I reati cd. «culturalmente motivati» commessi dagli immigrati:
(possibili) soluzioni giurisprudenziali
Il diritto penale non è un prodotto culturalmente neutro ma è anzi impregnato della cultura del popolo da cui promana. Sono molte le norme penali che si servono di concetti normativi culturali (comune sentimento del pudore, motivi di particolare valore morale e sociale, motivi abbietti e futili, atti sessuali) e il passaggio dai confini di uno Stato all’altro può comportare la soggezione ad un sistema penale diverso anche fra Paesi culturalmente vicini come quelli europei occidentali. La maggiore ricorrenza di questi conflitti normo-culturali dovuti alla globalizzazione e all’espandersi dei movimenti migratori ha portato alla creazione del concetto di reato culturalmente motivato corrispondente a un comportamento che nel gruppo culturale d’origine risulta meno severamente valutato o accettato o addirittura incoraggiato. Come deve reagire il diritto penale italiano di fronte a questi reati? In primo luogo non rimuovendo il confronto con il nostro passato e con l’impatto della nostra immigrazione con le differenti culture dei Paesi di accoglienza. In secondo luogo evitando una risposta monolitica ma esaminando caso per caso alla luce di tre criteri di valutazione: il livello di offensività del fatto commesso, la natura della norma culturale in gioco, la biografia del soggetto agente. Una analisi di alcune decisioni giurisprudenziali dimostra che sinora le nostre Corti sono positivamente orientate verso il riconoscimento, sia pure cauto e circoscritto, del fattore culturale.
1. Immigrazione, società multiculturale, cultura
Per affrontare la tematica dei reati cd. culturalmente motivati commessi dagli immigrati, risulta opportuno muovere da una constatazione: l’Italia, al pari di altri Paesi europei, negli ultimi decenni si sta sempre più trasformando in società multiculturale per effetto dell’immigrazione[1].
Quando, infatti, l’albanese, il marocchino, il cinese, l’egiziano, il pakistano, il siriano lascia il suo Paese d’origine e arriva in Italia, si porta dietro, nel suo bagaglio, anche la sua cultura d’origine, e questo bagaglio – ovviamente – nessuno glielo può sequestrare alla frontiera[2]. In tal modo l’immigrazione diventa, per il nostro Paese, fonte di pluralità di culture.
Ma che cosa intendiamo, più di preciso, per «cultura», quando parliamo, ora, di società multiculturale e, tra breve, di reato culturalmente motivato?
Una precisazione sul punto è indispensabile, in quanto il termine cultura è di per sé estremamente ambiguo, tanto da risultare compatibile con più accezioni e più significati; ed è peraltro anche un termine assai di moda nel linguaggio, non solo mass-mediatico, degli ultimi anni[3].
Ebbene, nel discorso relativo alle società multiculturali e, in particolare, ai reati culturalmente motivati, adottiamo il termine «cultura» nell’accezione – pur «contestata» – che gli è stata attribuita dalle scienze umane e, principalmente dall’antropologia[4], per fare riferimento a un sistema complesso ed organizzato di modi di vivere e di pensare, concezioni del giusto, del buono e del bello, radicati e diffusi in modo pervasivo all’interno di un gruppo sociale e che, in tale gruppo, si trasmettono, pur evolvendosi e modificandosi, di generazione in generazione.
Sempre dalle scienze umane, e dall’antropologia in particolare, ci giunge anche la sottolineatura della fondamentale importanza della cultura per la formazione dell’uomo e per la sua stessa evoluzione biologica. L’uomo è, in effetti, un «animale portatore-di-cultura»[5]: niente è puramente naturale in lui. Anche le funzioni umane che corrispondono a bisogni fisiologici, come la fame, il sonno, il desiderio sessuale, etc., sono plasmate dalla cultura, ed infatti le varie culture non danno le stesse risposte a questi bisogni. Si pensi, ad esempio, alla molteplicità di risposte che le varie culture danno al “naturale” desiderio sessuale e di unione affettiva tra individui, al punto che gli antropologi hanno potuto censire, tra le diverse popolazioni umane, più di cinquecento generi diversi di matrimonio, oltre ad innumerevoli varietà di comportamento sessuale extra-coniugale[6].
Più banalmente faccio anch’io un esempio per illustrare il ruolo della cultura nel fornire i “codici” per interpretare e organizzare i dati della realtà esterna: se unisco il pollice e l’indice in modo da formare un cerchio, questo stesso gesto assumerà significati diversi a seconda che mi rivolga ad un interlocutore di cultura italiana (per il quale tale gesto significa: «va tutto bene!»), di cultura indonesiana (per il quale, invece, significa: «zero», o «tu sei un nulla!»), di cultura filippina (per il quale le dita così posizionate sono un riferimento ai «soldi»), e infine di cultura turca (al quale tale gesto apparirà come un’offensiva allusione all’omosessualità)[7].
La cultura offre, insomma, i codici, le chiavi, per interpretare, sistemare e organizzare i dati della realtà esterna. Il medesimo comportamento, il medesimo dato della realtà – unire il pollice e l’indice a formare un cerchio – può assumere, quindi, significati diversi a seconda della cultura attraverso il quale lo leggiamo.
2. Che cosa c’entra la cultura con il diritto penale?
Dopo queste precisazioni, possiamo finalmente giungere alla domanda che più ci interessa in questa sede: che cosa c’entra la cultura con il diritto penale?
C’entra nella misura in cui tra il diritto penale di un popolo e la cultura di questo popolo esiste un forte, intenso legame. Il diritto penale, infatti, non è un prodotto culturalmente neutro, ma è anzi fortemente “impregnato” della cultura del popolo da cui promana: il diritto, e il diritto penale in particolare, è una «manifestazione di cultura», come proclamava già Gustav Radbruch circa un secolo fa[8].
Del legame tra diritto penale e cultura è pienamente consapevole anche la nostra Corte di cassazione quando riconosce che «le fattispecie incriminatrici, per loro stessa natura, implicano una valutazione umana e sociale, culturalmente condizionata, dei comportamenti presi in considerazione»[9].
Del resto, per toccare con mano i condizionamenti della cultura sul diritto penale basterebbe pensare, in primo luogo, alle tante norme del nostro codice penale che, per l’individuazione del fatto di reato, si servono dei cd. concetti normativi culturali, vale a dire di quei concetti che possono essere pensati e compresi solo alla luce di un corpo di norme, per l’appunto, culturali.
Si pensi, tra i numerosi esempi possibili:
- al concetto di «comune sentimento del pudore», che compare nei delitti di osceno (art. 527 ss. cp);
- al concetto di «pubblica decenza» (di cui all’art. 726 cp), che – sono di nuovo parole della Cassazione – «attiene al complesso di norme etico-sociali che costituiscono il costume ed il decoro della comunità»[10];
- al concetto di «motivi di particolare valore morale o sociale», che attenuano il reato (art. 62 n. 1, cp) o, per contro,
- ai «motivi abietti o futili», che lo aggravano (art. 61 n. 1, cp);
- al concetto, infine, di «atti sessuali», che compare nei delitti di cui agli artt. 609 bis ss. cp.
Proprio in relazione a quest'ultimo concetto, la Cassazione ci ricorda che «la determinazione di ciò che è sessualmente rilevante in materia penale non può prescindere dal riferimento al costume e alle rappresentazioni culturali di una collettività determinata in un determinato momento storico»[11].
Ad ulteriore conferma della non-neutralità culturale del diritto penale potremmo pensare a fatti come l’aborto, l’eutanasia, la procreazione assistita, l’omosessualità, l’adulterio, il consumo di sostanze stupefacenti, i mezzi (comprensivi, o meno, dell’uso della violenza) utilizzabili dai genitori per educare i figli, i vilipendi alla religione, il maltrattamento di animali, la prostituzione: tutti fatti la cui disciplina penale cambia, anche significativamente, da Stato a Stato, in ragione, tra l’altro, della diversa cultura che impregna le norme penali di questo o quello Stato.
Di conseguenza, il passaggio dei confini da uno Stato all’altro può comportare la soggezione ad un sistema penale diverso, talora significativamente diverso, da quello di provenienza.
Un esempio per tutti: se un ventenne, a Roma o a Milano, ha un rapporto sessuale con una quindicenne consenziente, il fatto non costituisce reato: il nostro codice penale fissa, infatti, la soglia di età al di sotto della quale scatta il divieto di atti sessuali con minori ai 14 anni.
Ma se questo ventenne invita la sua fidanzatina a fare una gita a Lugano o a Zurigo e lì consumano un rapporto sessuale, ecco che il fatto viene a costituire reato, perché la predetta soglia, nel codice penale svizzero, è fissata a 16 anni.
Se invece alla fidanzatina mancasse ancora qualche mese al compimento dei suoi quattordici anni, ai due, per consumare un rapporto sessuale “penalmente irrilevante”, converrebbe trascorrere un romantico weekend a Barcellona o a Madrid: in base al codice penale spagnolo, infatti, commette il reato di atti sessuali con minorenni solo l’adulto che ha rapporti con un minore al di sotto dei 13 anni.
E se differenze siffatte sussistono tra Paesi culturalmente “vicini” (nel nostro esempio, Italia, Svizzera, Spagna), potranno a fortiori sussistere tra Paesi culturalmente “distanti”, sicché, parafrasando un adagio popolare possiamo senz’altro dire: Paese che vai, reato che trovi.
3. I cd. reati culturalmente motivati
Le conseguenze della sopra rilevata «non-neutralità culturale» del diritto penale dovrebbero essere a questo punto chiare: quando gli immigrati giungono nel nostro Paese, trovano reati diversi o diversamente strutturati rispetto a quelli previsti nel loro Paese d’origine; e tale diversità è, almeno in parte, dovuta alla diversità della cultura (la cultura italiana), che impregna le norme penali qui vigenti, rispetto alla cultura (la cultura albanese, marocchina, cinese, egiziana, pakistana, siriana, etc.) del loro paese d’origine.
Ne derivano, inevitabilmente, situazioni di tensione che, nella letteratura criminologica, sono state descritte in termini di conflitti normo-culturali[12].
Forse l’esempio oggi più noto e più discusso di un siffatto conflitto normo-culturale ci è offerto dalle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili:
- da una parte, ci sono alcuni gruppi di immigrati, portatori di una cultura che suggerisce e talora impone loro di sottoporre le figlie a tali pratiche;
- dall’altra, abbiamo il diritto penale di Paesi come l’Italia, la cui cultura non conosce la tradizione delle mutilazioni genitali femminili, né ne condivide le motivazioni e che, pertanto, le considera alla stregua di fatti lesivi dell’integrità personale e della dignità femminile.
La dottrina penalistica, da circa un decennio, ha cominciato a tematizzare le problematiche poste da tali situazioni di conflitto, utilizzando il concetto di reato culturalmente motivato.
Per «reato culturalmente motivato» si intende, infatti, un comportamento realizzato da un soggetto appartenente ad una cultura di minoranza (nella specie, un immigrato), comportamento il quale, mentre è considerato reato dall’ordinamento giuridico del gruppo culturale di maggioranza (nella specie, il gruppo culturale italiano), è invece valutato con minor rigore, o accettato come comportamento normale, o addirittura incoraggiato all’interno del gruppo culturale d’origine del suo autore[13].
Calata nella concreta dinamica processuale, tale definizione potrebbe coprire tutti quei fatti di reato rispetto ai quali l’imputato chiede (o il giudice ritiene comunque opportuna) una estensione della cognizione processuale anche al suo background culturale, affinché il giudice possa addivenire ad una più corretta ricostruzione dei fatti e, quindi, nelle aspettative dell’imputato, ad una decisione a lui più favorevole[14].
Ebbene, di fronte ad un reato culturalmente motivato commesso dall’immigrato come deve reagire il nostro diritto penale?
Deve conferire un qualche rilievo alla sua cultura d’origine, alla situazione di conflitto normo-culturale che ha fatto da sfondo alla commissione del reato? Deve concedere all’imputato quella che, con la terminologia della dottrina nordamericana, potremmo chiamare una cultural defense?
Oppure il diritto penale deve rimanere assolutamente indifferente alla motivazione culturale?
O addirittura considerarla quale elemento aggravatore[15]?
Vi è poi un ulteriore quesito che pesa come un macigno su tutte le questioni finora sollevate: come si prova in giudizio la diversa cultura e il suo influsso sul comportamento dell’imputato? Come si distingue, in relazione al caso concreto, la cultura d’origine dalla sua indole personale?
4. Nel nostro passato, il loro presente
Prima, però, di affrontare tali questioni, occorre segnalare un rischio al quale potremmo trovarci esposti andando alla ricerca delle relative risposte, un rischio del resto sempre incombente quando si parla di immigrati e di criminalità degli immigrati: quello di soccombere ad incontrollate reazioni emotive, di decidere con la pancia, più che con la testa.
Per fortuna, tuttavia, un vaccino potente per immunizzarci da tale rischio è offerto, proprio a noi italiani, dal nostro passato:
1) guardando al nostro passato, possiamo infatti prima di tutto riscontrare che alcuni dei reati oggi di più ricorrente commissione per motivi culturali da parte degli immigrati, sono gli stessi fatti fino a pochi decenni fa tollerati o comunque valutati con magnanimità dal nostro ordinamento giuridico: si tratta dei reati per causa d’onore, che il nostro codice penale disciplinava con estrema magnanimità fino al 1981; delle violenze sessuali, cancellate dal cd. matrimonio riparatore, previsto quale causa speciale di estinzione del reato dal vecchio art. 544 cp.: crudele beffa imposta alla donna violentata; se invece la donna subiva violenza sessuale dopo il matrimonio da parte del marito, la nostra giurisprudenza, almeno fino al 1976, concedeva una sorta di immunità al marito dall’accusa di violenza carnale, purché si fosse contenuto a compiere atti sessuali secundum naturam; si tratta, infine, dei tanti fatti di ingiuria, percosse e lesioni personali commessi in ambito familiare, a lungo coperti dall’ombrello protettivo di uno ius corrigendi riconosciuto in termini assai ampi ai genitori nei confronti dei figli, ed ai mariti nei confronti delle mogli.
Niente di nuovo sul fronte occidentale, quindi: gli immigrati, in adesione alle norme della loro cultura d’origine, compiono oggi in Italia fatti ben noti al nostro recente passato, fatti che fino a pochi decenni fa erano giudicati con generosa indulgenza dal nostro ordinamento giuridico, il quale, in tale indulgenza, esprimeva una valutazione in larga parte conforme alle concezioni culturali dell’Italia che fu;
2) guardando al nostro passato, possiamo inoltre ritrovare, tra i nostri nonni e i nostri bisnonni, tanti emigranti, partiti verso Paesi, e verso culture, diverse da quella d’origine; e ciò ha contribuito al formarsi di una cospicua casistica giurisprudenziale di reati ante litteram culturalmente motivati, in cui sul banco degli imputati siede un Italiano – emigrato in Svizzera, in Germania, in America, etc. – il quale si difende invocando la sua cultura, le sue tradizioni, la sua mentalità italiana.
E non ci sono solo casi appartenenti ad un lontano passato: come il caso di Josephina Reggio, diciassettenne siciliana immigrata a New York, che all’inizio del secolo scorso uccise lo zio per cancellare «alla maniera siciliana» il disonore che le violenze sessuali da questi praticate nei suoi confronti le avevano procurato.
Ci sono anche casi ben più recenti, il più (tristemente) celebre dei quali, assurto agli onori delle cronache solo qualche anno fa, riguarda il cameriere sardo, immigrato in Germania, che per “punire” la propria fidanzata di un presunto tradimento, la tiene segregata nel proprio appartamento per tre settimane, durante le quali la sottopone a crudeli violenze sessuali e pesanti umiliazioni. Ebbene, il Tribunale di Bückeburg, nel giudicare tali episodi, ha punito con una certa mitezza il nostro connazionale ritenendo che questi avrebbe agito spinto da un eccesso di gelosia, rispetto al cui insorgere avrebbero contribuito le sue «particolari impronte etno-culturali». Nella sentenza si legge infatti che «la concezione del ruolo della donna e dell’uomo», diffusa in Sardegna e alla quale l’imputato era ancora legato, «quantunque non possa valere come scusante, deve essere presa in considerazione al fine di una riduzione della pena»[16].
Il cambio di prospettiva e l’inversione di ruoli – da ospitanti a emigranti, da giudici ad imputati – che questa peculiare casistica di reati culturalmente motivati ci impone, potrà, quindi, aiutarci ad assumere un atteggiamento più razionale ed equilibrato nella ricerca di adeguate soluzioni al problema dei reati commessi per – vere o presunte – motivazioni culturali da chi, arrivando in Italia, si è portato in valigia anche la sua cultura d’origine.
5. Le sotto-categorie di «reati culturalmente motivati»
Possiamo ora tornare alla questione che più ci preme: quale trattamento deve riservare il nostro ordinamento giuridico ai reati culturalmente motivati?
A tale domanda è impossibile, o per lo meno altamente sconsigliabile, fornire una risposta monolitica, una risposta, cioè, valida per tutti i casi concreti riconducibili alla categoria del «reato culturalmente motivato», dal momento che quella di «reato culturalmente motivato» risulta essere, a ben vedere, una etichetta dai confini molto ampi, applicabile a casi tra loro anche profondamente eterogenei.
Per avere un’idea di questa molteplicità ed eterogeneità, invito a riflettere sul fatto che sotto tale etichetta sono state tra l’altro riportate le seguenti sotto-categorie di reati, tra loro indubbiamente ben dissimili[17]:
- violenze in famiglia, realizzate in contesti culturali caratterizzati da una concezione dei poteri spettanti al capofamiglia o, comunque, ai genitori, diversa da quella cui la prevalente cultura italiana ed europea oggigiorno si ispira; una violenza che, nei casi più tragici, si arma di pugnale per «punire» il familiare che tenta di ribellarsi alle regole sociali ed al codice etico tradizionali;
- reati a difesa dell’onore, che scaturiscono da un esasperato concetto dell’onore familiare o di gruppo, il quale può spingere a vendicare “col sangue” la morte di un membro della propria famiglia o del proprio gruppo; altre volte, invece, viene in rilievo il concetto di onore sessuale, offeso da una relazione adulterina o da altra condotta ritenuta riprovevole; né mancano, infine, ipotesi in cui gravi fatti di sangue sono commessi per ristabilire la propria autostima, offesa da uno “smacco” asseritamente ritenuto intollerabile in base ai parametri culturali d’origine;
- reati di riduzione in schiavitù a danno di minori, commessi da soggetti che invocano a propria scusa e/o giustificazione le loro ataviche consuetudini concernenti i rapporti adulti-minori;
- reati contro la libertà sessuale, le cui vittime sono ragazze minorenni che nella cultura d’origine dell’imputato non godono di una particolare protezione in ragione dell’età, ovvero donne adulte alle quali tale cultura – per il solo fatto che si tratta di mogli o, tout court, di persone di sesso femminile – non riconosce una piena libertà di autodeterminazione in ambito sessuale;
- mutilazioni genitali femminili, circoncisioni maschili rituali e tatuaggi ornamentali «a cicatrici», suggeriti, ammessi o addirittura imposti dalle convenzioni sociali, dalle regole religiose o dalle tradizioni tribali del gruppo culturale d’origine;
- reati in materia di sostanze stupefacenti aventi per oggetto erbe, bevande, misture il cui consumo è ritenuto assolutamente lecito e, talvolta, addirittura raccomandato, per motivi rituali o sociali, nel gruppo culturale d’origine;
- fatti consistenti nel rifiuto dei genitori di mandare i figli a scuola a causa di riserve di tipo religioso-culturale rispetto alla scuola cui questi sono stati assegnati;
- infine, reati concernenti l’abbigliamento rituale, riguardanti casi in cui l’usanza tradizionale di portare un indumento (ad esempio, il burqa delle donne musulmane) o un amuleto simbolico (ad esempio, il kirpan degli indiani sikh) è stata vagliata alla luce della sua possibile rilevanza penale rispetto ad alcune figure di reato poste a tutela della sicurezza pubblica.
6. Alcune significative “variabili”: livello di offensività del fatto commesso; natura della norma culturale osservata; biografia del soggetto agente
Nel paragrafo precedente siamo passati dalla categoria generale alle sotto-categorie di reati culturalmente motivati. Se proviamo ora a scendere ad un livello ancora maggiore di indagine analitica, prendendo direttamente in considerazione i singoli casi concreti, sarà possibile rilevare che tali casi, seppur accomunati dalla (almeno asserita) matrice culturale del comportamento tenuto dall’imputato, tra loro possono significativamente differenziarsi in forza di almeno tre variabili:
1) una prima variabile, la cui importanza balza subito all’occhio dell’osservatore attento, riguarda illivello di offensività del fatto commesso, livello risultante dal bene giuridico offeso, dal suo rango, dalla sua eventuale titolarità in capo ad una vittimadeterminata, nonché dal grado di offesa(in particolare, danno o pericolo e, in questo caso, pericolo concreto o pericolo astratto) da esso subito. È chiaro, infatti, che non possiamo mettere sullo stesso piano tanto gravissimi delitti di sangue, quanto fatti bagatellari di natura contravvenzionale, tanto offese a diritti fondamentali di una vittima ben determinata quanto reati “senza vittima” e di pericolo astratto;
2) una seconda variabile, ugualmente degna di essere messa a fuoco ai fini di un corretto approccio da parte dei nostri giudici ai reati culturalmente motivati, riguarda la natura della norma culturale in adesione alla quale è stato commesso il reato:
- in primo luogo, infatti, potrebbe risultare utile accertare se tale norma sia qualificabile anche in termini di norma religiosa, perché in tal caso troverebbero applicazione gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali già collaudati in tema di esercizio del diritto di libertà religiosa;
- in secondo luogo, potrebbe risultare opportuno verificare se tale norma culturale trovi riscontro anche in una corrispondente norma di diritto positivo vigente nell’ordinamento giuridico del Paese di provenienza dell’immigrato: questa eventuale “coincidenza” potrebbe, infatti, assumere particolare rilievo, in sede di accertamento dell’antigiuridicità e della colpevolezza del fatto commesso;
- in terzo luogo, occorrerebbe interrogarsi sul grado di vincolativitàdi tale norma all’interno dello stesso gruppo culturale cui appartiene l’immigrato-imputato: essa potrebbe, infatti, limitarsi a suggerire il compimento di una determinata pratica (com’è, ad es., per la poligamia tra i musulmani), o, per contro, imporla con un elevato grado di cogenza e con un potente apparato di sanzioni (come avviene, ad es., almeno in alcune comunità, per le pratiche di circoncisione maschile e femminile); per altro verso, potrebbe trattarsi di una norma culturale rispettata in modo omogeneo da (quasi) tutti i membri del gruppo culturale cui appartiene l’imputato o, per contro, contestata da ampie fasce di persone appartenenti a tale gruppo, con tutto ciò che ne consegue in ordine al grado di antigiuridicità e di colpevolezza del fatto commesso da chi tale norma ha voluto osservare;
3) una terza variabile di grande rilevanza concerne, infine, la biografia del soggetto agente per quanto riguarda, in particolare, il suo grado di integrazione nella cultura del Paese d’arrivoe, reciprocamente, il suo grado di perdurante adesione alla cultura d’origine: potrebbe trattarsi, infatti, di un immigrato che, al di là del tempo di permanenza nel nuovo Paese, non ha ancora avuto alcuna significativa occasione di socializzazione in tale Paese o, per contro, di un immigrato ben integrato, almeno per quanto riguarda alcuni aspetti della sua vita pubblica, e magari anche privata. È evidente, infatti, che la credibilità della “difesa culturale”, e le chances di una sua rilevanza pro reo, risultano inversamente proporzionali al grado di integrazione dell’imputato nella cultura del Paese, di fronte ai cui giudici è chiamato a rispondere del fatto commesso.
7. Un “test culturale” per i reati culturalmente motivati? Alcuni riscontri (impliciti) nella recente giurisprudenza penale
Le tre variabili sopra descritte, in forza della loro fondamentale rilevanza, potrebbero costituire anche l’ossatura di una sorta di test culturale, utilizzabile dai giudici penali chiamati ad affrontare casi concreti in cui l’imputato si “difende” invocando la sua cultura d’origine.
Il concetto di test culturale è stato di recente ben illustrato, nella dottrina italiana, da Ilenia Ruggiu, la quale sottolinea l’idoneità di un siffatto test a fornire ai giudici una procedura standardizzata di accertamento di determinati requisiti, procedura la quale può aiutare i giudici stessi ad elaborare una motivazione delle sentenze più articolata e meglio argomentata in punto di “motivazione culturale”[18].
In attesa di futuri studi e ricerche che consentano una eventuale, maggiore formalizzazione del test culturale, qui solo abbozzato, in questa sede possiamo comunque evidenziare che talora i nostri giudici penali sembrano aver già intuito l’importanza delle tre variabili sopra indicate, e averle adeguatamente considerate – sia pur al di fuori di qualsiasi procedura standardizzata e di una chiara esplicitazione dei passaggi seguiti – nelle motivazioni delle sentenze con cui hanno affrontato taluni casi di reati culturalmente motivati.
7.1. La sentenza della Corte d’appello di Venezia (2012) sulle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili
Un buon esempio in tal senso ci è offerto dalla sentenza della Corte d’appello di Venezia[19], con la quale sono stati giudicati i primi due episodi chiamanti in causa il nuovo art. 583 bis cp.
Entrambi gli episodi si sono verificati a Verona, a fine marzo 2006, e vedono come protagonisti alcuni cittadini nigeriani, appartenenti all’etnia degli Edo-Bini: una donna, G.O., ostetrica in Nigeria ma priva di qualsiasi titolo per operare in quanto tale in Italia; una giovane nigeriana, madre della minore X, nata da due mesi all’epoca dei fatti; un giovane nigeriano, padre della minore Y, nata da due settimane all’epoca dei fatti.
Ebbene, nel primo episodio la G.O., dietro compenso di 300 euro, praticava sulla minore X la cd. aruè: un’incisione superficiale sulla faccia antero-superiore del clitoride, della lunghezza di circa 4 mm a decorso pressoché longitudinale, e della profondità di circa 2 mm.
Nel secondo episodio la G.O., dietro promessa di un compenso di 300 euro, si recava, su richiesta del padre della minore Y, presso l’abitazione di questi, con una borsa contenente gli attrezzi per eseguire la aruè (forbici, siringhe, garze, cotone idrofilo, una pinza chirurgica, una boccetta di lidocaina e una di disinfettante) ma, appena le veniva aperta la porta di casa, intervenivano gli agenti di polizia, che già da qualche giorno seguivano i suoi spostamenti e avevano messo sotto controllo la sua utenza telefonica.
Mentre in primo grado gli imputati vengono condannati, sia pur con pene miti, per il reato di lesione degli organi genitali femminili (art. 583 bis co. 2 cp), in appello i due genitori ricorrenti vengono assolti per carenza di dolo: quel dolo specifico – il «fine di menomare le funzioni sessuali» – esplicitamente richiesto dalla norma incriminatrice in questione.
Grazie anche ad una serie di testimonianze qualificate (un docente universitario di antropologia dell’educazione; una docente universitaria di pedagogia della mediazione; un sacerdote cristiano, appartenente all’etnia degli Edo-Bini, ma immigrato in Italia da circa vent’anni), la Corte d’appello di Venezia riconosce, infatti, che i genitori avevano sottoposto le neonate alla aruè al fine di soddisfare una funzione di purificazione, di umanizzazione, e per sancire un vincolo identitario, e non già al fine di menomarne le funzioni sessuali, compromettendo il desiderio o la praticabilità dell’atto sessuale.
Ebbene, come anticipato, in tale decisione i giudici compiono un’accurata ponderazione delle tre variabili sopra ricordate:
- quanto al livello di offensività del fatto commesso, infatti, i giudici da un lato evidenziano che nel caso di specie risultava compromessa solo l’integrità fisica (e non anche la dignità della donna, che in teoria pur potrebbe costituire oggetto di tutela del reato di cui all’art. 583 bis cp); dall’altro lato, rilevano che l’integrità fisica delle due neonate aveva qui subito un’offesadi grado minimo, destinata a non lasciare conseguenze permanenti;
- quanto alla norma culturale, in adesione alla quale gli imputati avevano agito, i giudici ne hanno sottolineato l’elevato grado di diffusione, di vincolatività e di osservanza presso il gruppo culturale degli Edo-Bini;
- quanto, infine, alle biografie personali degli imputati, i giudici evidenziano che la giovane madre è «persona priva di istruzione, emigrata in Italia da non molto tempo, che comprende a stento la lingua italiana e che vive in uno stato di particolare emarginazione o scarsa integrazione rispetto al tessuto sociale in cui si trova»; mentre in relazione al giovane padre, sottolineano il suo elevato grado di perdurante adesione alla cultura d’origine: questi, si legge nella sentenza, era «legato da un profondo senso di appartenenza all’etnia Edo-Bini, che si manifestava nel rispetto e nella condivisione delle tradizioni di tale etnia».
7.2. La sentenza della Cassazione (2011) sulla circoncisione maschile rituale
Anche leggendo la motivazione di una sentenza della Cassazione penale del 2011[20], relativa ad un caso di circoncisione maschile rituale, sembrerebbe che le tre variabili sopra ricordate (livello di offensività del fatto commesso; natura della norma culturale osservata; biografia del soggetto agente) siano state adeguatamente prese in considerazione in fase di giudizio, per quanto non in termini pienamente consapevoli ed esplicitati.
Nella specie, l’imputata era una giovane immigrata nigeriana, di religione cattolica, la quale,in adesione alle usanze della sua cultura d’origine, aveva fatto sottoporre il proprio neonato a circoncisione da una connazionale «solita praticare questo genere d’interventi», ancorché priva di qualsiasi abilitazione medica. Purtroppo l’intervento aveva provocato una gravissima emorragia, con necessità di ricovero d’urgenza del neonato (ricovero con esito finale fausto, nonostante il pericolo di morte corso dal piccolo).
Mentre la donna che aveva praticato la circoncisione non viene identificata, la madre – caduta nei suoi confronti l’originaria accusa per il delitto di lesioni dolose (per carenza di dolo) e l’accusa successivamente riformulata per il delitto di lesioni colpose (per mancanza di querela) – dal giudice di primo grado viene condannata per concorso nel reato di abusivo esercizio di una professione (art. 348 cp), segnatamente la professione medica. Il Tribunale giudicante ritiene, infatti, che la circoncisione maschile rientri tra gli atti che debbono essere necessariamente praticati da personale medico: la donna, affidando l’incarico di effettuare la circoncisione sul proprio neonato ad una persona non abilitata, avrebbe pertanto concorso nel suddetto delitto.
La condanna, confermata in appello, viene invece annullata senza rinvio dalla Cassazione sulla base del seguente ragionamento: vero è che l’intervento circoncisorio è, oggettivamente, un atto medico, ma l’ignoranza di tale sua qualità da parte dell’imputata deve ritenersi scusabile e, pertanto, rilevante ai sensi dell’art. 5 cp, così come interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 364 del 1988.
Se ora andiamo alla ricerca del rilievo assunto nella motivazione della sentenza della Cassazione dalle nostre tre «variabili»:
- dobbiamo, in primo luogo, evidenziare che nel momento in cui il procedimento giunge in Cassazione, il reato contestato è solo ed esclusivamente quello di abusivo esercizio di una professione: un reato, quindi, dal livello di offensività assai basso (come risulta anche dalla relativa cornice edittale: reclusione fino a sei mesi o multa da 103 a 516 euro), posto a tutela di un bene giuridico “spersonalizzato” (il buon andamento della Pubblica amministrazione, con riferimento all’attività giuridicamente regolata di legittimazione all’esercizio di determinate attività professionali richiedenti speciali competenze)[21];
- in secondo luogo, per quanto concerne la norma culturale osservata dall’imputata, si noti che la motivazione della sentenza dà esplicito rilievo alle «tradizioni culturali ed etniche» in adesione alle quali l’imputata avrebbe agito, sicché la sua scelta di far sottoporre il figlio a circoncisione da parte di persona priva di competenze mediche «va letta come espressione della cultura dalla medesima interiorizzata nell'ambito della comunità di provenienza». Se poi si va a vedere anche la sentenza di primo grado[22], può rilevarsi che nel relativo procedimento era stato assunto come testimone della difesa un sacerdote cattolico di origine nigeriana, il quale aveva riferito che la circoncisione maschile rituale è «una pratica ampiamente diffusa in molte culture africane, ed anche nella comunità nigeriana di religione cattolica di Padova, comunità di cui fa parte l'imputata»;
- quanto, infine, alla biografia dell’imputata, la Cassazione prende atto del fatto che la donna, fornita di un «basso grado di cultura», «non è risultata essere ancora integrata nel tessuto sociale» del nostro Paese, sicché essa risulta tuttora «portatrice di un bagaglio culturale estraneo alla civiltà occidentale».
Ebbene, il gioco delle tre variabili – lo si ripete: un gioco che nella specie si è svolto più dietro le quinte che lungo i binari di un’argomentazione esplicita e consapevole – conduce la Cassazione al seguente, decisivo passaggio motivazionale: «il difettoso raccordo che si determina tra una persona di etnia africana, che, migrata in Italia, non è risultata essere ancora integrata nel relativo tessuto sociale, e l'ordinamento giuridico del nostro Paese (...) non può (...) risolversi semplicisticamente a danno della prima, che, in quanto portatrice di un bagaglio culturale estraneo alla civiltà occidentale, viene a trovarsi in una oggettiva condizione di difficoltà nel recepire, con immediatezza, valori e divieti a lei ignoti (...). Non possono essere ignorati il basso grado di cultura dell'imputata e il forte condizionamento derivatole dal mancato avvertimento di un conflitto interno, circostanze queste che sfumano molto il dovere di diligenza dell'imputata finalizzato alla conoscenza degli ambiti di liceità consentiti nel diverso contesto territoriale in cui era venuta a trovarsi. Sussistono pertanto, nel caso concreto, gli estremi dell'error iuris scusabile».
7.3. La sentenza della Cassazione (2007) sulla violenza sessuale intraconiugale
Un terzo caso, infine, in relazione al quale i nostri giudici sembrano aver correttamente intuito il rilievo delle tre predette variabili (livello di offensività del fatto commesso; natura della norma culturale osservata; biografia del soggetto agente), è stato affrontato dalla Cassazione penale nel 2007[23].
Il caso riguardava due giovani immigrati marocchini che nel dicembre del 2001 si sposano, secondo l’uso marocchino, con un matrimonio combinato dai genitori della sposa, senza tuttavia andare inizialmente a convivere. La convivenza inizia solo due anni e mezzo dopo, nei primi di maggio del 2003, quando il marito (odierno imputato) trova un alloggio. Trascorsi alcuni giorni questi costringe la moglie ad avere un rapporto sessuale, dopo averla trascinata sul letto e averle tenuto la bocca tappata con un cuscino. Lo stesso comportamento si ripete nei giorni successivi, finché la donna lascia l’abitazione coniugale e torna dai propri genitori.
Il marito – condannato per il reato di violenza sessuale – ricorre in Cassazione, deducendo tra l’altro, ignoranza inevitabile della legge penale violata e mancanza di dolo: egli, infatti, non solo avrebbe ignorato che in Italia la violenza sessuale intraconiugale costituisce reato (non avendo essa rilevanza penale nel suo ordinamento di origine) ma, sul piano fattuale, avrebbe altresì ignorato che la ragazza era stata costretta al matrimonio dai di lei genitori; in ogni caso, poi, i fatti si sarebbero verificati nella prima settimana di matrimonio tra due persone vergini e sessualmente inesperte.
La Cassazione, tuttavia, respinge il ricorso e conferma la condanna per il delitto di violenza sessuale. Decisiva, ai fini della conferma della condanna, risulta indubbiamente la considerazione del livello di offensività del fatto commesso: la violenza sessuale, infatti, è un reato di danno, posto a tutela di un fondamentale bene giuridico (la libertà di autodeterminazione in ambito sessuale), di cui titolare è una persona ben determinata (nella specie, la moglie dell’imputato).
La prima delle tre variabili del nostro test, pertanto, si configura in questo caso in termini tali da ostare, in modo assorbente, a qualsiasi valutazione della motivazione culturale che possa condurre ad un esito assolutorio. Come, infatti, anche altre successive sentenze della nostra Cassazione hanno avuto modo di affermare[24] – quando «le condotte oggetto di valutazione si caratterizzano per la palese violazione dei diritti essenziali ed inviolabili della persona quali riconosciuti ed affermati dalla Costituzione, che costituiscono la base indefettibile dell’ordinamento giuridico italiano e il cardine della regolamentazione concreta dei rapporti interpersonali», va eretto uno «sbarramento invalicabile contro l’introduzione nella società civile (...) di consuetudini, prassi e costumi “antistorici” rispetto ai risultati ottenuti nell’ambito dell’affermazione e della tutela dei diritti inviolabili della persona in quanto tale, cittadino o straniero che sia».
Ma se la prima delle tre variabili del nostro test (livello di offensività del fatto commesso) preclude qualsiasi esito assolutorio quando sono offesi beni fondamentali della persona, la considerazione delle altre due variabili (natura della norma culturale osservata; biografia dell’imputato) potrebbe, invece, consentire di attribuire rilievo alla motivazione culturale perlomeno ai fini del quantum della punibilità, come dimostra proprio la sentenza sul caso delle violenze intraconiugali qui in esame.
La Cassazione, infatti, nel respingere il ricorso del marito-imputato, dà atto anche del corretto riconoscimento, a suo favore, dell’attenuante della «minore gravità» di cui all’art. 609 bis comma 3 cp, rilevando che si tratta di «fatti commessi nell’ambito di un rapporto di coniugio appena iniziato» tra giovani, nella cui «comune cultura d’origine la violenza sessuale tra coniugi non è configurabile come illecito».
Conclusioni
Le soluzione giurisprudenziali sopra descritte meritano, a mio sommesso avviso, grande attenzione e rispetto, perché dimostrano che, attraverso una accorta ponderazione delle tre fondamentali variabili sopra evidenziate (livello di offensività del fatto commesso; natura della norma culturale osservata; biografia del soggetto agente), è possibile approdare, in presenza di determinati presupposti, ad un cauto e circoscritto riconoscimento benevolo del fattore culturale: riconoscimento il quale risulta equo e ragionevole ogni qual volta la realizzazione del reato costituisca davvero l’esito di un conflitto normo-culturale ancora irrisolto, di tal ché il reato commesso dall’immigrato di cultura diversa potrebbe effettivamente risultare meno rimproverabile rispetto ad uno stesso identico fatto commesso da un imputato di cultura italiana.
La valutazione pro reo della motivazione culturale potrebbe, in altre parole, in qualche modo compensare la situazione di svantaggio in cui versa l’imputato appartenente ad una cultura di minoranza ogni qual volta sia chiamato a rispondere per un fatto previsto come reato da una legge in cui si rispecchia la sola cultura di maggioranza, qualora egli, rispetto a quest'ultima cultura, risulti tuttora incolpevolmente «straniero».
[1] Nel presente saggio – che riproduce, anche nello stile colloquiale, la mia relazione al convegno romano del 2-3 ottobre 2015 – il corredo delle note risulta ridotto al minimo essenziale, in quanto per più ampi riferimenti bibliografici e giurisprudenziali mi sia consentito rinviare il lettore al mio lavoro Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Milano, Giuffrè, 2010.
[2] La metafora della cultura «bagaglio non sequestrabile» è di M. Barbagli, Immigrazione e sicurezza in Italia, Bologna, 2008, p. 188.
[3] Basterebbe navigare cinque minuti su internet per ritrovare molteplici, svariati e anche bizzarri utilizzi del termine cultura («farsi una cultura», «cultura generale», «cultura d’impresa»; ma anche «cultura del cibo», «cultura del calcio», «cultura dell’olio d’oliva», e così via).
[4] Bene sottolinea come il concetto di «cultura» sia oggi fortemente «contestato» all’interno della stessa scienza (l’antropologia) che per prima lo ha elaborato e strutturato, I. Ruggiu, Il giudice antropologo. Costituzione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali, Milano, 2012, p. 150.
[5] C. Kluckhohn - A. L. Kroeber, Culture. A Critical Review of Concepts and Definitions, Cambridge (Mass.), 1952 (trad. it. Il concetto di cultura, Bologna, 1972, p. 288).
[6] Per tale esempio, v. C. Kluckhohn - A. L. Kroeber, Il concetto di cultura, cit., p. 379.
[7] Su You-toube si può vedere un simpatico video (ovviamente privo di qualsiasi rilevanza scientifica) in cui alcune allegre signore spiegano il significato di taluni gesti – compreso il gesto delle dita che per gli italiani significa «ok» – nelle loro rispettive culture di appartenenza: www.youtube.com/watch?v=CWUcGgSolw4.
[8] G. Radbruch, Rechtsphilosophie, III ed., Leipzig, 1932, p. 4. In senso analogo, v. di recente R. Sacco, Antropologia giuridica, Bologna, 2007, p. 42: «il diritto non è diverso, né separato, dagli altri fenomeni sociali e culturali».
[9] Cass. pen., Sez. III, 26 gennaio 2006 (dep. 9 giugno 2006), n. 19808; Id., 15 giugno 2006 (dep. 5 ottobre 2006), n. 33464; Id., 2 luglio 2004 (dep. 23 settembre 2004), n. 37395; Id., 24 novembre 2000 (dep. 1° febbraio 2001), n. 3990, tutte in Leggi d’Italia.
[10] Cass. Pen., Sez. III, 25 ottobre 2005 (dep. 14 dicembre 2005), n. 45284, in Leggi d’Italia; un insistito riferimento alla “cultura” (e ai suoi mutamenti) quale parametro di valutazione della pubblica decenza si ritrova, di recente, in Cass. pen., Sez. III, 23 aprile 2014 (dep. 26 settembre 2014), n. 39860, in Leggi d’Italia.
[11] V. sentenze cit. supra, nota 9.
[12] Il primo Autore ad aver portato l’attenzione su siffatti conflitti fu Thorsten Sellin, nella fortunata opera Sellin, Culture Conflict and Crime, New York, 1938.
[13] Con lievi modifiche, si tratta della definizione di reato culturalmente motivato originariamente elaborata da J. van Broeck, Cultural Defence and Culturally Motivated Crimes (Cultural Offences), in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice, 2001, n. 1, p. 5.
[14] Rileva giustamente A. D. Renteln, The Cultural Defense, New York, 2004, p. 7, che la nota comune dei casi giudiziari riconducibili, almeno in via di prima approssimazione, alla nozione di reato culturalmente motivato, è costituita dal fatto che «in tutti questi casi alle Corti viene chiesto di tener conto del background culturale dell’imputato».
[15] Rilevanza aggravante alla cultura d’origine dell’imputato avrebbe voluto conferire la proposta di legge n. 3250/2010 d’iniziativa dell’on. Sbai per la «modifica all’articolo 61 del codice penale in materia di circostanza aggravante per i reati commessi per ragioni o consuetudini etniche, religiose o culturali», presentata alla Camera dei deputati il 24 febbraio 2010.
[16] Landgericht Bückeburg 14 marzo 2006, Pusceddu, causa KLs 205 Js 4268/05 (107/05), udienza 25 gennaio 2006, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 2008, p. 1452.
[17] Il seguente elenco costituisce una sintesi di una ricerca giurisprudenziale illustrata per esteso in F. Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati, cit., pp. 165 ss.
[18] I. Ruggiu, Il giudice antropologo, cit., p. 85 ss.; della medesima Autrice si veda anche il saggio pubblicato in questo numero della Rivista.
[19] Corte d’appello (penale) di Venezia, 23 novembre 2012 (dep. 21 febbraio 2013), n. 1485, in Diritto penale contemporaneo, rivista online, luglio 2013; ivi v. pure, volendo, F. Basile, Il reato di “pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili” alla prova della giurisprudenza: un commento alla prima (e finora unica) applicazione giurisprudenziale dell’art. 583 bis cp.
[20] Cass. pen., Sez. VI, 22 giugno 2011 (dep. 24 novembre 2011), n. 43646, in Diritto penale contemporaneo, rivista online, marzo 2012, con nota di V. Pusateri,La circoncisione maschile cd. rituale non integra – se eseguita per motivi culturali che determinano l’ignoranza inevitabile della legge penale – il reato di esercizio abusivo della professione medica.
[21] In tal senso, anche per i necessari riferimenti, v. R. Pasella, Commento all’art. 348, in E. Dolcini - G. Marinucci, Codice penale commentato, IV ed., Milano, 2015, vol. II, p. 887.
[22] Tribunale di Padova, 9 novembre 2007, in www.olir.it.
[23] Cass. pen., Sez. III, 26 giugno 2007 (dep. 17 settembre 2007), n. 34909, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 2008, p. 407.
[24] V., tra le ultime orientate in tal senso, Cass. pen., Sez. VI, 28 marzo 2012 (dep. 30 marzo 2012), n. 12089, in Leggi d’Italia, da cui è tratta la citazione riportata di seguito nel testo. In senso del tutto analogo, v. pure Cass. pen., Sez. VI, 19 marzo 2014 (dep. 13 maggio 2014), n. 19674, ivi, con citazione di ulteriori precedenti conformi.