Magistratura democratica

L’uguaglianza, la diversità, e il diritto: vive la différence!

di Michele Graziadei

Il principio di uguaglianza non si è affermato in modo pacifico nella storia perché esso si afferma facilmente solo rispetto a chi è ritenuto simile a sé e non viene applicato automaticamente a chi è percepito come diverso. Il modello di uguaglianza che è stato alla base del discorso costituzionale condotto in occidente negli ultimi due secoli ha avuto una funzione inclusiva e di integrazione ma al tempo stesso ha preteso imperiosamente un adattamento ai modelli culturali dominanti. Ma l’immagine di una comunità omogenea è il frutto di una illusione o se si vuole essere più precisi di una ideologia. Dietro il velo della nostalgia per una società omogenea si trova molto spesso il tema dell’equa ripartizione delle risorse e della povertà e quello del riconoscimento dei diritti. Anche l’argomento dei diritti umani da difendere nel confronto con i Paesi non appartenenti all’Occidente non è al di sopra di ogni sospetto. In particolare quello di voler con essi perpetuare la missione civilizzatrice propria del colonialismo. La regola dell’uguaglianza implica il rispetto della pluralità dei valori che rendono ricca la vita in una società. La Costituzione italiana è esplicita in proposito perché è la Costituzione di una società che vuole essere pluralista. E la prima condizione per procedere in questa direzione è non umiliare l’altro. Nelle pieghe della cultura altrui troviamo anche qualcosa di nostro è la nostra umanità.

1. Sebbene sia un regime fragile e sempre in pericolo, la democrazia appartiene al mondo moderno. Il numero delle democrazie nel mondo è in aumento costante nell’ultimo secolo, ed il principio di uguaglianza che è alla base della costituzione politica democratica si diffonde. Le sue ramificazioni sono in tutte le direzioni, e la sua avanzata va di pari passo con proclamazioni solenni, che intendono garantire il rispetto della dignità umana.

Il principio di uguaglianza non si è però affermato in modo pacifico nella storia. Per fare un esempio notissimo, il diritto al voto delle donne è arrivato dopo una lunga battaglia, durata oltre un secolo. Anche nelle democrazie occidentali, la parità salariale tra uomo e donna è tuttora da conquistare nei fatti. La discriminazione (etnica, di genere, linguistica, religiosa, etc.) è bandita dalle costituzioni democratiche, ed è ora combattuta dallo Stato. L’azione dello Stato viene però monitorata sul piano internazionale, tramite i regimi protettivi dei diritti umani, per evitare che al riparo di essa, o addirittura grazie ad essa, il principio di uguaglianza possa essere violato, a vantaggio di una parte o di una componente della società.

Sul piano della vita sociale e in campo morale il principio di uguaglianza si afferma senza eccessiva difficoltà rispetto a chi è ritenuto simile a sé, mentre non è automaticamente esteso a chi viene percepito come diverso.

Per quanto il sentimento di essere parte di una singola umanità possa essere forte – siamo tutti mortali – dobbiamo riconoscere che il solo sentimento di umanità rappresenta un vincolo troppo debole per contrastare la forte tendenza ad applicare il principio di uguaglianza unicamente a chi viene ritenuto simile a sé.

Per contrastare questa tendenza il diritto contemporaneo ha messo a punto una propria strategia: è la strategia legata al riconoscimento dei diritto umani. Sul punto, limitiamoci per ora a questo rilievo essenziale, vedremo meglio oltre quali problemi si aprono nel momento in cui i diritti umani si affacciano sulla scena contemporanea.

Resta comunque sotto gli occhi di tutti un fatto. Affermato il principio di uguaglianza, proclamati i diritti umani, il tema della differenza – in primo luogo in termini di stili di vita e di atteggiamenti culturali – non è esaurito.

Il pluralismo proclamato dalle democrazie costituzionali contemporanee – specialmente di quelle costituite sulla base dell’idea di nazione – tuttora non incorpora fino in fondo questa dimensione dell’esperienza umana. Il valore della differenza non è sempre né pienamente espresso, né pienamente colto, sebbene a livello internazionale venga ormai frequentemente riconosciuto.

Un riconoscimento del genere si legge, ad esempio, nella Convenzione delle Nazioni unite sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali del 2005, che è stata approvata dalla Decisione del Consiglio dell’Unione europea in data 18 luglio 2006[1].

La nostalgia di una (immaginaria) comunità omogenea ha lasciato più di una traccia nel discorso intorno alla cittadinanza[2]. Lo stato costituzionale che è edificato sulla base della Costituzione repubblicana, è agli antipodi dello stato chiuso, di cui parlava Fichte all’inizio del 1800. L’Italia al pari di altri Stati europei è pienamente integrata nella vita della comunità internazionale. L’appartenenza dell’Italia e degli Stati Membri all’Unione europea ha trasformato lo stesso concetto di cittadinanza, facendo retrocedere l’idea di Stato nazione. Ma tutto questo non esclude, evidentemente, la possibilità che la comunità nazionale – o una sua componente – pensi se stessa secondo modelli che propongono l’idea di comunità omogenea, e che implicano chiusura verso chi non appartiene ad essa.

L’affermarsi di stili di vita individualizzati conduce però sempre più a riconoscere maggior spazio alla differenziazione nello spazio pubblico e nel privato.

La società contemporanea è infatti segnata da processi di individualizzazione che tendono sciogliere l’individuo dai vincoli dell’appartenenza sociale e dalle forme di vita sociale tradizionali; d’altra parte la società è sempre più tagliata sull’individuo, che affida la propria biografia a scelte rischiose, e a nuove forme di distinzione[3]. Questi processi, al cuore di una società di mercato, dovrebbero però essere governati con il conforto di teorie destinate a rendere conto in modo più adeguato del rapporto tra democrazia, pluralismo dei valori, molteplicità degli orientamenti culturali, e degli stili di vita.

 

 

2. Quali sono, ovvero quali possono essere queste teorie?

Dobbiamo partire da un dato di fatto. Tra la fine del diciottesimo secolo e il diciannovesimo secolo, sulla scia di rivendicazioni ampiamente diffuse, lo Stato ha costruito la cittadinanza smantellando le norme che segmentavano la società in ceti e classi distinte.

La storia europea è stata molto a lungo una storia di ceti e di classi separate da innumerevoli distinzioni, sancite da norme giuridiche, in gran parte di origine consuetudinaria.

I diritti riconosciuti sotto questo regime non derivavano dallo Stato, ma dalla propria condizione sociale, stabilita molto spesso alla nascita. In questo contesto, avevano ampio spazio le giurisdizioni particolari, private speciali, in quando l’idea d giustizia (e di uguaglianza) era relativa alla propria condizione sociale, era l’uguaglianza del nobile con il nobile, del borghese con il borghese, e così via[4].

L’azione dello Stato negli ultimi due secoli ha mirato ad abbattere queste disuguaglianze, per far sì che la condizione determinata dalla nascita non reggesse tutta la vita dell’individuo, si è aperta così la via della democrazia.

La tragica vicenda sfociata nell’orrore delle persecuzioni razziali durante il fascismo e il nazismo ha rappresentato una inversione di tendenza, che svela quanto sia stato complicato e discontinuo il processo che si avviò nel momento in cui una nozione generalizzata e universale di uguaglianza si mise in movimento. Si è trattato infatti di un processo non lineare, che ha incontrato forti resistenze, anche laddove non si sono affermati regimi totalitari, perché l’antico regime non è morto in un giorno[5].

Se poniamo mente al declinare dell’assetto sociale e giuridico di antico regime nel ventesimo secolo possiamo dire che, ultima a cadere in Europa, è stata la differenza legata al genere, che negava alle donne il voto, l’accesso a ampi settori del mondo del lavoro, o che disconosceva l’apporto femminile al benessere della famiglia, tramite il lavoro prestato nella famiglia.

Nel diritto di famiglia differenze profonde tra uomo e donna sono in effetti rimaste in piedi a lungo, anche dopo l’entrata in vigore delle costituzioni del secondo dopoguerra. Il tema è centrale, se si vuol comprendere cosa voglia dire uguaglianza e cosa voglia dire differenza, e come il diritto operi in proposito, come ha rilevato con R. Rubio-Marin[6].

Le costituzioni del secondo dopoguerra – come sappiamo – hanno accolto la donna pienamente nell’ordine politico, attraverso il riconoscimento dell’elettorato attivo e passivo, ma non hanno fatto scomparire l’abito sociale tradizionale che ritagliava per la donna un ruolo separato, confinato in seno alla famiglia. Nella famiglia, il marito e il padre era colui che sosteneva la vita familiare con il proprio reddito. Alla donna toccava il ruolo catturato da quel linguaggio edulcorato che la presentava come «l’angelo del focolare», linguaggio che, nella sua ambiguità, pretendeva di mitigare la condizione di diseguaglianza giuridica e di fatto in cui la donna si trovava, nobilitandola, tessendone le lodi.

Come questa disuguaglianza poteva essere mantenuta, anzi, come poteva essere giustificata, e resa pienamente legittima?

Se pensiamo alla famiglia, la leva – più esplicitamente – il condizionamento essenziale utilizzato per stabilire rapporti diseguali era legato a doppio filo ad un assunto semplice, quanto fortemente ideologico. Il matrimonio trae origine dal consenso dei nubendi, della cui libertà si faceva garante il diritto. Pertanto, con il proprio libero consenso al matrimonio, la donna avrebbe scelto – altrettanto liberamente – di aderire al regime diseguale consacrato dal matrimonio, che la poneva in posizione di subordinazione rispetto al marito.

Il quadro ora ricordato si arricchisce di una nota niente affatto secondaria. In realtà, sebbene di regola il consenso alle nozze fosse dato liberamente, per la donna il matrimonio era molto spesso anche l’unica possibilità di «uscire di casa». Un’alternativa pienamente legittima sul piano sociale raramente esisteva (salva la possibilità di prendere i voti!).

Il testo della Costituzione italiana in qualche misura aderisce a questa visione tradizionale dell’ordine delle cose, quando stabilisce che: «Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare» (art. 29, 2°co. Cost., enfasi aggiunta). La Costituzione accoglie il medesimo approccio in materia di condizioni di lavoro della donna,. Le condizioni di lavoro della donna lavoratrice devono infatti consentirle: «…l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.» (art. 37, 2° co. Cost.).

Sulla essenziale funzione familiare del marito o del padre la Costituzione tace. Più prudentemente, le costituzioni del secolo diciannovesimo, nel proclamare l’eguaglianza tacevano su tutta la materia del diritto di famiglia.

Come è stato osservato, questo modello di uguaglianza è in realtà un modello basato sull’idea di ruoli separati e non intercambiali tra uomo e donna. Si tratta di un modello protettivo di una sola parte, rispetto a cui si pone quindi un problema di reasonable accomodation, di adattamento o accomodamento ragionevole, più che di vera e propria uguaglianza di trattamento. Questo modello non rappresenta più oggi, ai nostri occhi, l’ordine naturale delle cose. Ad esempio, il congedo parentale dal lavoro è ormai diritto dell’uomo o della donna, come la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato. Il costume si prende però tuttora la propria rivincita nel momento in cui si registrano i numeri dei congedi effettivamente fruiti dall’uno o dall’altro sesso, o le attività di cura e di assistenza svolte all’interno della famiglia dall’uno o dall’altro sesso[7]. Ma questa differenza, questa separazione di ruoli, è assai meno sottolineata sul piano del diritto oggi rispetto al passato[8].

Cosa possiamo apprendere più in generale da questa vicenda legata all’evoluzione dei rapporti tra i sessi?

Dobbiamo riconoscere che il modello di uguaglianza che è stato alla base del discorso condotto in occidente negli ultimi due secoli ha avuto una funzione inclusiva e di integrazione nella vita pubblica di settori della popolazione che un tempo erano in tutto o in parte esclusi da essa.

Al tempo stesso, però, ha preteso imperiosamente un adattamento ai modelli culturali dominanti. La pretesa è stata tanto più forte quanto più la società italiana si pensava compatta in termini di adesione a valori culturali condivisi, comuni credenze e stili di vita, o per lo meno assumeva di essere tale.

Lo era davvero, compatta?

Su questo punto bisogna fare chiarezza.

 

 

3. Gli antropologi culturali, che indagano la struttura della società sanno che la compattezza di cui parliamo – utilizzando talvolta il vocabolo «identità» – è una grande favola[9].

Per missione professionale l’antropologo deve provare a vivere dentro una comunità, senza rinunciare, al proprio punto di vista, mancando il quale c’è completa assimilazione, piuttosto che osservazione partecipante.

Ebbene, cosa può dirci l’antropologo che ha fatto questa esperienza?

Ogni mondo è un mondo di mondi.

Ogni comunità presenta al proprio interno differenze, tensioni, slanci in direzioni diverse, talvolta diametralmente opposte.

Così, nell’Italia di oggi abbiamo gesti xenofobi, e gesti di solidarietà nei confronti dei migranti. Nel Sud Africa segregazionista, negli Stati uniti del separate but equal, c’erano bianchi che marciavano e lottavano insieme ai neri. Nell’epoca in cui le persone di colore potevano essere ridotte in schiavitù c’erano militanti abolizionisti che ne reclamavano la libertà. Quando gli ebrei cercarono scampo rispetto alla barbarie nazifascista, ci fu chi volle mettere a repentaglio la propria vita per proteggerli, e talvolta morì per loro.

L’immagine di una comunità omogenea è il frutto di un’illusione; se vogliamo essere più precisi: di una ideologia.

Un’ideologia che possiamo comprendere come uno strumento di oppressione, illuminato nella sua genesi e in molti dei suoi meccanismi fondamentali dalla psicologia sociale[10].

Beninteso, dietro il velo della nostalgia per la comunità omogenea si trova molto spesso il tema dell’equa ripartizione delle risorse e della povertà, che è il vero tema di cui spesso si discute, quando si parla d’altro[11]. Il rifiuto della differenza è infatti un bell’affare, quando porta con sé la negazione dei diritti, il lavoro nero, la bidonville, la marginalità o la clandestinità penalmente sanzionata per coloro che si trovano nel territorio dello Stato[12].

Mi limiterò a notare che quanto storicamente vale in relazione alla questione femminile vale in realtà per tutti i gruppi marginali nella nostra società. In relazione a tali gruppi, l’eguaglianza rischia di essere messa da parte, di essere revocata, di essere soppressa, sotto il manto delle norme che dovrebbero garantirla[13].

Teniamo presente che queste persone sono normalmente soggette a discriminazioni multiple, vale a dire ad un fardello doppiamente pesante di difficoltà. Talvolta si è in presenza di un vero e proprio stigma. Si può trattare di stigma non completamente rimosso, com’è, ad esempio, quello che riguarda la malattia mentale, mentre nel nostro Paese vi è stato un progresso significativo per quanto riguarda lo sviluppo di atteggiamenti più inclusivi verso la disabilità fisica.

Il primo passo necessario per scoprire come il diritto si può aprire alla diversità delle culture e alla loro interazione ed integrazione è comprendere quanto ho appena ricordato: in una società democratica, caratterizzata da uno stato costituzionale, si possono attuare meccanismi di subordinazione e di esclusione che riguardano coloro che vivono sul territorio semplicemente attraverso pretese avanzate in nome di (pretesi) valori culturali dominanti.

Certamente, oggi in Italia migliaia di operatori pubblici, tante organizzazioni di volontariato e religiose, milioni di cittadini impegnati a vario titolo nel sociale, lavorano per promuovere l’inclusione. La ricchezza di vita che è contenuta in questa esperienza, irriducibile ad una sola dimensione, molteplice nei suoi aspetti, è inestimabile.

 

 

4. Oggi possiamo dire di aver lasciato alle spalle varii regimi oppressivi, avendo imboccato il sentiero che è poi diventato la via maestra dell’eguaglianza generalizzata, dell’uguaglianza quale sia la cultura o l’esperienza di vita di ciascuno.

Ho cercato di mostrare il rischio dell’ipocrisia, nel presentare un assunto di questo genere come pacificamente condiviso. Infatti, se dobbiamo dare nuovamente ascolto agli studiosi della cultura, ad essere universalizzato è in realtà solo quanto ci è già noto, quanto ci è familiare[14]. L’effetto di questa tendenza è quello di assumere che i propri modelli culturali abbiano valore universale, mentre in realtà si rimane chiusi ai modelli altrui.

Questo è vero anche in relazione al tema dei diritti umani.

Molti tra coloro che si occupano di diritti umani sanno che l’argomento tratto dalla necessità di difendere i diritti umani nel confronto con Paesi non appartenenti all’Occidente, o con persone che provengono da Paesi che non hanno condiviso il percorso verso la modernità dell’Occidente, non è al di sopra di ogni sospetto[15]. Il dubbio che si agita è che questi diritti rappresentino in realtà, agli occhi di chi ha vissuto in modo traumatico il contatto con l’Occidente, null’altro che la continuazione della missione civilizzatrice che l’Occidente scelto come vessillo per imporre regimi coloniali o di dominio, se non il puro e semplice sterminio[16].

Soprattutto, ecco il monito formulato da molti dei nostri interlocutori, non chiamateli diritti umani: quasi fossero disumani i popoli non disposti a sottoscrivere immediatamente simili tavole di valori. Volete proporli e difenderli? Non colorateli dell’enfasi che li rende emblemi di civiltà[17].

Scavando nella nostra storia, senza voler sottoscrivere visioni anacronistiche, scopriamo che si può procedere altrimenti, si possono quindi evitare alcuni errori di prospettiva.

Quello che, nell’epoca attuale, è chiamata cultura un tempo era apertamente chiamato costume, consuetudine: ciascuno legittimamente ne aveva uno proprio, per quanto «selvaggio». Mancava un parametro universale, legato all’idea di uguaglianza, com’è quello che verrà messo a punto più tardi, e che ci sollecita oggi.

Con il tempo abbiamo appreso che la regola dell’uguaglianza implica il rispetto della pluralità dei valori, vale a dire la pluralità degli orizzonti, delle aspettative, e dei desideri che rendono ricca la vita in società[18]. La Costituzione italiana è esplicita in proposito: è la Costituzione di una società pluralista.

Si tratta di una lezione importante: la prima condizione per procedere insieme – cosa che dobbiamo assolutamente fare – è non umiliare l’altro, nelle pieghe della cultura altrui troviamo infatti anche qualcosa di nostro. Sappiamo di cosa si tratta: è la nostra umanità.

[1] Decisione del Consiglio del 18 maggio 2006 relativa alla conclusione della Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali (2006/515/Ce), in  Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, 25.7.2006, L. 201/15.

[2] Sul fondamento di questa ideologia: A. Burgio e A. Zamperini (cur.), Identità del male. La costruzione della violenza perfetta, Milano, 2013, e in relazione al diritto privato: M. La Torre, “Nostalgia della comunità omogenea”. Karl Larenz e la teoria nazionalsocialista del contratto, Archivio Giuridico, 1987, pp. 45 ss.

[3] In questi termini: U. Beck, I rischi della libertà: l’individuo nell’epoca della globalizzazione, Bologna, 2000; P. Bourdieu, La distinzione: Critica sociale del gusto, Bologna, 2001.

[4] G. Gorla, Il sentimento del diritto soggettivo in Alexis de Tocqueville (1946), ora in ID., Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano, 1981, pp. 14 ss.

[5] Tra gli altri: A. J. Mayer, Il potere dell'Ancien Régime fino alla prima guerra mondiale, trad. it., Bari,1999.

[6] R. Rubio-Marin, The achievement of female suffrage in Europe: on women’s citizenship, International Journal of Constitutional Law, 2014, 4-34; R. Rubio-Marin, Women in Europe and in the World: The State of the Union 201, ivi, 2016, pp. 545 ss.; R. Rubio Marin, I ruoli di genere all’interno della famiglia come questione costituzionale: il superamento della distinzuione tra diritto pubblico e diritto privato, in G. Benacchio, M. Graziadei (cur.), Il declino della distinzione tra diritto pubblico e diritto privato - Atti del IV congresso nazionale Sird, Napoli, 2016, pp. 161 ss.; per il quadro italiano: si veda l’importante studio di E. Pazé, Diseguali per legge. Quando è più forte l'uomo e quando è più forte la donna, Milano, 2013.

[7] Vedi in proposito il rapporto Istat La conciliazione tra lavoro e famiglia, 2010, Roma, 2011.

[8] V. Viale, R. Zucaro, I congedi a tutela della genitorialità nell’Unione europea Un quadro comparato per rileggere il Jobs Act, Working Paper ADAPT, 10 aprile 2015, n. 175, notano tuttavia che anche le più recenti riforme del mercato del lavoro non mancano di lasciare la porta aperta a distinzioni che riflettono modelli del passato.

[9] Il lettore italiano dispone in proposito della riflessione di Francesco Remotti, L'ossessione identitaria, in Rivista italiana di gruppoanalisi, 2011, 1, pp. 9-29; Id., L’ossessione identitaria, Bari, 2010; Id., Contro l’identità, Bari, 1996.

[10] Si veda P. Amerio, Problemi umani in comunità di massa, Torino, 2004, pp. 118 ss.

[11] Bisogna ricordare che in Europa, l’Italia è il Paese che registra le maggiori diseguaglianze nella distribuzione del reddito, seconda solo al Regno Unito: B. Sbisazza, Distribuzione dei redditi, Italia seconda in Europa per disparità, Il Sole-24 ore, 24 giugno 2013.

[12] P. Borgna, Clandestinità (e altri errori di destra e di sinistra), Roma-Bari, 2011.

[13] C. Bartoli, Razzisti per legge. L'Italia che discrimina, Roma-Bari, 2012.

[14] Z. Todorov, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, trad. it., Einaudi, 1989.

[15] Per una riflessione appropriata: L. Roniger, Multiple Modernities ‘East’ and ‘West’ and the Quest for Universal Human Rights, in Preyer-Sussman (cur.), Varieties of Multiple Modernities, Leiden, 2015, pp. 122 ss.

[16] S. Ferlito, Le religioni, il giurista e l’antropologo, Roma, 2005,  p. 30.

[17] Per considerazioni validissime in merito: M. Ricca, Culture interdette. Modernità, migrazioni, diritto interculturale, Torino, 2013.

[18] R. Macdonald, Legal Republicanism and Legal Pluralism, in M. Bussani – M. Graziade (cur.), Human Diversity and the Law, Bruylant, Brussels, 2005, pp. 43-70.