione A/Res/67/146 del 20 dicembre 2012 emessa dall’Assemblea generale delle nazioni unite come «violenza di genere», con un conseguente obbligo di divieto in tutte le loro forme, anche le più lievi, in quanto umilianti per le donne.
Per tutte queste ragioni a me pare che la teoria dei diritti fondamentali sia insufficiente a fondare una dogmatica della diversità convincente e di reale aiuto per i giudici ed, infatti, questi tendono a configurare i conflitti multiculturali in altri termini.
2.6. La configurazione dei conflitti multiculturali in Italia dentro la teoria del pluralismo giuridico: la cultura come consuetudine esterna
Allo stato attuale, in Italia, è la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici che si rivela la cornice entro cui i giudici spiegano i conflitti multiculturali. Non mi risulta alcuna sentenza in cui i giudici menzionino la cultura come diritto soggettivo. Il dato è comprovato, a contrario, dal fatto che quando vengono in rilievo pratiche religiose il giudice costruisce il conflitto come un conflitto tra diritti e, se siamo in un processo penale, usa l’esimente dell’art. 51 cp dell’esercizio del diritto/libertà religiosa. Sicuramente tale differenza argomentativa a seconda che il conflitto sia religioso o stricto sensu culturale, senza cioè alcuna componente religiosa, deriva dall’assenza esplicita nella nostra Costituzione di diritti culturali. Ma il fatto che nessun giudice abbia mai pensato di usare le fonti sovranazionali per teorizzare la cultura come diritto soggettivo prova che la dogmatica della diversità in Italia si orienti decisamente verso la teoria del pluralismo giuridico che porta a trattare la cultura come consuetudine, come fonte esterna. D’altra parte, tale configurazione non è nuova: se la cultura ha fatto ingresso nel diritto positivo ufficialmente nel 1966 come diritto umano, i primi studi sui conflitti multiculturali sono, invero, molto più risalenti e i primi tentativi di tracciarne una ricostruzione dogmatica si collocavano all’interno di un’altra teoria: quella del pluralismo giuridico.
In un lavoro apparso nel 1938 negli Stati Uniti, Thorsten Sellin[25] descrive alcuni tra i primi casi di conflitti multiculturali che, peraltro, riguardano quasi tutti immigrati italiani, come quello occorso nel New Jersey nel 1930 di un siciliano il quale, all’atto di venire arrestato per aver ucciso il seduttore sedicenne della figlia, mostra tutta la sua sorpresa dal momento che aveva semplicemente difeso l’onore della sua famiglia secondo la tradizione. Nel notare che in Sicilia tale comportamento era non soltanto ammesso, ma addirittura doveroso, Sellin formula la sua teoria sui conflitti prodotti dal fenomeno migratorio negli Usa descrivendoli, in piena linea con Santi Romano, come conflitti normativi, antinomie tra regole appartenenti ad ordinamenti giuridici diversi. Secondo Sellin, l’immigrato è schiacciato tra due norme di condotta contrapposte ed è portato a scegliere le norme del proprio ordinamento culturale in quanto più vincolanti, più condivise o, in certi casi, le sole conosciute.
Anche gli studi italiani si rivelano un contributo importante alla costruzione di una dogmatica della diversità nell’ambito del pluralismo giuridico. Nel lavoro di Antonio Pigliaru apparso nel 1959, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, si spiega perché la vendetta che aveva luogo nel contesto del fenomeno definito come «banditismo sardo» non poteva essere equiparata ad un qualsiasi sistema criminale[26]. È tale modo di ragionare che fonda oggi la categoria dei «reati culturalmente motivati»[27] come distinta dai reati compiuti per mera devianza individuale.
Questo rapido affresco ci consente di concludere affermando che attualmente una costruzione dogmatica della diversità corre su un’ambiguità e situazione irrisolta: da un lato la cultura è un diritto umano ed è quindi stata incorporata negli ordinamenti statali come dotata di un valore (pur con tutte le incertezze dell’applicazione di Carte dei diritti sovranazionali, quali il Patto del 1966, nel contesto della tutela multilivello dei diritti); dall’altro lato, la cultura si compone di pratiche che difficilmente sono configurabili come diritti umani o fondamentali, ma meglio si spiegano con la teoria del pluralismo giuridico, come norme esterne.
Teoria dei diritti fondamentali e teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici sono oggi le due costruzioni dogmatiche entro le quali si inquadrano i conflitti multiculturali: ma la loro compenetrazione è molto difficile e crea per il giudice una situazione antinomica: da un lato la cultura è un diritto o, comunque, un principio di rilievo costituzionale, dall’altro è foriera di norme esterne potenzialmente confliggenti con il suo obbligo di soggezione alla legge.
I problemi descritti non segnano certo una resa nel tentativo di costruire una dogmatica delle diversità. Nuove strade sono state già aperte e, a mio avviso, si rivelano feconde.
Una è percorsa da Mario Ricca attraverso l’idea di interculturalismo[28] che, andando oltre sia alla teoria dei diritti fondamentali che del pluralismo giuridico, suggerisce che l’immissione di una visione del mondo altra non implichi tanto una scelta conflittuale tra una pratica o l’altra, bensì una mutua trasformazione. Sicuramente i fermenti sono tanti e una nuova più consona dogmatica della diversità è in cantiere. Tuttavia, nel frattempo, i giudici, chiamati a risolvere conflitti multiculturali ad un ritmo progressivamente crescente, si sono dovuti sforzare di trovare soluzioni proprie.
Se la dogmatica della diversità si trova per il momento all’impasse, è al diritto giurisprudenziale, alla topica dei conflitti multiculturali che ci si può rivolgere, per vedere se da essa arriva qualche risposta.
3. La topica della diversità culturale tra approccio case by case ed emersione dei test culturali
Tornata all’attenzione della scienza giuridica dopo l’oblio in cui era caduta durante tutta la fase matematizzante del diritto della Giurisprudenza dei Concetti, della Dogmatica e del Positivismo giuridico, la topica è quel modo di intendere il diritto come arte di risolvere casi concreti, attraverso un ragionare per problemi, piuttosto che per sistemi astrattamente dedotti da una norma. Fondata sull’idea che il ragionamento giuridico non abbia una struttura matematica, deduttivo-sistematica, bensì pratica, valutativa, orientata al caso concreto, nella visione di Theodor Viehweg[29], a cui forse per primo si deve il rilancio del concetto[30], la topica però non coincide esattamente con l’approccio case by case, ma è la scienza che cerca i topoi, i luoghi comuni al processo dialettico, ossia i punti in cui c’è accordo. Quando Viehweg, infatti, scrive: «c’è contrasto tra il pensare problematicamente ed il pensare sistematicamente. Non si può tuttavia disconoscere che fra problema e sistema sussistono delle essenziali implicazioni», l’autore si riferisce al fatto che anche l’approccio topico possa fondarsi su elementi condivisi e non significhi occasionalismo, incertezza ed eterogeneità nelle decisioni.
Il fatto che i giudici si siano trovati in gran parte soli di fronte ai primi conflitti multiculturali, e tutt’oggi lo siano (fatti salvi gli interventi del legislatore rispetto ad alcune specifiche pratiche culturali), ha determinato in qualche modo un risveglio di questa tradizione. Vista la ricchezza di pratiche culturali che sono state sottoposte al giudice antropologo, al principio si è prodotta una certa eterogeneità nelle soluzioni: tuttavia, con il tempo, gli esercizi topici compiuti dai giudici, italiani e comparati, hanno prodotto degli argomenti condivisi. È a questi che a mio avviso si dovrebbe guardare per cercare di elaborare una topica-sistematizzata che possa aiutare i giudici a comporre i conflitti.
Allo stato attuale è possibile parlare di due versanti della topica multiculturale: da un lato, può riscontrarsi che alcuni argomenti maturati dai giudici nei diversi ordinamenti sono ricorrenti; dall’altro, è dato osservare l’emersione dei test culturali e religiosi.
3.1. I topoi comuni alla risoluzione dei conflitti multiculturali
L’idea che i conflitti multiculturali dovessero essere affrontati con un approccio caso per caso si è affacciata da subito: venendo in gioco una categoria così ampia come quella di cultura, è apparso da subito evidente che la categoria diritti culturali in sé andava riempita di tutte le miriadi di pratiche, comportamenti, segni che operano dentro una cultura.
Analizzando comparativamente i modi in cui i giudici hanno declinato l’argomento culturale è possibile evidenziare l’emersione di diversi topoi argomentativi generalmente usati in quanto si rivelano persuasivi nei riguardi dell’uditorio del giudice e intercettano il senso comune.
Uno è quello del tempo di permanenza nella cultura ospite. Sviluppato soprattutto in Inghilterra, ma ripreso spesso anche dai giudici italiani e di altre giurisdizioni, questo topos accerta da quanto tempo la persona abita nello Stato ospite per capire essenzialmente se abbia potuto apprenderne le regole. Tale topos si inquadra nell’idea della pluralità degli ordinamenti giuridici: la cultura è considerata come una regola che il soggetto ineluttabilmente segue, spesso perché non ne conosce altre.
Un secondo topos che ricorre è quello dell’agente modello. Spesso i giudici, per verificare che l’argomento culturale non sia speso strategicamente dalle parti, si interrogano su come si sarebbe comportata la persona media appartenente a quella cultura: riescono in questo modo a meglio distinguere i comportamenti autenticamente culturali da quelli che sono mere devianze o condotte individuali sproporzionate.
Un terzo topos è quello del livello di obbligatorietà della pratica culturale. I giudici tendono a dare rilievo ad una pratica seguendo una gradazione che distingue tra pratica essenziale, senza la quale il gruppo scomparirebbe, pratica obbligatoria e pratica meramente facoltativa.
Un quarto topos è quello che potremmo definire «argomento di genere» o «anti-patriarchale» che vede i giudici rigettare l’argomento culturale quando sono in gioco pratiche che compromettono l’uguaglianza tra uomo e donna.
Un quinto topos è quello del secundum comparationis o dell’equivalente culturale con cui il giudice tende a presentare un comportamento analogo alla cultura maggioritaria per verificare se è disciplinato in condizioni di eguaglianza con la pratica minoritaria.
Va, tuttavia, segnalato che questi topoi non vengono presi in considerazione in modo costante e sistematico. Per evitare che la soluzione casistica creasse una situazione di incertezza, in ambiente nord-americano sono nati i primi test culturali con cui si è cercato di procedimentalizzare l’iter argomentativo del giudice in una serie di passaggi. Creati dalle Corti supreme, tali test si sono imposti alle Corti di merito. È questo, a mio avviso, il versante più interessante della topica della diversità.
3.2. I test culturali e i test religiosi esistenti
Il primo test culturale recante tale nome è stato elaborato in Canada nel 1996[31]. Esso serve a concretizzare i diritti culturali dei nativi riconosciuti all’art. 35[32] della Costituzione canadese.
Il test canadese si compone dei seguenti passaggi argomentativi:
- Individuazione della pratica culturale.
- La pratica è «essenziale e integrale» per la sopravvivenza culturale del gruppo?
- La pratica è «distinta» rispetto ad altre della maggioranza?
- La pratica esisteva prima dell’arrivo degli europei (pre-contact test)
Il test in sé è stato molto criticato e non può certo dirsi la soluzione ideale per i popoli indigeni, in quanto è molto difficile da essere adempiuto per intero, inoltre è stato applicato in modo spesso formalistico dalla Corte suprema. Tuttavia, a me pare interessante l’idea di un modo ricorrente di impostare tutti i conflitti multiculturali sollevati dai nativi. Inoltre, attraverso il test, la Corte suprema ha cercato di organizzare e indirizzare il ragionamento del giudice. Ad esempio, è molto importante e utile l’introduzione della prima domanda: prima di essa i nativi si presentavano ai giudici usando l’argomento generico «è la mia cultura»; dal 1996 invece hanno l’onere di descrivere in modo accurato la pratica.
Lo strumento del test culturale è usato anche dal Comitato dei diritti umani Onu che nelle cause che gli si sono presentate in violazione dell’art. 27 del Patto sui diritti civili e politici del 1966 ha standardizzato le seguenti domande:
- Individuazione della pratica culturale.
- La pratica è «essenziale» per la sopravvivenza culturale del gruppo?
- Ragionevolezza del limite imposto dallo Stato.
- La minoranza è stata consultata?
- Graduazione tra distruzione o mera alterazione della pratica.
Anche il diritto comparato, come quello italiano, prevede che i conflitti multiculturali che sono anche religiosi seguano strade diverse rispetto a quelli soltanto culturali. Anche in questo campo in Nord-America esistono appositi test religiosi, separati e distinti rispetto a quelli culturali. In generale, i test religiosi che sono molto più facili da essere adempiuti, viceversa i test culturali richiedono standard molto più elevati affinché la pratica possa trovare protezione.
Il più celebre test religioso è quello esistente negli Stati Uniti, noto come Sherbert Test, forgiato nel 1963[33]. Il test impone i seguenti passaggi argomentativi:
- Individuazione della pratica religiosa.
- Quanto è sincero il soggetto?
- C’è una compressione significativa di una pratica obbligatoria?
- Esiste un interesse cogente statale alla compressione della pratica (compelling interest test)?
Sulla falsa riga di questo test la Corte suprema canadese ha nel 2004[34] forgiato un suo test religioso che prevede le seguenti domande:
- Individuazione della pratica religiosa.
- Limitazione non banale (non trivial burden) e possibili alternative per il soggetto.
- Quanto è sincero il soggetto?
- La pratica arreca un danno?
- Bilanciamento con altri diritti.
- La limitazione è ragionevole in una società democratica?
I test elaborati dalle Corti nord-americane e sovranazionali costituiscono, a mio avviso, un contributo importante che potrebbe fornire al giudice italiano chiamato a risolvere i conflitti multiculturali una guida certa, che eviti oscillazioni giurisprudenziali. Tuttavia, così come formulati essi presentano diverse incongruenze, in parte derivanti dal fatto che vanno contestualizzati e compresi nel proprio ordinamento giuridico di produzione, in parte derivanti dal fatto che trascurano alcune domande importanti.
3.3. I test culturali suggeriti in dottrina
Ai test di conio giurisprudenziale, vanno aggiunte le riflessioni che la dottrina ha effettuato. Diversi autori hanno richiamato l’importanza di non abbandonare a sé stessa l’argomentazione giudiziale, ma di guidarla attraverso alcuni punti ricorrenti.
Alison Dundes Renteln[35] ha suggerito nel 2004 il seguente test per le Corti americane, allo scopo di evitare conclusioni troppo frettolose e inaccurate da parte dei giudici:
- È l’attore o il convenuto membro di un determinato gruppo etnico?
- Il gruppo ha quella tradizione?
- L’attore o il convenuto è stato influenzato da quella tradizione quando ha posto in essere la sua condotta?
La canadese Avigail Eisenberg nel 2009[36] ha suggerito che per valutare se una pratica culturale dovesse avere o meno riconoscimento il giudice e il legislatore dovessero tenere conto della presenza più o meno forte di tre condizioni, che l’autrice traduceva in queste tre domande:
- Quanto la sopravvivenza culturale del gruppo è a rischio (jeopardy condition)?
- La pratica arreca un danno (harm condition)?
- In che modo la pratica è legittimata e condivisa dal gruppo (validation condition)?
Anche in Italia, la dottrina penalistica con Cristina De Maglie[37] nel 2010 ha suggerito queste preliminari domande:
- Il reato è stato compiuto per un motivo culturale?
- Vi è coincidenza di reazione con l’agente modello del gruppo?
- La pratica è distinta da altre analoghe della maggioranza (divario tra culture)?
Osservando con uno sguardo d’insieme i vari test elaborati a livello giurisprudenziale e dottrinale si osserva che ciascuno di essi è in sé incompleto, ma insieme essi raccolgono gli argomenti più persuasivi emersi nei diversi esercizi topici compiuti dai giudici. È, dunque, possibile ipotizzare un test ancora più dettagliato che riesca a combinare il meglio dei test esistenti.
4. Una proposta di test culturale per i giudici italiani
Il test culturale che propongo è un modo per procedimentalizzare l’iter argomentativo del giudice, una sorta di guida per tappe obbligate verso la decisione, che incorpora alcuni standard antropologici dentro il processo mettendoli in dialogo con le caratteristiche proprie del ragionamento more juridico e che, più in generale, aspira a rendere certi i passaggi argomentativi da affrontare. In questo senso, il test suggerito combina sia elementi «tecnici» strettamente pertinenti al ragionamento more antropologico, sia elementi «ponderativi» più tipici del ragionamento more juridico. I due elementi sono distribuiti nella seguente sequenza di passaggi logico-argomentativi che, a mio avviso, ogni giudice dovrebbe percorrere quando si trova di fronte ad un conflitto multiculturale:
- La categoria «cultura» è utilizzabile?
- Descrivere la pratica culturale e le caratteristiche del gruppo.
- Inserire la singola pratica nel più ampio sistema culturale da cui proviene.
- La pratica è essenziale alla sopravvivenza del gruppo, obbligatoria o facoltativa?
- Quanto la pratica è condivisa dal gruppo o è contestata?
- Come si comporterebbe l’agente modello di quella cultura?
- Quanto è sincero e coerente il soggetto che rivendica la pratica?
- Il gruppo è discriminato nella società?
- Esiste un’equivalente culturale nella cultura della maggioranza?
- La pratica arreca un danno?
- La pratica perpetua il patriarcato?
- Che impatto ha l’altrui pratica sulla cultura ospite?
- Che buone ragioni presenta la minoranza per continuare la pratica? Il criterio della scelta di vita ugualmente valida.
Le prime sei domande possono definirsi come la parte oggettiva, antropologica del test. Per rispondere ad esse è opportuno che il giudice si avvalga delle competenze dell’antropologia. Di seguito proverò a dimostrare il perché è imprescindibile che in ogni conflitto multiculturale esse vengano poste e affrontate. Essendo quella dei conflitti multiculturali una tematica nuova, è possibile che al giudice che per la prima volta si accosti ad un conflitto sfuggano questioni che per l’antropologo sono scontate.
Ignorando la prima domanda del test, non è stato raro in Italia assistere ad un errato approccio pan-culturalista del giudice, che ha trattato come culturale qualsiasi comportamento per il solo fatto che fosse posto in essere da uno straniero[38]. Nel caso di due cittadini pakistani accusati di violenza sessuale e difesi dall’avvocato con l’argomento culturale che fossero incapaci di capire il disvalore del fatto visto che in Pakistan le donne sono trattate come oggetti e che lo stupro non è percepito come un fatto grave, il giudice ha respinto l’argomento culturale con questa contro-argomentazione: «il criterio fissato dall’art. 133 c. 2, n. 4 cp ha di contro valenza esattamente contraria, poiché sta a significare che tanto più le condizioni di vita individuale, familiare, sociale rispecchiano un sistema di regole antitetiche a quelle cui si ispira la tutela penale, tanto più deve essere severa la sanzione»[39]. Ma così argomentando il giudice è caduto in una fallacia pan-culturalista, anziché dire, più correttamente, che la cultura pakistana non giustifica la violenza sessuale e che, quindi, non siamo affatto di fronte ad un reato culturalmente motivato, ma ad un reato comune, frutto della devianza individuale di quei due soggetti. La prima domanda del test serve a evitare, da un lato, usi strategici della cultura da parte degli avvocati e, dall’altro, motivazioni stereotipanti da parte dei giudici.
Il secondo passaggio del test – individuazione della pratica culturale nel dettaglio – è mutuato dal test culturale canadese con cui, come visto, la Corte suprema ha imposto che il ricorso all’argomento culturale non possa mai essere generico, evocativo della cultura tout court, ma debba piuttosto riferirsi ad una singola pratica culturale accuratamente descritta. Anche in questo caso, l’apporto dell’antropologia appare indispensabile. Ancora una volta, un esempio di come il giudice italiano, in assenza di un preciso iter logico da seguire sia caduto in errori, è utile a capire l’importanza di un test. Nella sent. N. 45516/2008 la Corte di cassazione ha annullato con rinvio una sentenza della Corte d’appello di Santa Maria Capua Vetere, che condannava una madre Rom per il reato di riduzione in schiavitù in quanto portava il figlio a mendicare, imponendo di applicare il reato meno grave di maltrattamenti in famiglia. Tra le motivazioni addotte dalla Corte di cassazione vi era quella secondo cui il manghel (la richiesta di elemosina dei Rom ai Gadgè ossia a tutti i non-Rom) sarebbe una pratica culturale dei Rom. Tuttavia, ad immediato ridosso della sentenza gli stessi Rom respinsero al mittente l’affermazione, sostenendo che loro non mendicavano per cultura, ma per questioni economiche. Dicendo i Rom mendicano per cultura, inconsapevolmente il giudice, che pure agiva in buona fede contro atteggiamenti di criminalizzazione dei Rom e cercava una soluzione più equa, ha aperto un solco tra maggioranza e minoranza. In questo solco il legislatore è intervenuto pochi mesi dopo e con la legge n. 94/2009, in dichiarata opposizione alla sentenza ritenuta troppo indulgente e violatrice dei «diritti dei bambini» ha introdotto l’art. 600 octies cp, che inasprisce le pene per i genitori che portano i bambini a mendicare. Un giudice antropologo più accorto, avrebbe potuto individuare altre pratiche culturali che pure soggiacciono al comportamento: ad esempio la diversa concezione dell’infanzia per i Rom, il fatto che le madri Rom usano portare con sé i propri figli ovunque vadano e che considerino un maltrattamento la separazione del bambino dalla madre cui le donne Gadgè si sottopongono sin dai primi mesi mandando i loro bambini all’asilo[40]. In tal modo, si sarebbe favorito un dialogo interculturale tra i due modi di concepire l’infanzia, che chiamava in causa anche la cultura italiana, anziché dire inopinatamente che mendicare fa parte della cultura Rom.
Il terzo punto del test – inserire la singola pratica nel più ampio sistema culturale – si fonda su un altro importante assunto antropologico volto a guardare le culture come sistemi organici, tendenzialmente coerenti o, comunque, con livelli di interconnessione tra le singole pratiche. Così come soltanto un giurista inesperto leggerebbe una disposizione isolandola dalle altre, per un antropologo è un grave errore isolare una singola pratica dal contesto in cui si svolge. A mio avviso, questa domanda del test aiuterebbe a meglio contestualizzare il velo islamico. Sarebbe, infatti, facilmente osservabile che il fatto che le donne vadano coperte nell’islam tradizionale si accompagna ad analoghe forme di vestire maschili: vesti larghe che evitano di vedere le forme del corpo, copricapi, braccia e gambe coperte sono una prerogativa anche degli uomini nell’islam tradizionale. La contestualizzazione dell’abbigliamento femminile, mostra come la lettura occidentale del velo islamico come strumento patriarcale, oppressivo delle donne non sia accurata. Come osservato dall’antropologa Laura Nader[41], in Amazzonia donne e uomini sono nudi, nel mondo islamico sono interamente vestiti, mentre nel mondo occidentale si registra una asimmetria per cui gli uomini risultano più coperti delle donne: dei diversi codici di abbigliamento è proprio quello occidentale che appare più asimmetrico. In questo senso, il test è un interessante specchio per l’occidente, in un’ottica interculturale di mutua trasformazione.
La quarta domanda del test relativa a quanto una pratica è obbligatoria, è al confine tra ragionamento more antropologico, interessato a esaminare quali pratiche sono essenziali alla sopravvivenza culturale di un gruppo[42] e quello more juridico attento all’aspetto ponderativo e chiamato, dunque, a mettere a confronto ragioni della maggioranza e della minoranza, a soppesare, nella ben nota bilancia, la posta in gioco del riconoscimento.
La quinta domanda del test volta a chiedersi se la pratica è in fase di contestazione all’interno dello stesso gruppo culturale è di nuovo una domanda di confine: l’antropologo sa che le culture evolvono e possono subire cambiamenti, anche repentini; il suo compito è monitorarli e spiegarne le ragioni. Al diritto, questa domanda dice qualcosa di diverso: come scienza che indaga i valori della convivenza e protegge il principio personalista, se risultasse che la pratica è contestata il giudice capirebbe che questi valori sono in via di ridefinizione e che forse la costruzione dell’identità personale non si svolge più sempre sotto gli stessi riferimenti di un tempo, attenuandosi pertanto le esigenze della loro protezione.
La sesta domanda, relativa all’agente modello culturalmente situato, fornisce al giudice un’informazione cruciale che soltanto l’antropologo può dare: essa serve ad evitare che il giudice poco accorto attribuisca l’etichetta di cultura a quello che in realtà è un comportamento deviante o individuale e isolato. Il celebre caso di Hina Saleem uccisa dal padre perché era andata a vivere con un italiano ha visto i giudici porsi opportunamente proprio tale domanda: da subito, la comunità pakistana residente in Italia aveva evidenziato che i motivi che potevano portare un padre pakistano ad uccidere così brutalmente la figlia erano altri e non questo, tutto sommato di lieve entità. In ragione di ciò il giudice ha motivato sostenendo che l’atteggiamento di Mohammed Saleem era non un reato culturalmente motivato, bensì frutto di un «patologico e distorto rapporto di possesso parentale»[43] condannando l’uomo a trent’anni di reclusione.
Queste prime sei domande del test necessitano del supporto dell’antropologo. Se il test culturale è proposto come una tecnica argomentativa in grado di innervare il ricorso all’argomento culturale di maggiore certezza, emerge, infatti, che il giudice non può rispondervi in solitario. Si pone, dunque, il problema di che spazio riservare all’esperto culturale e di come immettere le sue valutazioni nel processo.
4.1. La prima parte del test: il dialogo tra diritto e antropologia e l’esperto culturale nel processo
Sia il codice di procedura civile che quello di procedura penale «affidano al giudice la decisione di avvalersi di ‘esperti’ per accertare i fatti dedotti nel processo, quando non ritenga sufficiente la comune esperienza, l’esperienza cioè dell’uomo medio, di cui egli stesso è qualificato esemplare»[44]. Nelle società attuali, invero, l’ossequio del giudice verso la scienza e, in generale, verso le valutazioni tecniche è aumentato, ma ciò, almeno in Italia, non sembra riguardare la conoscenza antropologica. Non sono pochi, infatti, i casi in cui il giudice chiamato a risolvere un conflitto multiculturale non avverte la necessità di far ricorso a questo sapere tecnico, ma sente, piuttosto, di potersi fidare del senso comune, della conoscenza generale o della propria, spesso maturata in modo occasionale.
Tale atteggiamento svalutativo verso l’antropologia deriva da varie ragioni.
La prima è l’appartenenza di questa al nucleo delle scienze sociali[45]. Ciò la espone al pregiudizio a favore delle scienze naturali, dure o vere. In tal senso, se un giudice sente di non poter prescindere da una perizia medica quando deve verificare le ragioni di un decesso, psicologica quando deve valutare lo stato di infermità mentale o ingegneristica quando deve accertare le ragioni per cui un ponte è crollato, non è raro che senta di poter «fare da sé» quando deve decidere su un conflitto multiculturale.
Una seconda ragione che rende l’antropologia una scienza di serie B, rispetto ad altre che hanno conquistato un loro prestigio ormai assodato in sede processuale, risiede in questioni organizzative interne alla disciplina in Italia. Le norme che regolano il dialogo tra saperi tecnici e giudice sono, com’è noto, gli artt. 61-64 cpc[46] e gli artt. 220-232 e 508 cpp.[47] Esse sono costruite in modo tale da non precludere il dialogo con l’antropologia a priori, tuttavia, gli antropologi italiani non sono dotati di un apposito albo professionale e ciò rende più gravoso per il giudice individuarli.
Nel caso del processo penale, va poi rilevata una risalente – anche se ormai criticata e in via di superamento – interpretazione dell’art. 220 cpp, c. 2, che si riteneva vietare il ricorso a perizie antropologiche. La dottrina penalistica ha obiettato a tale interpretazione rilevando come il divieto si riferisce ad accertamenti di tipo lombrosiano e non può ritenersi impedire l’analisi di un parametro extra-sistemico quale è la cultura[48] come indagato dall’antropologia. Tuttavia, le resistenze permangono e ancora oggi è generalmente tramite l’avvocato diligente e attento, più che tramite il giudice, che il parere di un antropologo o più in generale di un esperto culturale riesce ad entrare nel processo e a illuminare la pratica culturale (o religiosa) in esame[49]. Significativo in questo senso è il caso relativo al kirpan, il coltello rituale che i Sikh indossano perché obbligatoriamente prescritto e che ha portato ad una denuncia per porto abusivo d’arma. Grazie ad una relazione stilata dal Consolato indiano, richiesta e presentata al processo dall’avvocato difensore, il giudice ha potuto argomentare rilevando le caratteristiche del kirpan, la sua natura rituale e quindi non offensiva, la sua obbligatorietà, permettendone così l’uso[50]. È probabile che senza questa consulenza culturale il giudice non sarebbe stato in grado di conoscere la valenza non violenta del kirpan.
Se una figura esperta è in linea generale auspicabile, è anche ammissibile uno studio indipendente e a cura del giudice laddove la conoscenza della pratica culturale, o per la messe di casi già decisi o per la vicinanza storica del gruppo, sia certa. Non a caso in alcuni ordinamenti, come quello canadese e britannico, accanto alla possibilità di ricorrere ad esperti culturali, vi sono manuali che descrivono i tratti culturali dei principali gruppi di immigrati, manuali che consentono ai giudici anche di operare autonomamente nello studio delle pratiche, soprattutto quelle più ricorrenti. Può anche accadere che il dibattito sovranazionale intorno ad una pratica culturale abbia già prodotto un’approfondita conoscenza intorno ad essa. La sentenza della Cassazione civile sez. I, n. 1843/2015[51] che decide un caso di kafalah è un interessante esempio in tal senso. Il giudice in questo caso, infatti, ha potuto, pur in assenza di una perizia culturale, avvalersi di una conoscenza e di un consensus raggiunti a livello internazionale. Osserva la Suprema corte: «la letteratura giuridica e sociologica sulla kafalah è ormai ampia”; quindi passa ad una descrizione accurata e dettagliata della pratica, spiegando appunto come quest’ultima sia una pratica culturale traducibile come affidamento, generalmente intra-familiare, diffusa nei Paesi islamici e precisando che non ha niente a che vedere con l’apparente equivalente culturale della adozione: «l’istituto giuridico della kafalah trova la propria origine nel divieto di adozione che accomuna gli ordinamenti giuridici ispirati dall’insegnamento del Corano». Essendo, infatti, nel diritto islamico proibita l’adozione, la kafalah risolve problemi di indigenze familiari, più o meno permanenti, consentendo che i genitori naturali affidino il bambino a terzi, generalmente parenti. Questa conoscenza approfondita e dettagliata consente al giudice di garantire l’ingresso di un bambino affidato in kafalah allo zio marocchino con cittadinanza italiana, respingendo l’argomento del Ministero secondo cui la kafalah avrebbe consentito ad altri cittadini italiani di aggirare le norme sull’adozione.
Anche la vicinanza spaziale e storica di un gruppo, magari da lungo tempo presente nel territorio nazionale, spesso permette al giudice di operare in autonomia: ad esempio, in relazione alla circoncisione ebraica[52] il giudice può avere facile accesso alle caratteristiche di questa pratica anche senza l’ausilio di un antropologo. Un caveat però merita di essere sollevato affinché la vicinanza non porti il giudice a decidere con troppa sicumera: infatti, non sempre la prossimità e la familiarità con il gruppo sono una garanzia, come visto nel caso del manghel dei Rom erroneamente definito dalla Corte di cassazione come pratica culturale.
Il giudice, dunque, dovrebbe essere consapevole di un dovere generale di approfondire lo studio di un comportamento quando si trova di fronte ad un soggetto proveniente da contesti culturali altri, inizialmente autonomamente[53] e, se sente di non aver raggiunto sufficiente conoscenza, tramite una perizia culturale.
Se le prime sei domande del test immettono nel processo le competenze dell’antropologia, le restanti sette vogliono assicurare che il conflitto multiculturale sia risolto da un giudice antropologo che, come evidenziato da Vladimiro Zagrebelsky[54], deve restare in primo luogo giudice e quindi fedele alla sua disciplina, per quanto in dialogo con un’altra.
4.2. La seconda parte del test: le differenze tra ragionamento more anthropologico e more juridico
La seconda parte del test proposto ha la funzione di non affidare interamente la risoluzione di un conflitto multiculturale alle valutazioni tecniche emergenti dall’antropologia. A fronte di un giudice che si fa antropologo improvvisato o di un giudice che ignora la componente culturale di una controversia esiste, infatti, anche il giudice che soccombe interamente al magnetismo esercitato dall’antropologia e che, una volta verificata la componente culturale di una pratica, le dà assoluta rilevanza, omettendo altre valutazioni che sono ineludibili, caratterizzando in radice il ragionamento more juridico. Quest’ultimo presenta delle significative differenze rispetto a quello antropologico: componente deontica, isonomia processuale delle parti, ricerca di un equo assetto della convivenza, valutazione degli impatti futuri del riconoscimento, logica ponderativa sono tutti aspetti che verrebbero omessi se il giudice si fermasse alla prima parte del test e una volta verificato che una pratica è effettivamente culturale, che è obbligatoria, che la parte ha agito come il perfetto agente modello etc., le desse riconoscimento sic et simpliciter. Il giudice non deve essere relativista, ma contribuire a delineare i nuovi valori della convivenza in un contesto multiculturale. Ciò può essere fatto valorizzando nella risoluzione del conflitto quel tipo di valutazioni che sono prettamente giuridiche.
Per quanto concerne la componente deontica del ragionamento giuridico si tratta di una caratteristica che lo caratterizza rispetto a tutte le altre scienze sociali e quindi anche all’antropologia[55]. Quest’ultima è una scienza descrittiva, che analizza i modi con cui gli esseri umani convivono e si adattano all’ambiente senza alcun atteggiamento ispirato al dover essere. Non a caso la cifra che caratterizza il ragionamento antropologico è il relativismo. Ogni cultura può essere compresa soltanto indossando le lenti culturali dell’altro. Per l’antropologia, la cultura è un processo adattativo alle condizioni naturali e sociali che si sviluppano in un determinato momento storico: in questo senso anche pratiche estreme come la vendetta o il cannibalismo possono essere antropologicamente comprese e giustificate in quanto utili a mantenere un certo assetto che permette a quel gruppo umano la sopravvivenza. Viceversa, per il diritto, la componente del dover essere è cruciale e tali tipi di pratiche non possono essere accettate, neanche se essenziali alla sopravvivenza culturale di un gruppo. Le domande n. 10 del test – la pratica culturale arreca un danno? – e n. 11 – la pratica perpetua il patriarcato? – servono ad immettere nella valutazione la componente deontica del diritto.
Una seconda caratteristica che è cruciale del ragionamento giuridico è la posizione di isonomia processuale di entrambe le parti. Per soddisfarla ho introdotto nel test diverse domande volte a dar voce ad entrambe le posizioni (dell’immigrato e della cultura ospite) e ad evitare che una parte prevalga sull’altra. La domanda n. 7 – quanto è sincero il soggetto? – serve ad evitare usi strategici dell’argomento culturale: se la società riconosce alla cultura un valore, chi la spende davanti al giudice non deve abusarne, inventando pratiche culturali fasulle o pretendendo un’attenuante quando non è effettivamente un seguace di quella regola culturale. Anche la domanda n. 8 – il gruppo è discriminato nella società – serve a dare al giudice un’informazione che può contribuire a ristabilire una situazione di svantaggio. La Corte di cassazione, nella sentenza n. 45516/2008 sul manghel dei Rom, si è infondo posta questa domanda quando ha scritto che non si poteva «criminalizzare» il fatto che i Rom mendicassero: il giudice stava cercando di proteggere la minoranza, ma in quel caso il fatto di non aver rispettato le altre domande del test, ha creato una sentenza boomerang per la stessa minoranza, che ne ha aggravato la situazione con l’inasprimento delle pene per il manghel con minori.
Un altro modo con cui il test cerca di garantire l’isonomia processuale è chiamare entrambe le parti a dimostrare le ragioni per cui vogliono conservare o reprimere una pratica. Il giudice deve sia verificare «che impatto ha l’altrui pratica sulla cultura ospite» (domanda n. 12), sia quali «buone ragioni presenta la minoranza culturale per continuare la pratica» (domanda n. 13). È in qualche modo quello che ha fatto la Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza S.A.S vs France del 1 luglio 2014, quando ha detto che la donna islamica aveva buone ragioni per indossare il burqa, ma su queste doveva prevalere il diritto dei francesi a «vivere insieme» e la loro concezione della fraternità repubblicana. Una sentenza che non condivido, ma che sicuramente dà isonomia alle parti in quanto riflette tutti gli argomenti nella motivazione.
Infine, un’altra domanda che garantisce l’isonomia processuale è la n. 9 che impone al giudice «la ricerca dell’equivalente culturale nella cultura ospite»: questa è una operazione concettuale tipica dell’antropologia che procede ad operazioni di traduzione culturale, ma nel test proposto assume un uso prettamente giuridico. L’idea è che il giudice, spiegando appunto che l’equivalente della kafalah è l’affidamento e non l’adozione, l’equivalente delle mutilazioni genitali femminili può essere la chirurgia plastica al seno e ai glutei (zone erogene e sessualmente connotate), l’equivalente del burqa potrebbero essere i tacchi a spillo, non a caso definiti «il burqa dell’occidente», trovi dei modi di mettere in dialogo le culture e di incentivare reciproci cambiamenti. Si osservi, per inciso, come l’isonomia processuale delle parti potrebbe, in qualche modo ricordare, il relativismo antropologico in quanto equidistanza rispetto a tutte le culture e le pratiche con cui si esprimono, se non fosse che il giudice ha il divieto di non liquet per cui dalla iniziale isonomia deve scegliere, mentre l’antropologo può lasciare intatte le due visioni del mondo.
Una terza differenza che caratterizza il ragionamento giuridico è che esso è teso a garantire le regole della convivenza[56]. Tali regole sono in costante divenire sia a causa di processi di trasformazione endo-culturali, interni cioè a ciascuna cultura, sia a seguito di processi di trasformazione derivanti dal fenomeno migratorio. Diverse domande del test tendono a garantire le regole della convivenza. La già citata domanda n. 10 sul danno serve ad evitare uno sgretolamento di alcuni principi base della convivenza. L’ultima domanda del test – quali sono le buone ragioni che la minoranza apporta per difendere la sua pratica? – ha lo scopo di chiedersi se anche dall’altrui cultura possono provenire delle nuove regole di convivenza, che magari allargano l’orizzonte di senso o il pluralismo delle scelte di vita ed è un modo per valorizzare questa tensione interna al diritto come scienza preposta alla ridefinizione delle regole dello stare insieme.
La quarta differenza tra ragionamento more anthropologico e juridico è la logica ponderativa che accompagna quest’ultimo. Invero, anche il ragionamento dell’antropologia ha ormai da tempo dinamizzato il concetto di cultura, ritenendo che le culture siano reti di significato aperte al cambiamento attraverso il contatto con altre. Ma ancora una volta l’antropologia si muove su un piano descrittivo, laddove il diritto segue un piano prescrittivo, che impone di trovare un punto di equilibrio e può richiedere rinunce rispetto a certe pratiche, con sentenze che intervengono selettivamente ad incrinare se non eliminare singoli aspetti di una cultura, come accaduto per le mutilazioni genitali femminili, proibite a livello mondiale dalla già citata risoluzione Onu A/Res/67/146 del 20 dicembre 2012. Questo è vero visto da entrambe le parti del conflitto. Nel caso del burqa in Francia è stato a svantaggio della minoranza islamica, sussistendo un interesse dei francesi a vedere inverato il principio della fraternità repubblicana ritenuto dalla Corte Edu superiore. Ma altre volte la ponderazione avvantaggia la minoranza. Così, ad esempio, quando il Tribunale di Cremona ammette che il kirpan possa essere indossato dai Sikh in quanto simbolo religioso, sta chiedendo agli italiani un ripensamento della loro regola culturale per cui le armi si tengono al massimo in casa. Un giudice statunitense avrebbe dovuto richiedere una minore rinuncia essendo gli americani culturalmente più abituati all’idea di vedere armi o di saperle presenti nello spazio pubblico. La ponderazione in questo caso è fatta a favore del Sikh sulla base di un altro ragionamento ponderativo: il fatto che quel coltello «sembra» un arma, ma di fatto non lo è, essendo un simbolo apotropaico che serve a proteggere dal male. Per garantire che la ponderazione sia effettuata nel modo più persuasivo possibile, il test suggerisce il criterio della obbligatorietà della pratica (domanda n. 4) come un importante peso sulla bilancia.
5. Come introdurre il test in Italia
Se si ritiene il test uno strumento convincente, una questione da affrontare è quella di come introdurlo in Italia. Le reticenze nei suoi confronti potrebbero, invero, essere diverse.
Una prima affonda nella nostra cultura giuridica. Il test è uno strumento nato in Corti di common law, che sembra più confacente alla tradizione nord-americana e potrebbe essere visto come uno strumento spurio, artificiale, calato dall’esterno. A questa obiezione potrebbe rispondersi osservando come, sia pure chiamati in altro modo, test che procedimentalizzano il ragionamento giuridico esistono anche nelle tradizioni continentali e che la circolazione dei modelli sta, invero, importando il meccanismo dei test in diverse corti, anche sovranazionali.
Oltre all’an, anche il quomodo di introduzione del test è incerto. La via legislativa appare improbabile. Il legislatore italiano interviene rispetto a singole pratiche culturali e non sembra intenzionato a governare globalmente la questione dell’uso dell’argomento culturale nelle Corti.
Le strade che residuano sono due: una potrebbe essere che la Corte di cassazione decida di incorporarlo sistematicamente nella risoluzione dei vari conflitti imponendo così un indirizzo comune al diritto vivente; un’altra, più immediata anche se meno cogente, sarebbe quella di rendere il test operativo tramite linee guida fornite ai giudici nella risoluzione dei conflitti multiculturali, dalla Corte di cassazione o dal Csm o da associazioni interne alla magistratura a seconda del livello di condivisione del dibattito. In Inghilterra, come accennato, viene fornito un manuale che descrive uno per uno i gruppi culturali e indica le rispettive pratiche, illustrando i casi di conflitti più rilevanti. Una sorta di vademecum stilato con l’ausilio degli antropologi, sarebbe un valido aiuto per i giudici e, ancora una volta, eviterebbe l’incertezza che oggi deriva dai frequenti casi in cui i giudici hanno deciso di respingere l’argomento culturale per il fatto che gli avvocati non avessero apportato prove sufficienti al processo.
Piuttosto che affidare la risoluzione dei conflitti multiculturali a motivazioni che danno primazia ad un elemento ignorandone altri, il test culturale ha il vantaggio di apportare una certezza almeno di tipo argomentativo. Decisioni meno aleatorie, basate su accertamenti e moduli argomentativi più stabili favorirebbero una maggiore legittimazione del giudice di fronte al suo uditorio e attenuerebbero le critiche sull’incertezza delle soluzioni che i giudici forniranno. Anche in assenza di un intervento del legislatore, i giudici potrebbero sviluppare una propria riflessione su un modo comune di risolvere i conflitti multiculturali. I tempi sono maturi: la circolazione dei modelli, le esperienze comparate, la stessa quantità e qualità delle sentenze italiane consentono di avere un materiale abbondantissimo su cui lavorare per tracciare i fondamenti di un diritto giurisprudenziale multiculturale comune. Il test proposto tenta una sintesi dei topoi più persuasivi e ricorrenti negli accertamenti fatti dall’antropologia e dai giudici e consolida il mandato sociale[57] che il giudice ha di tener in conto del fattore culturale.
In quarant’anni di risoluzione di conflitti multiculturali i giudici si sono sforzati, spesso con un approccio case by case, che non partiva da un pre-esistente sistema, ma che, in qualche modo, sta producendo un sistema. È arrivato il tempo di consolidare questa tradizione traducendola in strumenti concreti cui il giudice possa fare riferimento.
[*]Il presente contributo è stato presentato al Convegno Il Multiculturalismo e le Corti, Roma, 2-3 ottobre 2015, Biblioteca giuridica della Corte di Cassazione. La ricerca è stata finanziata dalla Fondazione Banco di Sardegna nell’ambito del progetto «Multiculturalismo e conflitti» e, alcune sue parti, sono state richieste per una prossima pubblicazione nel volume Scritti per il prof. Bruno Troisi, Esi, Napoli.
[1] Con l’espressione cultura in senso antropologico mi riferisco a «quell’intero complesso (that complex whole) che comprende la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, i costumi e qualsiasi altra capacità o abito acquisito dall’uomo come membro di un gruppo» (E.B. Tylor, Il concetto di cultura. I fondamenti teorici della scienza antropologica, trad. it. Primitive culture (1871), Einaudi, Torino, 1975), per distinguerla da altri due usi del concetto di cultura che pure ricorrono nel diritto: quello di cultura come «conoscenza specialistica» e come «vita intellettuale della comunità». Per apprezzare meglio le differenze tra le tre accezioni, si osservi il contenuto della Costituzione italiana, in cui la parola cultura compare testualmente nei seguenti articoli: 9, 33, 117 e 118. L’art. 33 Cost., parlando di istituzioni di «alta cultura» fa riferimento a quella accezione di cultura quale conoscenza specializzata, tecnica, superiore, che si consegue attraverso un percorso di istruzione ufficiale. Espressa in frasi del linguaggio corrente quali «è una persona di cultura», ha una «grande cultura», il precipitato giuridico di tale accezione tecnico-specialistica di cultura è il riconoscimento del diritto all’istruzione. Tale significato non può intendersi esteso a coprire il fenomeno multiculturalista. Così come non lo è il secondo significato di cultura intesa come «vita intellettuale di una comunità», che ruota intorno ad attività di tipo artistico e letterario, a scambi di idee e dibattiti. In questa accezione, la cultura può portare alla produzione di beni materiali (opere artistiche, film, romanzi) e immateriali (idee, visioni filosofiche) all’interno di una comunità. Ben espressa in frasi quali «i tagli alla cultura», una città con «una vita culturale ricca», la tutela del «patrimonio culturale», dei «beni culturali» e via enumerando, è questa l’accezione presente negli artt. 117 e 118 Cost. L’art. 9 della Costituzione, quando recita: «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura», è stato scritto in riferimento a tali due accezioni, ma con una interpretazione evolutiva potrebbe, per la sua ampiezza, ritenersi esteso anche alla promozione delle culture altre che oggi formano, con oltre 5 milioni di immigrati, il tessuto sociale italiano, assumendo, pertanto, anche una connotazione in senso antropologico.
[2] L. Lombardi, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Giuffrè, Milano, 1975. Sulla configurazione giurisprudenziale del multiculturalismo M.C. Foblets, A. Dundes Renteln, (a cura di) Multicultural jurisprudence. Comparative perspectives on the cultural defense, Hart Publishing, Oxford and Portland Oregon, 2009.
[3] Come rilevano F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze, Cedam, Padova, 2011, p. 1.
[4] Art. 27: «In quegli Stati in cui esistono minoranze etniche, religiose o linguistiche le persone che appartengono a tali minoranze non saranno private del diritto, in comunità con gli altri membri del loro gruppo, di godere della loro propria cultura, di professare e praticare la loro religione o di usare la loro lingua».
[5] General Comment n. 23, The rights of minorities, 8 aprile 1994.
[6] N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1965.
[7] Per un’analisi più dettagliata di tutte le Costituzioni che riconoscono diritti culturali I. Ruggiu, Il giudice antropologo. Costituzione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali, FrancoAngeli, Milano, 2012, Cap. IV, pp. 217-241.
[8] Art. 27 Carta dei diritti fondamentali: «This Charter shall be interpreted in a manner consistent with the preservation and enhancement of the multicultural heritage of Canadians».
[9] Fin dalle sentenze gemelle 348 e 349/2007, per proseguire con le sent. 39/2008, 311/2009 e 317/2009, la Corte costituzionale ha detto che tutti i Trattati regolarmente ratificati, e non solo la Cedu, hanno lo status di norme sub-costituzionali interposte, che devono rispettare l’intera Costituzione (non solo il nucleo duro) e che sono vincolanti, ma una sentenza che chiarisca in concreto la forza e la diretta applicabilità del Patto del 1966 al di fuori dell’intermediazione legislativa, deve ancora venire.
[10] Rubricato «Diversità culturale, religiosa e linguistica», l’art. 22 sancisce che «L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica».
[11] L’idea sostenuta nel 1995 da Kymlicka con l’introduzione del concetto di cittadinanza multiculturale era che ciascuno in qualche modo potesse viaggiare nel villaggio globale portando dietro le proprie regole, con un ripensamento sia del principio di territorialità della legge, sia del principio di eguaglianza, ripensamento possibile proprio per la forza persuasiva della cultura quale diritto umano. W.Kymlicka, Cittadinanza multiculturale, trad. it. Multicultural citizenship: a liberal theory of minority rights (1995), il Mulino, Bologna, 1999.
[12] Basta scorgere le tematiche coperte dai conflitti multiculturali. Nel libro di A. Dundes Renteln, The cultural defense, Oxford, Oup, 2004, i conflitti nelle Corti vengono così classificati: omicidi, bambini, droghe, animali, matrimonio, vestuario, la morte. Nel libro F. Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Cedam, Padova, 2010, la cultura si invera in violenze in famiglia: maltrattamenti e sequestri di persona a danno di familiari; sequestri di giovani donne finalizzati ad imporre un matrimonio combinato; soppressione dei familiari che si ribellano alle regole e al codice etico della famiglia d’origine. Reati a difesa dell’onore: la vendetta di sangue; omicidi a difesa dell’onore sessuale; reati a difesa dell’onore personale (autostima). Reati di riduzione in schiavitù. Reati contro la libertà sessuale: violenze sessuali su ragazze minorenni; violenze sessuali su donne maggiorenni.
[13] Nel caso The People v. Metallides (1974) il signor Kostas Metallides, immigrato greco in Florida, uccise un suo amico dopo aver scoperto che questi aveva violentato la figlia. L’avvocato lo difese appellandosi alla folk-law greca della vendetta e sostenendo che «the law of the old country is that you do not wait for the police if your daughter has been raped». L’uomo venne assolto per temporanea infermità mentale che, in qualche modo, il giudice aveva ricavato dallo stato di shock culturalmente determinato.
[14] Nel caso People v. Fumiko Kimura, n. A-091133, California Superior court, 1985 una madre giapponese aveva tentato il suicidio portando con sé i due bambini. Lei si era salvata mentre i bambini no. L’avvocato la difese sostenendo che in Giappone lasciare i figli a sopravvivere alla madre era considerato un atto crudele e che la pratica dell’ojaku-shinju era diffusa da tempi immemorabili. La donna venne assolta per temporanea infermità mentale.
[15] A. Dundes Renteln, A. Dundes, (a cura di), Folk Law. Essays in the Theory and Practice of Lex Non Scripta: Volume I, The University of Wisconsin Press, Madison, 1994.
[16] Sulla vendetta come «istinto o istituzione?» si vedano di recente, G. Lorini, M. Masia (a cura di), Antropologia della vendetta, Esi, Napoli, 2015; I. Terradas Saborit, Justicia vindicatoria, Madrid, Csic, 2008.
[17] Mutuo rivisitandola questa definizione da quella fornita da C. Geertz, Antropologia interpretativa, trad. it. Local knowledge. Further essays in interpretative anthropology (1983), il Mulino, Bologna, 2001, secondo cui una cultura è una «rete di significati» (web of meanings), ossia un sistema semiotico, di segni della più variegata natura che chi appartiene a quel gruppo può decodificare e può usare per comunicare in quanto ne conosce il linguaggio.
[18] Si potrebbe ribattere che in realtà il giudice possiede tutti gli strumenti per risolvere i conflitti multiculturali proprio tramite le tecniche di bilanciamento tra diritti. Si potrebbe dire che non c’è cortocircuito tra teoria dei diritti e pluralismo giuridico in quanto non è nuova al diritto l’operazione di incorporare sub specie diritto fondamentale un pacchetto di norme esterne: ad esempio, riconoscendo il diritto all’obiezione di coscienza si dà riconoscimento a norme morali dell’individuo; ugualmente con la libertà religiosa, l’ordinamento giuridico statuale riconosce un altro sistema normativo, quello religioso, che può imporre il riposo in certi giorni della settimana, il divieto di trasfusioni di sangue e tutta una serie di altre regole potenzialmente in contrasto. L’ordinamento parrebbe, pertanto, più che attrezzato a risolvere le sfide del multiculturalismo. La stella del bilanciamento tra i diritti fondamentali potrebbe guidare il passo. Proprio attingendo al bilanciamento tra diritti si potrebbe dire che se pure un soggetto ha un diritto alla cultura, non ha un diritto alla vendetta, a compiere un omicidio d’onore, a compiere una mutilazione genitale sulla figlia, perché tali pratiche culturali vanno bilanciate con i diritti alla vita, all’integrità fisica, alla salute, alla libertà sessuale di altri soggetti. Seppure queste sono osservazioni plausibili, a me pare che il riconoscimento della cultura come diritto umano ha una componente dirompente molto più ampia di quella della sola libertà religiosa o di coscienza, derivante, come detto, dal fatto che la cultura è un assetto di regole molto più ampio.
[19] P. Parolari, Reati culturalmente motivati: un’altra sfida del multiculturalismo ai diritti fondamentali, in Ragion pratica, 2/2008, pp. 529 ss.
[20] A. Bernardi, L’ondivaga rilevanza penale del “fattore culturale”, in Politica del diritto, 2007, p. 3 ss.; C. Grandi, I reati culturalmente motivati nella giurisprudenza italiana: una categoria negletta?, in O. Giolo-M. Pifferi (a cura di), Diritto contro. Meccanismi giuridici di esclusione dello straniero, Giappichelli, Torino, 2009, pp. 179-211.
[21] J. Hurtado Pozo, Art. 15 del código penal peruano: ¿incapacidad de culpabilidad por razones culturales o error de comprensión culturalmente condicionado?, www.unifr.ch, 2003.
[22] S. Okin, Is multiculturalism bad for women?, inJ. Cohen, M. Toward, M. C. Nussbaum, (a cura di), Is multiculturalism bad for women? Susan Moller Okin with respondents, Princeton University Press, 1999, (trad. it.) Diritti delle donne e multiculturalismo, Milano, 2007, pp. 9 ss
[23] Di questa potenziale conflittualità è espressione l’art. 35 della Costituzione canadese che dopo aver riconosciuto i diritti dei popoli aborigeni del Canada, noti con l’eteronomo Indiani d’America, statuisce al c. 4. «Nonostante qualsiasi altra disposizione di questa Costituzione, i diritti aborigeni e i diritti derivanti dai Trattati sono garantiti in modo eguale a uomini e donne». Analoghe formule si trovano in Costituzioni africane e sudamericane.
[24] R. Reddy, Gender, culture and the law: approaches to ‘Honour Crimes’ in the UK, in Fem. Leg. Stud., n. 16, 2008, pp. 305 ss.
[25] T. Sellin, Culture and conflict in crime, Social Science Research Council, New York, 1938, pp. 68 ss.
[26] A. Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano, 1959, rileva tre elementi di differenza: a) l’origine contrattualistica di tipo privatistico tipica della societas sceleris, dei criminali che stipulano un accordo per delinquere, è assente nella comunità barbaricina dove lo stare insieme, garantito anche dalle regole della vendetta, ha una dimensione pubblica e politica; b) le finalità dell’ordinamento barbaricino sono quelle di garantire una vita sociale stabile e non quelle di usare la vendetta per profitto; c) la societas sceleris appare un gruppo deviante da una comunità più ampia rispetto alla quale è marginalizzato e criticato, viceversa il livello di condivisione e di valori che la comunità barbaricina esprime la mostra un gruppo coeso in cui la regola della vendetta è condivisa.
[27] La formula «reati culturalmente motivati» è stata forgiata da J. Van Broeck, Cultural defence and culturally motivated crimes (cultural offences),in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice, vol. 9/1, 2001, 1-32, che ne fornisce una definizione, a mio avviso, molto in linea con il pluralismo giuridico: «il comportamento realizzato da un membro appartenente ad una cultura di minoranza, che è considerato reato nell’ordinamento giuridico della cultura dominante. Questo stesso comportamento, tuttavia, all’interno del gruppo culturale dell’agente è condonato o accettato come comportamento normale o, addirittura, è sostenuto e incoraggiato in determinate situazioni».
[28] M. Ricca, Dike meticcia. Rotte di diritto interculturale, Rubettino, Soveria Mannelli, 2008.
[29] T. Viehweg, Topica e giurisprudenza, trad. it. (a cura di G. Crifò), Topik und Jurisprudenz (1953), Giuffrè, Milano, 1962, rileva come la parola fu coniata da Aristotole (350 a.C. circa) nel lavoro Topica, dove è definita come arte del discutere, che insegna come da proposizioni opinabili si possano, comunque, trarre delle conclusioni man mano che si affermano dei topoi, dei luoghi argomentativi comuni e condivisi. Su tale struttura del ragionamento giuridico, A. Giuliani, Il concetto di prova. Contributo alla logica giuridica, Giuffrè, Milano, 1971, che riprende la distinzione formulata da Norberto Bobbio tra logica giuridica come «logica delle proposizioni normative» da un lato e come «logica della giurisprudenza» cioè indagine del ragionamento del giudice, che sarebbe orientata a persuadere.
[30] Che poi ovviamente è esploso in prestigio con il lavoro di C. Perelman, L. Olbrechts Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, trad. it. Traitè de l’argumentation. La nouvelle rhètorique (1958), Einaudi, Torino, 1966, che ha aperto il movimento della neo-retorica. Da ultimo, sull’approccio topico al diritto si vedano F.J. Mootz III, F. Cerrone, S. Niccolai, G. Repetto, G. Bascherini, Law and Community: Alessandro Giuliani’s Aristotelian Vision, in Federalismi.it, n. 16/2013.
[31] Nella decisione della Corte suprema canadese R. v. Van Der Peet, [1996] 2 S.C.R. 507.
[32] Art. 35: «1. I diritti aborigeni e i diritti derivanti dai Trattati dei popoli aborigeni del Canada sono riconosciuti e sanciti. 2. In questa disposizione, l’espressione ‘popoli aborigeni del Canada’ ricomprende gli Indiani, gli Inuit e i Metis del Canada. 3. Per maggiore chiarezza (si precisa che) nel comma 1 la formula ‘diritti derivanti dai Trattati’ include o diritti attualmente esistenti in virtù di accordi sulle terre o diritti che possono essere acquisiti (con futuri Trattati tra Canada e indigeni). 4. Nonostante qualsiasi altra disposizione di questa Costituzione, i diritti aborigeni e i diritti derivanti dai Trattati sono garantiti in modo eguale a uomini e donne».
[33] Nella decisione della Corte suprema americana Sherbert v. Verner, [1963] 374 U.S. 398.
[34] Nella decisione Syndicat Northcrest v. Amselem [2004] 2 S.C.R. 551.
[35] A. Dundes Renteln, The cultural defense, cit.
[36] A. Eisenberg, Reasons of identity. A normative guide to the political and legal assessment of identity claims, Oxford University Press, Oxford, 2009.
[37] C. De Maglie, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, Edizioni ETS, Pisa, 2010.
[38] Fenomeno già denunciato da L. Volpp, Blaming culture for bad behaviour, in Yale journal of law & the humanities, 12 /2000, pp. 89 ss.
[39] Gup Bologna, 16 novembre 2006. La decisione, non pubblicata, è riportata da B. Desi, Diversità culturale e principio di uguaglianze nel processo penale, relazione al convegno Multiculturalismo e processo penale, Bologna, 13 aprile 2007, in www.giuristidemocratici.it, 2007.
[40] Ho affrontato più diffusamente questo caso in I. Ruggiu, Is Begging a Roma Cultural Practice? Answers from the Italian Legal System and Anthropology, in Romanì Studies, issue 26:1, June 2016.
[41] L. Nader, Orientalism, occidentalism and the control of women, in Cultural dynamics, vol. 11, 3, 1989, pp. 325 ss.
[42] Sul punto si veda la riflessione di un nativo americano in relazione alla pratica della caccia al bisonte. L’autore scrive: «quando il bisonte non arrivò più tutto era finito», J. Lear, Radical Hope. Ethics in the face of cultural devastation, Harvard University Press, Cambridge-Massachussets, 2006.
[43] Corte di cassazione, sez. I penale, 6587/2010.
[44] G. Silvestri, Scienza e coscienza: due premesse per l’indipendenza del giudice, in Diritto pubblico 2/2000, pp. 411-438, p. 419.
[45] Che non a caso, in molte ricostruzioni del rapporto tra scienza e diritto, non sono nemmeno annoverate come “scienza”. Si vedano: M. Tallacchini, Scienza e diritto. Prospettive di co-produzione, in Rivista di filosofia del diritto, I, 2/2012, pp. 313 ss.; M. Bucchi, La democrazia alla prova della scienza, in Osservatorio italiano, pp. 1050 ss.
[46] Art. 61 cpc «Quando è necessario, il giudice può farsi assistere, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica. La scelta dei consulenti tecnici deve essere normalmente fatta tra le persone iscritte in albi speciali formati a norma delle disposizioni di attuazione al presente Codice».
[47] Art. 220 cpp «1. La perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche. 2. Salvo quanto previsto ai fini dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l'abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell'imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche».
[48] C. De Maglie, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, cit., p. 157, osserva che «la perizia culturale non è una perizia criminologica, in quanto non ha ad oggetto la personalità dell’imputato, le sue tendenze o le sue qualità psichiche» e può, pertanto, essere espletata.
[49] G. Ubertis, Multiculturalismo e processo penale, in P. Bonetti, A. Simoni, T. Vitale (a cura di), La condizione giuridica di Rom e Sinti in Italia, Giuffrè, Milano, 2011, pp. 1127 ss. ritiene necessario procedere ad un accertamento culturale che non sia fatto in solitudine dal giudice: «quando si riscontrasse un nesso significativo tra l’addebito e la cultura originaria dell’accusato, dovrebbero potersi ammettere testimonianze di componenti della minoranza di appartenenza e pareri di antropologi o etnologi sull’esistenza e sul contenuto del comportamento asseritamente culturale (profilo oggettivo della questione), cui dovrebbe accompagnarsi una verifica dell’effettiva adozione dell’imputato al sistema di valori affermato come ispiratore della sua condotta attraverso deposizioni di suoi familiari o conoscenti ovvero produzione di documenti concernenti, ad esempio, il suo percorso scolastico o le sue attività lavorative (profilo soggettivo)», p. 1134.
[50] Tribunale di Cremona, 19 febbraio 2009, n. 15.
[51] La Suprema corte ha annullato il rifiuto del visto da parte del Consolato italiano di Casablanca che impediva di far entrare nel territorio italiano un bambino marocchino che doveva ricongiungersi con lo zio il quale lo aveva assunto nel proprio nucleo familiare in qualità di kafil (affidatario) tramite contratto di kafalah.
[52] Corte di cassazione sez. VI penale, sent. 24 novembre 2011, n. 43646.
[53] Certo potrebbe residuare il dubbio di come il giudice, in assenza di alcuna formazione antropologica, sia in grado di leggere e capire pratiche culturali e se non si corra il rischio di applicazioni e interpretazioni errate. Sul punto bisognerebbe aprire un discorso più ampio sulla formazione del giudice e più in generale degli operatori giuridici in un contesto dove le società sono sempre più culturalmente eterogenee. Qui entra in gioco la rivisitazione dei programmi di studio dei corsi di laurea in giurisprudenza che appaiono datati e obsoleti rispetto alle trasformazioni del mondo o anche delle materie che si presentano ai concorsi pubblici. Ancora oggi i corsi di antropologia giuridica sono pochi in Italia, così come faticano ad affermarsi insegnamenti quali diritto dell’immigrazione o diritto multiculturale e interculturale. Nell’attesa di questa trasformazione della formazione universitaria si potrebbe pensare ad un dibattito interno alla magistratura che crei occasioni formative per i giudici dove apprendere alcune tecniche antropologiche di base.
[54] Intervento al Convegno Il Multiculturalismo e le Corti, Roma, Biblioteca Giuridica della Corte di Cassazione, 2-3 ottobre 2015, www.radioradicale.it/scheda/454563/il-multiculturalismo-e-le-corti-convegno-dedicato-alla-memoria-di-teresa-massa-1a.
[55] Sul punto si vedano le riflessioni di L. Mancini, Società multiculturale e diritto. Dinamiche sociali e riconoscimento giuridico, Clueb, Bologna, 2000, pp. 7 ss.
[56] Sulla centralità di questo ruolo del diritto si veda il manifesto AA.VV., Ritorno al diritto. I valori della convivenza, firmato da 27 giuristi e apparso su Giurisprudenza italiana, 2004, che si contrappone alla dottrina tradizionale perché pone non il diritto positivo, bensì i valori della convivenza, a fondamento della valutazione giuridica e A.A. Cervati, Studio del diritto costituzionale, cultura e impegno etico dei giuristi, in AA.VV., Studi in onore di Gianni Ferrara, Giappichelli, Torino, 2005, vol. I, pp. 693 ss.
[57] J. Luther, Il mandato sociale del giudice, in M. Dogliani, La ricerca dell’ordine perduto, Il Mulino, Bologna, 2015, p. 397 ss.