Processi culturali e spazi giuridici.
Dal Bangladesh all’Italia: migrazioni, protezione umanitaria e reinterpretazione del divieto di patto commissorio
Il saggio tratta delle relazioni tra categorie culturali e categorie spaziali nella prospettiva giuridica. Si muoverà da un’analisi delle relazioni esistenti, e spesso intessute di tragiche vicende, tra debiti migratori e richieste d’asilo. Il tema è affrontato con un approccio multidisciplinare di tipo antropologico-giuridico. L’indagine si basa su una ricerca sul campo condotta tra i richiedenti asilo in Italia provenienti dal Bangladesh. Per mezzo di una lettura interculturale e corologica – cioè, semantico-spaziale – si analizza l’incontro tra culture e spazi d’esperienza differenti nello spettro del diritto. Il saggio propone una soluzione legale alle situazioni vissute da richiedenti asilo in Italia e suscettibili di essere qualificate in termini di tutela umanitaria. A questo risultato si perviene mediante una reinterpretazione inter-spaziale del divieto di patto commissorio (art. 2744 cod. civ.) e delle sue implicazioni rispetto ai diritti umani. Più in generale, l’uso interculturale dei diritti e del diritto – compreso il diritto interno degli Stati – potrebbe gettare le basi per un pluralismo articolato a partire dai valori, come tale idoneo a promuovere l’inclusione della differenza culturale dal livello locale sino a quello globale. Inoltre, se accoppiato all’approccio corologico, esso potrebbe consentire ai soggetti sociali di superare i limiti intrinseci a un pluralismo strettamente inter-normativo e/o inter-ordinamentale, così come alla cd. inter-legalità, e di esercitare la propria creatività culturale proprio attraverso le potenzialità del discorso giuridico.
Immigrato: Non capisco più cosa vuole mia moglie (senegalese) …
Avvocato: … che vuole fare, è diventata italiana!
Immigrato: No, è molto peggio che italiana, non so più dove collocarla.
1. Prologo
Una libbra di carne a garanzia del debito. Shylock si reincarna in ogni dove e aleggia sempre e ovunque vi siano rotte di viaggio rischiose. L’incertezza, il bisogno, sono la sua linfa. Una sorta di mistura diabolica che gli consente di materializzarsi in ogni luogo, attraversando le epoche. Non importa che il suo corpo-ospite appartenga a un ebreo, un musulmano o un cristiano; svedese, africano o pakistano. Basta sia «umano». Un Antonio su cui accanirsi è sempre a portata di mano.
Una libbra di carne a garanzia del debito; talvolta anche corpi interi. Pezzi di vita, esistenze in ostaggio. È questo il controvalore che molti aspiranti migranti, a corto di mezzi economici per partire, sono costretti a offrire. Spesso non hanno che il proprio corpo, la propria capacità di lavorare, come garanzia da prestare pur di ottenere i soldi per la partenza. È notorio: si tratta della premessa per situazioni di asservimento[1].
I migranti si fanno servi volontari. Agiscono così per evitare il peggio, per sventare la minaccia di vedere annientato il loro mondo personale e familiare. Conseguenza del mancato pagamento del debito, fornito nella generalità dei casi a interessi ultra-usurai, sono però svariate forme di ritorsione. I creditori minacciano spesso i familiari dei migranti, in modo diretto o indiretto. Quando è possibile, la minaccia si concretizza in una sorta di confisca integrale. Se il migrante e i suoi familiari possiedono case, terreni, locali per l’esercizio di attività commerciali, tutto viene risucchiato a saldo del debito migratorio.
Chi non riesce a pagare, magari perché il suo progetto di vita all’estero è andato in frantumi, ha la stessa sorte di un giocatore alla roulette russa. Perderà ogni cosa, anche il poco che ha, e lo farà perdere a tutta la famiglia o alla rete familiare che su quel poco sopravvive facendo già la fame. In qualche caso, i patti di prestito, redatti in forma di contratto, prevedono persino il «diritto/potere» del creditore di infliggere punizioni fisiche a chi resta a fare da ostaggio[2].
Su tutto questo si staglia, a spezzare quei cuori già dati in garanzia, l’implacabile distinzione – oggi in voga – tra «rifugiati» e «migranti economici». Chi parte di sua volontà e non è costretto a scappare – questa, in soldoni, la summa divisio applicata dalle Commissioni delle richieste d’asilo e dalla giurisprudenza italiana e comunitaria, anche se in modo tacito – è etichettato come «migrante economico». Non è rifugiato politico, né profugo da Paesi in guerra. Può dunque tornare a casa «sua», a cedere la sua libbra di carne e magari qualcosa di più. Un destino che si avvererà quasi certamente. Anche perché ad arginare lo Shylock pronto a sbranare il migrante indebitato e respinto dal Paese di approdo – quindi impossibilitato a riscattare la sua libertà – non ci sarà (quasi) mai una Porzia travestita da dottor Bellario e un giudice equo disposto ad ascoltarla[3].
Il migrante ha dato in garanzia se stesso, i suoi familiari e i suoi beni. Tornato a casa a mani vuote, dovrà pagare senza scampo. L’asilo, del resto, si dà solo a chi scappa, non a chi non può tornare dopo essere voluto partire di sua sponte – è questo il refrain intonato dall’opinione pubblica dei Paesi occidentali. Sul crinale di questa distinzione, s’arresta la disponibilità all’accoglienza (dei più sensibili) tra gli ordinamenti statali. Di fronte a simili vicende, è possibile, doveroso e legittimo alzare l’asticella della tutela umanitaria? A un’attenta disamina delle normative in materia, noi crediamo di sì. A questa conclusione – come si vedrà – conduce un approccio corologico-interculturale ai testi di legge e alle loro proiezioni applicative.
Chi risponde no, per intuibili ragioni di opportunità, è comunque invitato a fare un esperimento metaforico, un esercizio di traduzione interculturale. Sarebbe disposto a dichiarare, di fronte al mondo, che l’Antonio del Mercante di Venezia avrebbe dovuto essere lasciato nelle mani di Shylock? Che questo tipo di giustizia sarebbe in linea con la odierna tutela dei diritti umani? Nel rispondere sia prudente, però. Il pianeta pullula di migranti sotto scacco. Ciascuno di essi potrebbe dire: «il mio nome è Antonio»!
Uno tra gli «Antonio» scelti per questa indagine è Robel, è arrivato in Italia dal Bangladesh per fuggire dalla Libia caduta in mano all’Isis, ed è nelle mani di uno Shylock del Bengala … che in fatto di ferocia ha davvero poco da invidiare alle tigri che scorrazzano da quelle parti. Tra le due categorie di mammiferi corre, però, una differenza. A causa della deforestazione e dello sterminio da parte degli umani autoctoni, che la considerano «animale pericoloso», la tigre del Bengala è ormai a rischio estinzione. E invece, grazie alle migrazioni degli indigenti e all’inerzia delle autorità locali, gli Shylock bengalesi, decisamente più pericolosi dei felini striati, prosperano e si moltiplicano. Del resto, loro sono tigri globali. Potrebbe non sembrare così, eppure il loro effettivo ambiente di caccia è diventato e coincide con lo spazio planetario.
La piaga dell’usura nella regione bengalese traspare anche dalle alterne vicende della Grameen Bank, ideata dal premio Nobel bangladese Mohammad Yusuf, campione mondiale del microcredito. Le reiterate accuse mosse a suo carico e dirette a contestargli di esercitare attività usurarie ai danni dei più poveri, soprattutto donne, narrano una storia ambigua, a tinte fosche. Lungo le orme della Grameen Bank ci si imbatte anche in altre attività, condotte pure sotto la bandiera del microcredito da molti altri istituti di credito del Bangladesh e dell’India. Dichiarano tutte di ispirarsi al modello ideato da Yusuf, su tutte aleggia lo spettro di uno sfruttamento spietato ammantato di pelosa solidarietà.
2. Viaggi indebiti
Alì vive in uno delle centinaia di Centri di accoglienza per richiedenti asilo fioriti sul territorio italiano negli ultimi anni a seguito delle politiche di «esternalizzazione» dei servizi per i profughi. È isolato, assieme a molti altri suoi compatrioti del Bangladesh e ad altri richiedenti africani, in una cascina a trenta chilometri da Siena. Qui non passano autobus. Il paesino più vicino è a sei chilometri di strada tra i boschi e offre un bar tabacchi e alimentari, e niente più.
Alì e i suoi compagni trascorrono le giornate guardando la televisione, parlando al cellulare, e ricucinando il cibo che ricevono, già pronto, una volta al giorno.
Seduti nella sua stanza, che condivide assieme ad altri tre Bangladesi, Alì mi racconta la sua storia.
«La mia famiglia non era povera, anzi. Avevamo un bel negozio, una casa e della terra. Gli affari mi andavano bene ed io ne ho comprata dell’altra. Poi ho iniziato ad assumere anfetamina, con gli amici. All’inizio era un gioco, ma poco alla volta sono diventato dipendente, e la mia vita si è trasformata in un inferno. Ho dovuto cedere la terra che avevo preso, la mia motocicletta, e tutto il magazzino del negozio. A un certo punto mi sono reso conto che non potevo andare avanti così. Ho figli, una famiglia, non potevo fargli questo. Allora ho smesso di assumere droga, e ho deciso di partire per la Libia, dove avrei potuto ricostruire un piccolo capitale con cui ricominciare. Ho contattato il dalal, un intermediario, che mi ha chiesto 4,5 lakh di taka [450000 taka, circa 5500 euro][4] per il viaggio e il visto di lavoro in Libia. Per trovare questi soldi ho dovuto chiedere un prestito a un uomo d’affari della mia zona. Era un bada admi (grande uomo) locale, uno che ha contatti con tutti e che nella mia area la fa da padrone. Mi ha dato i soldi a un interesse del 3% mensile. Ha fatto firmare l’atto di vendita della nostra casa e della terra a tutti i miei famigliari. Quindi in calce, nel foglio in cui erano scritte le condizioni del prestito, ha fatto firmare me. Gli atti di vendita li ha tenuti lui. Se non riesco a ripagare il debito (r̥iṇ) li registra e tutto passa a lui.
Sono partito per la Libia. A Tripoli mi aspettava un uomo del dalal. I miei documenti erano a posto. A volte non vanno bene, e allora bisogna pagare altri soldi alla polizia di frontiera per poter entrare nel Paese. Il dalal in Libia mi ha portato in una casa con altri. Ci sono stato una settimana. Poi attraverso dei miei contatti sono andato a vivere altrove. Ho trovato lavoro in una fabbrica. Mi pagavano 500 Dinar al mese. Sono riuscito anche a ripagare parte del mio debito. All’inizio andava bene. Ma poi la situazione in Libia è degenerata. La guerra e gli scontri hanno reso tutto difficile. In Libia ti rubano tutto. Quando cammini per strada ti fermano e ti minacciano con pistola e coltello. Ti rubano il cellulare, i soldi, a volte anche i vestiti. I salari hanno iniziato a essere pagati ogni due mesi, poi ogni tre. Le commissioni per mandare i soldi a casa sono arrivate al 50%, per spedire 200 Dinar ne dovevi dare 400 all’agente. Un giorno la mia fabbrica è stata bombardata. Il mio passaporto era lì dentro, lo teneva il proprietario per dimostrare che lavoravamo per lui. Io non sapevo cosa fare.
Nei giorni successivi, mentre giravo in cerca di lavoro, la polizia mi ha fermato. Non avevo i documenti e così mi hanno arrestato. Eravamo in venti in una stanza minuscola. Ci davano da mangiare una volta al giorno, e sempre una volta al giorno ci facevano andare ai servizi. Durante la giornata dovevamo fare i nostri bisogni nelle bottiglie, o per terra. Un giorno eravamo così stravolti che, quando ci hanno fatto uscire, sette di noi hanno iniziato a correre verso il muro di cinta del carcere per tentare la fuga. Io ero tra loro. Siamo riusciti a scavalcarlo mentre i poliziotti sparavano in aria. Appena fuori io ho iniziato a correre come un matto. C’erano almeno cinque automobili che ci cercavano in giro. Io sono riuscito ad arrivare a casa di un amico e mi sono messo in salvo. So che almeno altri tre sono stati ripresi e torturati.
A quel punto ho parlato con un intermediario libico, che mi ha chiesto cosa volevo fare. Poteva procurarmi un documento falso per rimanere in Libia a lavorare. Ma la polizia mi cercava e la situazione in Libia era disperata. Se avessi voluto tornare in Bangladesh mi sarebbe costato, tra documenti falsi e biglietto, almeno 2500 Dinar. Oppure sarei potuto andare in Italia, e mi sarebbe costato solo 600 Dinar. Io sapevo che andare in Italia era rischioso, ma cosa potevo fare? Mi sono detto che era meglio morire in mezzo al mare piuttosto che farlo a Tripoli, ucciso dalla polizia, dagli scontri o dalla fame; o tornare in Bangladesh senza ripagare il debito, che avrebbe voluto dire perdere tutto e forse anche la vita. Il problema è che non avevo più soldi. Allora ho chiamato la mia famiglia. Non gli ho detto che volevo andare in Italia, ma solo che avevo bisogno di soldi per un problema con la polizia. Non volevo farli preoccupare. Mi hanno fatto arrivare altri 50000 taka, che si sono aggiunti al debito che già avevo.
Ho fatto il viaggio e ora sono qui, vivo. Allah mi ha aiutato. Ma ora per ogni mese che non mando soldi a casa il mio debito aumenta. E più aumenta, più diventa difficile per me e la mia famiglia riuscire a estinguerlo».
Razel, un altro richiedente del Bangladesh in un Centro in provincia di Firenze, ha venduto la terra per ottenere 200mila taka per pagare l’intermediario, e ha firmato un atto di vendita della propria casa per avere i restanti 250mila da un usuraio della sua zona. Mohammed, invece, ha firmato l’atto di vendita della terra, ora in mano all’usuraio come garanzia del prestito che gli ha elargito. Entrambi non sono stati fortunati come Alì, e devono ripagare il prestito al 4% mensile. Per entrambi, tuttavia, il seguito della storia è molto simile a quello di Alì, e dopo uno o più anni di lavoro in Libia sono stati costretti a fuggire verso l’Italia, spesso a seguito di esperienze traumatiche.
Questo schema sembra ripetersi per una buona parte dei richiedenti asilo del Bangladesh, arrivati più o meno recentemente in Italia dalla Libia e con cui abbiamo potuto parlare[5].
Il Bangladesh è uno degli Stati più poveri del mondo. Metà della sua popolazione vive con meno di 1,2 dollari al giorno e quasi un terzo è al di sotto della soglia di povertà. Nel 2012, circa il 40% della popolazione era sotto-occupata[6]. La mancanza di occupazione, la povertà diffusa e il mancato rispetto dei diritti umani spingono molti dei suoi abitanti a lasciare il Paese in cerca di lavoro. Inoltre, la generale scarsità di terreni coltivabili e di altre risorse naturali in relazione alla grandezza della popolazione, aggiunta alla frequente esposizione del territorio sia a inondazioni sia a siccità, hanno rappresentato seri ostacoli ai programmi di sviluppo e hanno intensificato le divergenze di interessi e i conflitti per l’uso delle scarse risorse disponibili tra gli abitanti del Paese[7].
Come riportato da molti studi[8], la storia di Alì rispecchia le modalità attraverso cui questi viaggi di lavoro transcontinentali vengono organizzati. Le numerose agenzie che si occupano di tali questioni si prendono in carico l’organizzazione del viaggio, l’accoglienza iniziale nel Paese di approdo e l’ottenimento del visto di lavoro. Talvolta, esse offrono anche la possibilità di trovare un impiego. Sotto tali agenzie, alcuni intermediari aiutano gli aspiranti migranti a completare tutta la trafila burocratica per ottenere il passaporto e gli altri documenti richiesti. Nelle parole di Rahman:
[…] sub-agents assist prospective migrants with a wide range of activities such as paperwork, passports, bank accounts, medical checkups, and transportation to the airport. In addition to facilitating the actual migration process, they sometimes vouch to the traditional moneylenders that their potential clients have already secured jobs [abroad] and therefore are eligible for credit. They can even act as guarantor for some potential migrants who otherwise could not secure loans for migration, expanding the role of sub-agents beyond the simple matching task[9].
Il ruolo di questi intermediari, che agiscono spesso in parallelo a loro colleghi residenti nei Paesi di destinazione dei migranti, ci permette di approfondire meglio l’aspetto fondamentale di questo sistema: quello del debito e della credibilità.
Come in ogni sistema basato sul prestito, infatti, anche qui alla base della possibilità di ricevere il capitale necessario a intraprendere un’attività stanno le garanzie che una persona è in grado di fornire. Essere credibili, degni di credito, è la condizione necessaria per poter instaurare quella relazione debitoria che è al centro dell’impresa migratoria della maggior parte dei Bangladesi espatriati[10].
Gli intermediari, i dalal, oltre al lavoro di supporto burocratico, agiscono infatti per i potenziali migranti anche come mediatori di credito, fornendo garanzie per la restituzione del prestito concesso loro dagli usurai (mohajan) locali.
Secondo alcune stime, questi usurai locali prestano denaro a un interesse che può raggiungere il 60% (ed in alcuni casi arrivare addirittura al 100%!). Chi non ha garanzie da dare è costretto quindi a trovare garanti locali che co-firmino il contratto di prestito e che ricevono in cambio il 10% del valore del prestito per ogni anno in cui la garanzia viene fornita[11]. Già da questa prima ricognizione sulle pratiche locali di accesso al credito, si può intravedere in filigrana come il sistema di credito informale locale alla base dei processi migratori si fondi su catene di garanzia e reti sociali intrecciate con differenti modalità relazionali.
L’attenzione al concetto di «credibilità» ci conduce più a fondo nei meccanismi di tale sistema. Esso ci aiuta a coglierne l’aspetto profondamente sociale, relazionale e gerarchico, liberando l’analisi da concezioni meramente individualistiche e individualizzanti del migrante come «homo economicus», e del sistema in sé come un mercato inteso in senso economicista. Visti da una prospettiva integrata, tali meccanismi appaiono invece inseriti a pieno in dinamiche che coinvolgono il migrante in quanto nodo di reti molteplici, che lo rendono al tempo stesso imprenditore e lavoratore dipendente, debitore e potenziale creditore, privilegiato e subalterno, autonomo e schiavo, razionale e in balìa di logiche non controllabili. Tale carattere ambiguo e multi-prospettico del sistema può portare, come analizzeremo in seguito, a potenziali cortocircuiti giuridici nel momento in cui la complessa situazione bangladese si rifrange sul sistema legale italiano in casi specifici quali quelli di richiesta d’asilo o di sfruttamento lavorativo.
Ma vediamo ora come la «credibilità» si traduce in forme empiriche di debito che coinvolgono sia i beni delle persone, sia il loro lavoro, sia le persone stesse intese come oggetti.
3. Le forme del debito nella migrazione lavorativa dall’Asia del Sud
Le due principali forme contrattuali attraverso cui il migrante stabilisce la propria relazione con i dalal sono il contratto «fisso» (fixed) e quello «condiviso» (shared).
Nel primo caso, la persona s’impegna a versare una cifra stabilita, che copre tutte le spese e i servizi forniti dall’agenzia privata per la migrazione. Usualmente, il prezzo prevede anche l’accoglienza al porto d’arrivo e l’ospitalità per alcuni giorni, fino a che il migrante non riesce a trovare appoggio presso amici o conoscenti. Talvolta, gli accordi prevedono anche che il dalal presente nel Paese di migrazione trovi un lavoro al migrante. Il denaro per pagare tali prestazioni viene spesso in parte o integralmente ottenuto tramite prestiti a usura, sebbene non siano rari i casi di migranti che sono riusciti a far fronte al costo del progetto migratorio grazie a risparmi personali e/o alla vendita di beni propri o della famiglia (terre, negozi ecc.). Non sempre quindi la migrazione presuppone un debito verso esterni, sebbene sia sempre legata alla creazione di un debito verso la propria famiglia, che prende in carico le spese per far sì che uno dei suoi membri possa partire all‘interno di un progetto condiviso di miglioramento economico. Nell’un caso come nell’altro, tuttavia, e come cercheremo di mostrare tra poco, il debito si configura come funzione delle reti sociali in cui è inserito il migrante, producendo e riproducendo legami e responsabilità che eccedono una lettura «individualizzante» del percorso migratorio.
La seconda forma di contratto di migrazione, lo shared contract, presuppone fin dall’inizio lo stabilirsi di un rapporto debitorio con il dalal o il trafficante. Esso prevede che il migrante accetti di lavorare per il trafficante nel Paese di destinazione fino a che tutti i costi di migrazione siano stati ripagati[12]. Naturalmente, al costo iniziale vengono applicati interessi usurai, e le condizioni di vita e di lavoro del migrante sono scandite da pratiche continue di controllo che rendono la sua condizione simile a quella di uno schiavo. Il ritiro del passaporto, orari di lavoro estenuanti, l’impossibilità di allontanarsi dal posto di lavoro (dove spesso i migranti vengono anche fatti dormire), e l’incertezza circa la possibilità di saldare quanto dovuto (spesso anche per la totale arbitrarietà dell’interesse applicato al debito), sono caratteristiche di molti casi in cui lo shared contract è il tipo di relazione istituita con il trafficante.
Sebbene nello shared contract entrino costitutivamente tutte quelle forme di dipendenza che possono risolversi in veri e propri casi di schiavitù, anche il fixed contract può spesso rivelarsi un’arma a doppio taglio, sia per la necessità per molti di pagare il dovuto creando debiti con usurai locali, sia per il verificarsi di vere e proprie truffe.
Salman, dopo aver pagato 500mila taka per andare in Libia, all’arrivo a Tripoli viene prelevato all’aeroporto dal dalal Bangladese locale assieme a un complice libico. Questi gli ritirano il passaporto e lo chiudono in una casa con altre dodici persone del Bangladesh. I due carcerieri contattano le loro famiglie chiedendo altri 50mila taka ciascuno per liberarli. I tredici prigionieri, dopo venti giorni, riescono a sfondare la porta e fuggire. La loro avventura migratoria inizia non solo in modo tragico, ma li costringe da allora in poi a vivere in Libia senza passaporto, aumentando il rischio di soprusi sia da parte dei datori di lavoro sia da parte della polizia[13].
Siamo quindi di fronte a una costellazione di pratiche che presuppongono lo stabilirsi di relazioni di dipendenza, esplicita o potenziale, tra il migrante e una serie di altri soggetti che gravitano nel circuito preso in esame. È importante qui esplicitare come tali relazioni siano spesso la continuazione nell’ambito dell’impresa migratoria di rapporti qualitativamente simili in cui le persone si trovano quotidianamente coinvolte. Con questo intendiamo dire che spesso relazioni di dipendenza lavorativa, o di debito già esistente, possono trasformarsi in relazioni di dipendenza e debito nell’ambito migratorio, spostando di piano, ma non di livello, rapporti preesistenti.
Se prendiamo ad esempio il caso del lavoro asservito (bonded labour), ci troviamo di fronte, almeno per quanto riguarda il Sud Asia, a una presenza sistemica di questo tipo di relazioni. Con il termine «sistemico», alludiamo qui a situazioni che non sono semplici eccezioni a condizioni di lavoro regolato e legale, ma a relazioni che formano una parte consistente dei rapporti con manodopera. In India, ad esempio, nel 2006 si trattava, secondo una stima dell’antropologo Djalal Heuze, di una percentuale tra lo 0,5 e il 10% a seconda delle regioni e dei settori[14].
Anche il Bangladesh e il Pakistan conoscono questo tipo di relazioni, squalificando quindi una semplice lettura «castale» del fenomeno, come talvolta antropologi e politologi sono portati a fare. Sebbene dunque non sia la casta, o non solo essa, a spiegare l’instaurarsi, il proliferare e il perdurare di simili relazioni, appare tuttavia come tale fenomeno abbia alcune sue peculiarità concernenti l’area geografica culturale presa in esame.
Come abbiamo mostrato attraverso l’esame dei casi presentati finora, il debito è certamente l’aspetto centrale per il mantenimento di tali rapporti sbilanciati fino, talvolta, all’asservimento.
Il rapporto tra debito, dipendenza e migrazione ha quindi due vettori speculari di attivazione. Per un verso, il progetto migratorio spesso instaura catene debitorie che possono risolversi o in lavoro asservito nei Paesi di destinazione o nella perdita dei mezzi di sussistenza (se il debito non viene restituito per il fallimento del percorso migratorio) che genera quindi forme di lavoro asservito e dipendenza economica in Bangladesh. Per altro verso, è proprio nei confronti di situazioni di dipendenza locali già instaurate che spesso il progetto migratorio si pone come unica via di uscita, ovvero come il tentativo di rendersi indipendenti attraverso il mezzo provvisorio di un aumento del proprio debito.
Dal punto di vista generale, quindi, la migrazione di gran parte dei Bangladesi si mostra come un progetto spesso collettivo, ovvero gestito da famiglie piuttosto che da singoli, che attiva reti esistenti di dipendenza e debito che assumono forme ibride. Gran parte dei Bangladesi intervistati per questo articolo, ad esempio, hanno differenziato i canali attraverso cui ottenere i capitali necessari alla migrazione. Questi possono essere risparmi propri, soldi presi a prestito da familiari (a interessi nulli o molto bassi, o con la promessa di una cifra aggiuntiva forfettaria di «premio» in caso di successo dell’impresa migratoria), la vendita dei beni familiari (terra, immobili, beni mobili quali animali, veicoli ecc.), il ricorso al microcredito o a banche (con interessi bassi ma, allo stesso tempo, con la possibilità di ottenere solo cifre ridotte), e infine il ricorso a usurai.
È precisamente su quest’ultima forma di accesso al credito che vorremmo ora approfondire l’analisi, dal momento che riteniamo che esso attivi forme di sopruso riconosciute dalla legislazione italiana (e come vedremo solo in parte da quella del Bangladesh), la cui tutela possa essere situata sull’orizzonte della protezione dei diritti umani, qualora si intendano questi ultimi come il prodotto della inter-traduzione di pratiche e valori mediati da tempi e spazi diversi, e non come il semplice terreno già dato sul quale le forme empiriche di sfruttamento possano essere o meno fatte rientrare.
Come già accennato, i mohajan, termine che identifica in Asia del Sud chiunque presti soldi ad usura[15], sono spesso persone inserite nelle reti di potere locali, a livello sia economico sia politico. Sebbene anche proprietari di negozi di media grandezza o di appezzamenti di terra di medie dimensioni spesso pratichino tale attività, per ottenere cifre significative ci si deve usualmente rivolgere a personaggi di un certo livello, che non solo hanno a disposizione quantità di denaro liquido adeguate, ma anche la possibilità «concreta» di riavere indietro il denaro prestato qualora vi siano problemi nella restituzione.
Le reti gerarchiche di potere e subalternità che caratterizzano la vita sociale dell’Asia del Sud sono quindi le stesse all’interno delle quali il debito per la migrazione viene instaurato, ponendo tale relazione in un contesto di controllo politico e sociale da cui difficilmente il debitore può riuscire a liberarsi secondo modalità legali di ricorso alla giustizia ufficiale.
Nel prossimo paragrafo metteremo in luce le reti sociali ed economiche attraverso cui i migranti come Robel/Antonio, le cui vicende saranno al centro dell’analisi nella seconda parte di questo saggio, costruiscono la propria impresa migratoria: vale a dire, ciò che si nasconde dietro un debito.
4. La vita sociale del debito
Ci occuperemo qui principalmente di chiarire i presupposti sociali e il contesto politico del tipo di debito che maggiormente abbiamo riscontrato nel nostro lavoro di ricerca con, e di assistenza ai, richiedenti asilo del Bangladesh, cioè il contratto anticipato (fixed). Tale tipo di contratto prevede, come già accennato, il pagamento di una quota fissa alle agenzie per migranti: pagamento che esclude (sebbene talvolta si verifichino casi di truffa o vero e proprio «rapimento» una volta che i migranti siano giunti nel Paese di destinazione) una relazione debitoria continua con gli intermediari. Nel fixed contract, il problema principale per gli aspiranti migranti è quello di mettere assieme il massiccio capitale necessario a intraprendere il proprio viaggio, e di farlo ottimizzando il più possibile il rapporto tra rinuncia a beni e capitali già in proprio possesso (la cui perdita immediata tramite vendita o cessione non deve compromettere la capacità produttiva e le necessità di sostentamento di chi rimane) e la costituzione di un rapporto debitorio, in cui l’ammontare di capitale e interesse non mettano a repentaglio la possibilità di una restituzione. In altre parole, i migranti e le loro famiglie usano strategie di pagamento miste per raccogliere le cifre necessarie al pagamento dei dalal, attingendo ai propri risparmi, vendendo parte dei loro beni, prendendo a prestito da parenti e amici o dalle banche a interessi convenienti e infine creando debiti con gli usurai. La cospicuità della cifra necessaria, tuttavia, rende il ricorso agli usurai spesso obbligato, costringendo le famiglie a instaurare un complesso equilibrio economico-finanziario delle proprie risorse e ipotecando, inevitabilmente affidandosi agli esiti di una vera e propria scommessa, le speranze di emancipazione future.
Per comprendere la logica di tali precari equilibri, e come gli Shylock locali vi si inseriscano con strategie di credito ben calibrate al fine di ottimizzare il proprio guadagno, è necessario partire dalla descrizione dell’unità socio-residenziale e parentale di base del Bangladesh rurale, il bari.
Tale descrizione risulta utile ai casi trattati, soprattutto perché la maggioranza dei richiedenti asilo bangladesi proviene da aree rurali, solitamente piccoli villaggi inseriti in reti di alleanze matrimoniali, scambi commerciali e amministrazione politica con altri villaggi simili, piccole cittadine e più grandi centri urbani.
Il tipico villaggio rurale bangladese è composto da un insieme di quartieri denominati para, che sono a loro volta formati da gruppi di poderi, i bari. Le persone residenti in un para sono solitamente appartenenti a un unico lignaggio patrilineare e talvolta praticano la stessa occupazione (agricoltura, pesca, attività artigianali). Spesso, i residenti condividono anche la stessa appartenenza religiosa.
Ecco come Chen descrive un tipico agglomerato rurale del Bangladesh:
«All’interno del para si trovano un certo numero di bari o poderi nascosti dalla vegetazione e interconnessi da sentieri ben riparati. Il bari è usualmente composto di 5-6 ghors o capanne che si affacciano attorno a una singola aia. I residenti di un bari, divisi in famiglie che vivono in ghors [case] separate, sono membri di una famiglia patrilineare a vari stadi del ciclo di vita familiare. Potenzialmente, i residenti includono un padre, una madre, i figli con le loro mogli e bambini, e le figlie finché non si sposano o tornano a casa»[16].
In molte delle storie raccolte con i richiedenti bangladesi, il bari torna come luogo e metafora allo stesso tempo della solidarietà della famiglia allargata o della sua potenziale crisi, da cui talvolta scaturisce la necessità di migrare. Prendiamo ad esempio la storia di Naim.
«Io facevo il commesso in un negozio nella città di Comilla. Un giorno sono tornato a casa e mio padre e i suoi due fratelli avevano fatto la divisione del bari in tre parti. Mio nonno era morto da qualche anno e avevamo aspettato a fare la divisione, ma ora improvvisamente torno e la trovo fatta. Mi sono subito reso conto che le parti erano profondamente ingiuste, e che i miei zii si erano approfittati del fatto che io fossi via e mio padre fosse solo, senza che io potessi appoggiarlo. Abbiamo litigato con i miei zii e gli ho detto che se non si fossero rifatte le parti in modo equo sarei andato a denunciare il fatto alle autorità. Quando sono tornato a Comilla per lavorare, pochi giorni dopo, i miei zii hanno aggredito mio padre e gli hanno detto che se mi fossi permesso di andare alla polizia a denunciare il caso in due famiglie contro una non avrebbero avuto problemi a farcela pagare, soprattutto a me. Mio padre si è davvero spaventato per le minacce. Non sapeva cosa fare. Sapeva che io non avrei desistito, ma allo stesso tempo era anche consapevole che i miei zii erano più forti e non avrebbero esitato a fare qualsiasi cosa per mantenere la divisione così come era. Per questo ha contattato un dalal e ha organizzato il mio viaggio in Libia. Mi ha detto: «Se tu rimani qui finisce male, lo so, e noi non possiamo permetterci né di perdere te, né di lasciare la nostra casa». Non potevo andare contro il volere e i timori di mio padre, così sono partito[17]».
Per partire, la famiglia di Naim ha preso in prestito da un usuraio locale 440mila taka a un interesse del 36% annuo. In garanzia, hanno dato l’unica cosa che possedevano: il terzo (scarso) del bari di famiglia, ovvero la loro parte di eredità[18].
In altre occasioni, i parenti (sia consanguinei che affini) collaborano invece in modo solidale con la famiglia. È il caso ad esempio di Suman, che riceve 200mila taka dallo zio, che non vuole alcun interesse ma che, in caso di fallimento del progetto migratorio del ragazzo, otterrà in risarcimento una parte dell’eredità familiare ancora indivisa per il valore corrispondente al prestito.
Spesso parenti di vari gradi, dal lato sia della famiglia del padre sia della madre, prestano piccole cifre (10-20mila taka), o senza interessi o con la promessa che, alla restituzione, una piccola cifra forfettaria e a piacere sarà aggiunta al capitale prestato. Tali pratiche contraddittorie mettono in luce dinamiche familiari complesse, situate ora dal lato della reciprocità – con l’attuarsi di una solidarietà «calcolante», che prevede la registrazione di ciò che è dato, di ciò che è preso e dello scarto da colmare – ora invece decisamente poste sul versante della competizione su risorse comuni – dove soprattutto i consanguinei si trovano, al momento della divisione dell’eredità paterna o del nonno, a testare forze e volontà reciproche nel tentativo di massimizzare il proprio profitto a scapito dei nuclei più deboli.
Non è un caso che una buona parte dei minori richiedenti asilo le cui storie abbiamo avuto occasione di raccogliere, o coloro i quali hanno lasciato il Bangladesh per recarsi in Libia ancora minorenni (e che hanno poi trascorso alcuni anni ivi lavorando), hanno dovuto lasciare il loro Paese proprio a seguito di simili situazioni conflittuali all’interno del bari e della famiglia allargata. Spesso, infatti, nello svolgersi del ciclo familiare la morte di un avo a cui è intestata la proprietà familiare indivisa produce tensioni che si risolvono nella fissione dei vari nuclei familiari e nella divisione dell’eredità. Tuttavia, tale processo raramente è lineare e spesso non è pacifico, e le famiglie economicamente e numericamente più forti tendono a ritagliare per se stesse fette più ampie del patrimonio. Le famiglie il cui figlio maggiore navighi in quell’età di mezzo, tra i quattordici e i sedici anni, in cui non si è più «bambini» e non si è ancora completamente uomini, si trovano quindi nella scomoda posizione di non avere ancora un «erede» in grado di porsi come figura giuridicamente autonoma. Il giovane può così facilmente divenire il bersaglio di attacchi e minacce da parte dei fratelli del padre che, così facendo, mettono in discussione la capacità e la possibilità della famiglia di difendersi e di «riprodursi» socialmente. L’allontanamento del minore e la sua migrazione, in questi casi, si configurano quindi allo stesso tempo come mossa di protezione del soggetto, sottraendolo ai rischi cui potrebbe andare incontro, e strategia familiare di accrescimento delle proprie risorse economiche e simboliche in vista di un futuro ribilanciamento delle forze in gioco e di un potenziale riscatto. Come accennato in precedenza, la scarsità di terreni coltivabili in Bangladesh in relazione alla popolazione aumenta la competizione a tutti i livelli del tessuto sociale[19]. Il bari è una risorsa fondamentale nel mondo rurale, configurandosi come un’unità produttiva multifamiliare che permette di far fronte ad alcune esigenze di base. All’interno del bari si ritagliano piccoli appezzamenti di terreno per allevare polli e, talvolta, una stalla in cui tenere qualche vacca. Un orto, che copre parte del fabbisogno alimentare delle famiglie di un bari, occupa sempre una porzione dello spazio del podere. Alla crescita demografica di una famiglia, corrisponde quindi la diminuzione pro-capite di tali risorse e si instaurano dinamiche conflittuali per la loro redistribuzione lungo le linee di fissione del gruppo agnatico.
La terra coltivabile è un altro fattore di conflitto sia, come nel caso del bari, tra i nuclei che compongono una famiglia allargata, sia invece tra le famiglie dello stesso para (quartiere, vicinato) o dello stesso villaggio. Il caso di Ripon, un ragazzo minorenne, è esplicativo al riguardo.
«La mia famiglia possiede due appezzamenti di terra. Uno lo coltiviamo, l’altro non è tanto buono e lo teniamo a maggese per fare foraggio per le nostre vacche. Questo secondo terreno lo ha comprato mio nonno da un uomo che vive nel nostro para, un mio zio [classificatorio][20]. Mio nonno aveva registrato la transazione al catasto, per fortuna, perché alla sua morte questo nostro zio è venuto a dirci che dovevamo lasciare la terra poiché non l’avevamo mai comprata e la stavamo occupando illegalmente. Alla fine hanno denunciato il fatto alla polizia e siamo finiti in Tribunale. In Tribunale noi abbiamo fatto vedere il certificato di proprietà, e il giudice ci ha dato ragione. Ma a quel punto quest’uomo ha aperto un altro caso accusandoci di avere falsificato i documenti. E poi ha anche denunciato me, dicendo che li avevo aggrediti. Loro sono una famiglia che è diventata molto potente negli ultimi anni prestando soldi a usura, e ora rivolevano la terra che avevano venduto, in tutti i modi. Io ero l’unico uomo giovane su cui poteva contare mio padre, per questo mi hanno preso di mira. Hanno minacciato mio padre dicendogli che se avesse continuato a difendere la proprietà della terra io avrei fatto una brutta fine. Loro hanno appoggi importanti nella polizia e tra i politici, noi invece siamo gente semplice. Per questo mio padre si è molto spaventato e ha deciso di mandarmi via[21]».
La storia di Ripon mostra nuovamente, ma a livello di quartiere e in relazione a terreni agricoli, la competizione locale per risorse scarse e la difficoltà a difendere i propri interessi da parte di famiglie situate in fasi critiche del loro ciclo di sviluppo. Come in precedenza, il figlio maggiore minorenne (Ripon ha lasciato il Bangladesh a 15 anni) diviene allo stesso tempo oggetto di minaccia (e conseguentemente da proteggere allontanandolo) e investimento per l’emancipazione familiare. Il caso di Ripon apre tuttavia anche uno squarcio su altre relazioni di potere e dinamiche sociali nel mondo rurale bangladese.
Lo zio classificatorio, che pretende di riavere indietro un terreno venduto anni prima, lo fa da una posizione di forza costruita su due importanti presupposti/risorse. La prima è costituita da stretti legami con la polizia e con importanti politici della zona. La seconda consiste nell’ingente capitale economico accumulato negli anni grazie all’usura. Presi in coppia, questi fattori restituiscono un’istantanea di alcune modalità di costruzione e gestione del potere nel Bangladesh rurale.
Il Bangladesh versa in uno stato di corruzione profonda e strutturale a tutti i livelli delle istituzioni. Nel ranking globale di Transparency International del 2014, il Bangladesh si situa al centoquaranticinquesimo posto su centosettantacinque Paesi[22]. Molti autori hanno messo in luce la problematicità della situazione bangladese e l’alto tasso di corruzione amministrativa e politica[23], nei settori dell’educazione e della sanità[24], e in generale nel settore pubblico, evidenziando sacche di corruzione sistemica anche all’interno del sistema giudiziario e delle forze di polizia[25]. Dalle parole di questi ultimi traspare la profonda difficoltà e frustrazione dei cittadini che si trovano a dover far fronte ad una situazione di corruzione o sopruso da parte di un funzionario pubblico.
Non c’è una via per i cittadini per poter riparare i torti subiti o fare un reclamo contro una qualsiasi azione di corruzione o irregolarità commessa da ufficiali pubblici. In realtà, essi sono demotivati persino a provarci poiché il capo dell’istituzione contro cui il reclamo andrebbe fatto sarebbe allo stesso tempo il giudice, la giuria e l’accusato. Se una persona fosse colpita da un’azione di un qualsiasi ufficiale pubblico, come il capo esecutivo di un distretto o l’ufficiale capo di una stazione di polizia, sarebbe alquanto pericoloso fare reclamo contro di loro. Certo, questa persona potrebbe rivolgersi ad un Tribunale, ma non solo questa sarebbe una procedura costosa ed estenuante: ci sarebbero anche ben poche possibilità di vincere una causa contro dei potenti ufficiali pubblici[26].
In questo contesto generalizzato di utilizzo delle istituzioni e delle risorse pubbliche in modo privatistico e clientelare, i cosiddetti boro lok (bigmen) locali si pongono come figure di mediazione tra esigenze della popolazione rurale e macchina amministrativa/burocratica statale. Persone con elevati capitali finanziari e di rendita, i boro lok sono coloro che legano per mezzo di relazioni clientelari (favori, prestiti, intercessioni) chi sta sotto di loro (i choto lok, la “gente piccola”, che non ha risorse), e interagiscono con i livelli alti della società urbana e dell’amministrazione statale, garantendo al momento opportuno che le loro reti di clienti si trasformino in capitale elettorale o politico in senso più lato[27].
Tornando al racconto di Ripon ed estrapolando da esso la traiettoria di successo dello zio classificatorio, la si può ora meglio comprendere nel contesto socio-politico bangladese. Il capitale economico creato con l’usura e la capacità di produrre relazioni di fiducia e scambio con politici e forze di polizia hanno dunque permesso all’uomo e alla sua famiglia di raggiungere una posizione di grande potere locale e potenziale impunità. Queste reti di potere, a volte anche trans-locale, acquisiscono una sorta d’impermeabilità a eventuali verifiche e sanzioni, costruendosi completamente all’interno di spazi che sovrappongono macchina amministrativa/burocratica statale da un lato, e istituzioni e reti sociali locali dall’altro. Le logiche “ibride” lungo le quali si producono queste concrezioni di potere economico e politico garantiscono una estrema efficacia alla loro azione nei confronti di chi, semplice abitante di villaggio, rimane completamente isolato in uno spazio «senza un fuori», senza cioè quelle aperture relazionali verso l’esterno (istituzioni di più alto livello, reti di conoscenze a livello urbano ecc.), che sole potrebbero porre un limite sanzionatorio alle pratiche predatorie che li colpiscono.
In effetti, se da un lato questi “grandi uomini” locali per garantire il proprio potere devono inevitabilmente creare un consenso attorno alla propria persona per mezzo di favori e sostegno ai propri clienti, dall’altro la loro attitudine nei confronti delle risorse locali è profondamente predatoria e aggressiva.
Questa aggressività è inoltre mediata da figure, definite mastan, che sono una sorta di attivisti politici “bulli” e mercenari[28], che formano la “manodopera” violenta sia dei partiti politici sia di chiunque, potendoselo permettere, abbia bisogno di un aiuto convincente per ottenere qualcosa da altri.
Il boro lok, insomma, spesso politico egli stesso o comunque ben inserito nella rete istituzionale dello Stato e dei partiti, si pone al centro della vita sociale, politica ed economica del villaggio e gestisce una rete di clienti e di uomini a servizio i quali, in un modo o nell’altro, aspirano essi stessi a ottenere un riconoscimento sociale ed economico che li innalzi a loro volta al ruolo di “grandi uomini”.
Inizia quindi a configurarsi un quadro complesso della situazione bangladese, in cui dalal (intermediari), mastan (mercenari), boro lok (grandi uomini) e funzionari governativi (poliziotti, ufficiali, politici ecc.) collaborano tra loro, e talvolta competono, per spartirsi le risorse dello stato e incamerare risorse locali appartenenti alla massa della choto lok (i poveri e gli esclusi) e della modhom lok (la classe media rurale).
Nel complesso svolgersi di queste relazioni, tuttavia, non sempre è facile distinguere ruoli e funzioni del primo gruppo di attori sociali. Spesso, i mastan agiscono anche come intermediari (dalal), e questi ultimi possono in alcuni casi essere considerati boro lok. Gli stessi boro lok possono aver raggiunto il loro status attraverso una carriera da picchiatori politici[29], o essersi costruiti reputazione, ricchezza e contatti agendo da intermediari tra gli uffici pubblici e la “gente semplice”.
Le situazioni di crisi familiare descritte in precedenza, quindi, sia quando sono causate da conflitti intra- o inter-familiari, sia quando sono invece il frutto dell’azione predatoria di un boro lok, inevitabilmente devono risolversi all’interno delle pratiche informali e/o formali di mediazione di questo stessa sistema. Come accennato in precedenza, per le classi rurali medie e basse non esiste uno spazio “esterno” istituzionale cui ricorrere per uscire dal circolo vizioso della propria dipendenza strutturale. L’unico spazio esterno lasciato aperto alla loro iniziativa diviene dunque quello della migrazione internazionale, allo stesso tempo fuga e scommessa, rischio e momentaneo allontanamento dal rischio[30].
Questo spazio esterno, tuttavia, è tale solo apparentemente. A uno sguardo più attento, infatti, si mostra anch’esso imbricato, ed anzi in realtà addirittura prodotto, dalla stessa rete di dalal, mastan e boro lok che intesse localmente e quotidianamente la propria tela di ragno. Una trappola che, una volta imbrigliata la preda, le lascia come unica possibilità di salvezza la scommessa di un ultimo volo attorno a una ragnatela le cui maglie sono solo più larghe, ma non meno pericolose: appunto la scommessa migratoria.
A guardarla con un po’ di cinismo, la migrazione ha aperto in effetti per i grandi uomini locali e le reti di mercenari politici e intermediari una nuova forma di moltiplicazione delle risorse locali, in un contesto di disponibilità scarse e di diffusa povertà. Le commesse provenienti dai migranti bangladesi sono ormai una parte cospicua della ricchezza disponibile, e non c’è da stupirsi se, come abbiamo visto e vedremo in seguito, una buona parte di esse torna, sotto forma d’interesse sul debito, a rimpinguare i capitali degli usurai/boro lok, riproducendo localmente la disparità di potere economico e politico tra alto e basso, tra chi migra e chi fa migrare. Del resto, che la migrazione sia un business ormai riconosciuto lo esplicita alla perfezione l’affermazione di un lavoratore migrante bangladese a Singapore raccolta da Bal:
«If you ask anybody ‘Eh, lend me one lakh [100mila] taka, I want to do business, he will tell you to get lost. But if you say ‘eh lend me five lakh taka, I want to go bidesh [all’estero]‟, he will surely lend you. Even after you go bidesh and lose money and ask for another three lakhs, he will lend you again![31]».
Riprendendo la similitudine iniziale tra usurai e tigri, sembra di poter dire che essi non differiscano solo per la condizione attuale di espansione dei primi, e di riduzione delle seconde, ma anche e soprattutto per il modo in cui cacciano. Se per le tigri la caccia è questione individuale, di attese e appostamenti, di agguati e rapidi inseguimenti, per i bara lok bangladesi essa sembra più prendere la forma di una caccia al cinghiale, in cui una serie di battitori spingono la preda bene in vista, là dove il cacciatore può tranquillamente e facilmente colpire senza tema di sbagliare.
Tra questi battitori, il più abile è certamente il dalal, aspirante boro lok egli stesso, e sulla buona strada per diventarlo. È lui che, una volta contattato (o talvolta, come emerge dalle storie raccolte, contattando lui stesso direttamente coloro che vede in situazioni di difficoltà e proponendogli di migrare) oltre ad organizzare il viaggio funge spesso da mediatore e addirittura da garante, come abbiamo visto, per l’ottenimento del prestito da un usuraio.
Dai dati raccolti, il dalal appare essere quasi sempre una persona proveniente da un altro villaggio rispetto a quello del migrante. Egli spesso agisce da mediatore per un altro mediatore di livello più alto che lavora nelle città e cittadine dell’area. Il dalal è spesso amico o parente di un amico o di un collega di lavoro. Questa mancanza di relazione diretta con la famiglia del migrante sembra indicare uno spazio di apertura verso un campo esterno alle reti di dipendenza immediate del migrante, una sorta di mercato libero della migrazione. Tale campo, tuttavia, è come abbiamo mostrato solo apparentemente esterno. Proprio nei casi in cui è necessario per la famiglia del migrante ricorrere a un usuraio per raccogliere il capitale necessario alla partenza, il dalal diviene infatti figura centrale per mediare la re-iscrizione del progetto migratorio all’interno dei rapporti di dipendenza locali del proprio cliente.
Il mohajan/usuraio, d’altronde, è sempre un boro lok locale ed una persona conosciuta dal potenziale migrante. Dai casi a nostra disposizione, egli risulta talvolta essere addirittura dello stesso villaggio del migrante. In questi esempi, è interessante notare come la stesura di un contratto di prestito e le garanzie reali poste a tutela del creditore siano spesso assenti. La spiegazione di questo fatto da parte dei richiedenti è sempre identica: essendo l’usuraio una persona di villaggio, con la quale ci si conosce da sempre, egli “si fida” del debitore e non pretende altre garanzie se non la parola data. Tali disponibilità e “fiducia” non devono tuttavia farci credere di essere di fronte a pratiche solidali, quali sono invece quelle dei prestiti da parte di parenti del migrante, sebbene sempre all’interno di logiche almeno in parte “calcolatrici”. Se messe sullo sfondo di quanto illustrato finora, e confrontate con le pratiche di usurai “esterni” che andremo tra poco ad analizzare, queste scelte di “informalità” nascondono la capacità del mohajan di esercitare un controllo diretto e totale sul debitore, proprio grazie alle reti di potere e dipendenza che egli ha intessuto localmente e dalle quali la sua preda è impossibilitata a liberarsi. La fiducia nel debitore si mostra così per quel che è in realtà: fiducia del creditore negli strumenti a propria disposizione per recuperare il proprio capitale in caso d’inadempienza del suo “compaesano”.
Altra indicazione a favore di questa interpretazione è che in nessun caso gli interessi applicati da un usuraio dello stesso villaggio del richiedente sono più bassi di quelli offerti da uno esterno. La fiducia, insomma, non si traduce in una morsa meno stretta.
Nei casi a nostra disposizione, gli interessi vanno dal 2% al 5% mensile, ovvero tra il 24% e il 60% annuale. La richiesta di interessi può essere a scadenza mensile o annuale. L’esosità degli interessi in questione ha ricevuto attenzione da parte di vari autori[32], che hanno indicato come essi creino circoli viziosi da cui spesso il debitore non riesce più a tirarsi fuori. Nelle parole di Rahman:
Usualmente le fonti di credito non-istituzionali chiedono tassi d’interesse estremamente elevati, che si portano via la maggior parte del salario del povero debitore, lasciando lui o lei in una condizione economica avversa e in un circolo vizioso di povertà di cui beneficia solo l’usuraio[33].
Tale vantaggio non si concretizza esclusivamente in relazione all’interesse elevato, ma anche e soprattutto per la frequente presenza, che ha colpito gli autori citati, di garanzie reali (quello che in inglese essi definiscono collateral o security) a tutela del creditore. Quest’ultimo, quindi, si trova nella condizione di incorrere in un rischio minimo o nullo, in quanto “la relazione personalizzata tra creditore e debitore permette al primo di estrarre la parte di debito eventualmente non restituita sotto forma di acquisizione di un bene del debitore”[34].
Questo tipo di contratto di prestito ha storicamente un’incidenza significativa nel complesso delle transazioni di prestito in ambito rurale. Secondo un’indagine della Reserve Bank of India del 1977, il 40% dei prestiti nel 1971 erano concessi contro garanzie ben definite[35]. Il dettagliato studio di Atiqur Rahman sulle relazioni di credito in due regioni del Bangladesh ha rivelato che più del 50% dei prestiti erano concessi contro una qualche forma di garanzia. Inoltre, una buona parte di questi prevedevano a garanzia un qualche bene immobile[36].
Secondo Basu[37], ciò suggerisce l’importanza della prossimità fisica tra creditore e debitore. Questi dati confermano l’analisi svolta fin qui circa la vita sociale del debito migratorio come concretizzazione materiale di relazioni strutturali di potere e dipendenza in ambito locale.
Non solo quindi alti interessi legano la persona e la sua famiglia in modo continuativo e a doppio filo all’usuraio, ma quest’ultimo si arroga anche il diritto di acquisire i beni che il debitore ha messo a garanzia in caso di inadempienza. Il tutto viene peggiorato dalle clausole arbitrarie e vessatorie che spesso fanno capolino nei contratti di prestito scritti o orali che abbiamo potuto consultare o conoscere dal racconto dei richiedenti bangladesi.
La presenza di questo tipo di clausole, l’alto interesse e il tipo di garanzie previste sono tutti fattori che indicano un aspetto drammatico di tali contratti, che sia Bahaduri sia Basu hanno evidenziato criticando precedenti modelli economici che vi ravvisavano esclusivamente la necessità del creditore di abbattere un elevato rischio di perdita del capitale.
Il modello di Bahaduri indica come il creditore usi l’alto tasso d’interesse sul prestito proprio al fine di incoraggiare l’inadempienza del debitore, così da poter confiscare il bene dato in garanzia, che spesso è a sua volta sottovalutato rispetto al prezzo reale di mercato[38].
Un aspetto interessante di questo modello, che ci riconduce all’analisi svolta fin qui, è che esso prevede che la sottovalutazione del bene dato in garanzia sia possibile proprio perché il creditore, grazie al suo posizionamento socio-economico superiore, ha accesso a un mercato dei beni riguardo al quale il debitore non ha, né potrebbe avere, informazioni esaurienti. Invertendo poi la logica dei modelli precedenti, sia Bahaduri sia Basu sostengono ancora che è proprio la sottovalutazione del bene dato in garanzia, e che di per sé già annulla il rischio del creditore, a spingere verso l’alto il tasso di interesse così da produrre l’inadempienza del debitore e l’incameramento del bene da parte del primo.
Quello che i mohajan/boro lok locali riescono dunque a fare è di costituirsi da un lato una rendita continua attraverso l’alto interesse sul prestito, e garantirsi in prospettiva il probabile default del debitore, che permetterà loro di incamerare un bene, oltretutto sottostimato.
Come abbiamo fin qui mostrato, dunque, l’attitudine e la capacità predatoria di questi creditori si inscrive nel circuito coincidente con il loro posizionamento sociale, politico ed economico nelle aree di provenienza dei richiedenti asilo, e si attua per mezzo di strumenti che mettono a frutto tutto il potere differenziale che essi hanno nei confronti delle loro “prede”. Tale incredibile disparità di forze può facilmente evincersi dal seguente contratto di prestito, che un richiedente asilo si è fatto spedire dal Bangladesh per dimostrare la propria posizione debitoria[39].
Contratto di prestito
Totale: 250.000/- (duecentocinquantamila) Taka
Interesse mensile: 5000/- (cinquemila) Taka
Dettagli della prima persona, cui sono restituiti i soldi
Nome: /
Nome del padre: /
Nome della madre: /
Villaggio: /
Nazionalità: Bangladesh.
Religione: Islamica.
Lavoro: Affari.
Dettagli della seconda persona, che restituisce i soldi
Nome: /
Nome del padre: /
Nome della madre: /
Villaggio: /
Nazionalità: Bangladesh.
Religione: Islamica.
Lavoro: Affari.
Nel nome di Allah, in questo contratto io, seconda persona, ho chiesto in prestito 250.000 (duecentocinquantamila) rupie dalla prima persona che ha voluto darmeli a certe condizioni. In questo contratto dico che, alla presenza di altre due persone, ho ricevuto in prestito 250.000 (duecentocinquantamila) rupie e che, allo scadere del mese, entro il terzo giorno di quello successivo, devo dare 5000 (cinquemila) rupie come interesse alla prima persona.
Dichiaro di dare questi soldi in ogni circostanza. Se la prima persona ha bisogno di questi soldi immediatamente e mi chiede di ridarglieli, io devo restituire tutti i suoi soldi anche se con 1-2 mesi di anticipo.
Se non dovessi riuscire a restituire il denaro preso in prestito, egli potrà prendere il mio negozio e la mia casa. Egli potrà anche vendere tutte e due queste cose per avere indietro i suoi soldi. Egli inoltre può infliggermi qualsiasi punizione. Non è possibile che la successiva generazione della mia famiglia reclami giustizia. Io devo essere pronto a qualsiasi punizione.
Nel caso in cui morissi prima di aver ripagato il debito, la mia famiglia dovrà restituire tutti i soldi con gli interessi.
Dichiaro di firmare questo contratto in piena consapevolezza, in piena salute, con la mia volontà Nessuno mi ha costretto a firmare il presente contratto, sono io che l’ho voluto firmare.
Ho capito tutto ciò che è scritto nel presente contratto.
Data Firma
Garanzia:
1. Testimone garante 1
2. Testimone garante 2
Robel, il richiedente asilo riuscito a partire grazie al prestito relativo a questo contratto, ha dovuto pagare 500mila taka per andare in Libia. Di questi, 250mila sono stati ottenuti dal padre attraverso una banca, al vantaggioso interesse dell’1,8% annuo. Per i restanti soldi, la famiglia si è dovuta rivolgere ad un usuraio, che ha impunemente fatto loro firmare tale contratto. La firma in calce, nell’originale, è tuttavia del fratello di Robel: il creditore voleva infatti che il firmatario rimanesse in Bangladesh a garanzia fisica che il denaro sarebbe stato restituito.
A questo punto, se messo sullo sfondo di quanto detto finora, tale contratto appare decisamente come il risultato finale di una serie di pratiche predatorie inscritte in relazioni locali strutturali di potere e dipendenza che fanno della choto lok rurale bangladese l’oggetto di sfruttamento e espropriazione perfetto per i signori che dominano le loro regioni.
5. Crediti in viaggio
Il contratto riprodotto alla fine del paragrafo precedente non è solo un accordo. Piuttosto è una mappa, ancorché molto lacunosa e (volutamente) imprecisa. A partire dalle sue coordinate, si diramano rotte di esperienza che traversano lo spazio, le distinzioni/relazioni tra sistemi giuridici, i paesaggi semantici e le categorizzazioni dell’agire umano che li ritmano, disegnando così l’effettiva cornice di senso dei diritti umani e della loro protezione. Un’analisi di questo contratto ci condurrà al cuore del problema giuridico-spaziale che può fornire le chiavi per comprendere il senso, le implicazioni semantiche ed etico-giuridiche della storia di Robel/Antonio – e di molte storie come la sua.
Prendiamo le mosse, dunque, dalla mappa siglata dal nostro Robel/Antonio e dal suo Skylock. Nel leggerla proveremo a immaginarci nei panni di una Porzia d’oggi.
Primo dato. Il contratto è caratterizzato da una simulazione di persona. Il vero destinatario del prestito non è il firmatario ma il fratello. Perché la simulazione? A questa domanda non può rispondersi sulla base del solo contratto, che è anzi costruito proprio in modo da nascondere il contesto, cioè quanto si verifica a contorno della piattaforma negoziale. Solo una previa conoscenza della cornice socio-culturale dell’accordo consente di comprendere l’esistenza di una simulazione di persona, le sue ragioni e le sue possibili, drammatiche implicazioni. In breve, chi ha sottoscritto fungeva da ostaggio e doveva rimanere a portata di mano dei creditori, dal momento che i soldi dati in prestito erano finalizzati a sovvenzionare un viaggio migratorio del fratello della persona contraente. Il reale destinatario del prestito sarebbe dunque stato lontano dal Bangladesh. Per assicurarsi il pagamento serviva un sostituto a portata di mano, in modo da esercitare pressioni psicologiche sul reale creditore e annullare la relativa immunità dalle ritorsioni assicuratagli dalla distanza geografica.
Secondo dato. Conseguente alla simulazione è anche la totale mancanza di indicazioni circa lo scopo del prestito. Il passaggio di proprietà del negozio e della casa costituisce, in altre parole, una sorta di contratto autonomo, anche se collegato a quello principale e sottoposto a condizione sospensiva. L’architettura degli obblighi cui si sottopone il fratello di Robel impegnando beni della sua intera famiglia corrisponde a una forma di garanzia reale (in Italia, come vedremo, sarebbe definita «patto commissorio»). Questa garanzia potrebbe essere ulteriormente qualificata – ancorché non in termini tecnici – come aggravata. Ed è tale perché il fratello di Robel, oltre ai beni propri e a quelli familiari, pone anche se stesso a garanzia del debito: dichiara di assoggettarsi a qualsiasi punizione. Inoltre, dal punto di vista patrimoniale, coinvolge anche le persone della propria rete familiare e le generazioni successive – non si capisce bene con quale fondamento giuridico, quantomeno in base alla stessa legislazione del Bangladesh – qualora lui premorisse alla restituzione del dovuto.
Terzo dato. Il «dovuto» si compone di un interesse assai alto, definibile come usurario e/o ingiustamente afflittivo a norma dell’Usurious Loans Act del 1918, Section 3, (integrato nel 1973) e del Money-Lenders Act del 1933, art. 3 del Bangladesh. L’interesse previsto è del 2% mensile, quindi del 24% annuo, rispetto a un prestito assistito da una garanzia reale. Il prestito è da considerarsi prestato a condizioni ingiuste o usurarie, secondo gli standard del Bangladesh, e ciò per due ragioni: a) le norme sopra citate stabiliscono che la rata di pagamento dei prestiti non possa essere pretesa a un intervallo inferiore a sei mesi; b) il tasso d’interessi eccede la misura del 15 %, che è il massimo previsto per i prestiti assistiti da garanzia.
Quarto dato. L’unica chance di restituire il prestito, al tasso d’interessi praticato, coincide con il successo economico del progetto migratorio che funge da elemento costitutivo, ancorché occulto, del contratto e della piattaforma negoziale. In parole più semplici, ciò significa che se non avesse conosciuto la destinazione migratoria dei suoi soldi, il creditore non li avrebbe mai prestati. Si tratta di un dato essenziale affinché possa intendersi l’effettivo significato del contratto. Senza la conoscenza di queste “parti mute” del testo, ci sarebbe persino da chiedersi perché sia stato concluso. Che senso avrebbe dare soldi a qualcuno che si sa in anticipo non essere in grado di restituirli alle condizioni che si chiedono? E, simmetricamente, che senso avrebbe chiedere un prestito con la consapevolezza di non poter onorarlo, mettendo così a repentaglio tutto il proprio patrimonio, la propria incolumità fisica e le possibilità di sopravvivenza della propria famiglia allargata?
Quinto dato. L’adempimento del debito, secondo il contratto, può essere riscosso dal creditore anche in anticipo, a seconda delle sue necessità, oppure anche uno o due mesi prima della scadenza. Alla luce di quanto considerato al punto precedente, questa clausola non appare del tutto chiara. Per un comune migrante in cerca di lavoro, la possibilità di restituire duecentocinquantamila rupie inizia a configurarsi solo dopo alcuni anni di residenza all’estero e a condizione che si sia potuto lavorare (legalmente) in modo continuativo. Qual è la scadenza cui si allude? Non certo la rata mensile; ma neanche una rata annuale, poiché non è menzionata. Il sospetto è che si tratti di una sorta di clausola di stile. Il suo significato è tuttavia da presumersi più ampio di quanto un’interpretazione strettamente letterale non lascerebbe intendere. Forse indica che il creditore si riserva di valutare come procede il progetto migratorio e, quindi, di regolarsi di conseguenza nei confronti di chi è rimasto in Bangladesh a garantire per il pagamento.
Sesto dato. Una lettura contestualizzata del contratto consente di realizzare che il credito ha solo in apparenza un solo debitore. Il rapporto debitorio s’instaura in effetti con una pluralità di persone, e cioè i costituenti la rete familiare del debitore nominale. Questa rete affida le sue prospettive a una proiezione multi-territoriale ed extra-nazionale delle attività condotte dai suoi componenti. Ciò significa che lo spazio esistenziale e progettuale della famiglia, i suoi destini, non coincidono con il territorio dello Stato di residenza. Al contrario, quello spazio destinale appare distribuito attraverso una molteplicità di contesti territoriali posti a grande distanze sulla superficie del pianeta. Il contratto mappa e forgia questo interspazio, e lo fa proprio mediante la sua valenza simulatoria e le sue lacune. Quel che è dissimulato nel testo contrattuale corrisponde insomma a un “implicito” in grado di funzionare come un pantografo. Esso fa sì che i tracciati di realizzazione degli interessi personali e familiari modellino lo spazio geografico che ospita e condiziona l’effettività del contratto e, ancor prima, il suo significato e l’evento della sua conclusione. Detto diversamente: l’interspazio transnazionale e il senso della piattaforma negoziale sono coestensivi. La stipula di simili accordi, in vista e a cavallo di esperienze migratorie, rappresenta una conseguenza di modalità di auto-rappresentazione culturale e individuale intrinsecamente de-localizzate. L’Altrove è già presente in esse come potenziale spazio d’azione, come reale ambiente esistenziale. Su di esso si misurano sia la realizzazione personale e collettiva sia il processo di costruzione identitaria degli agenti che compongono molte famiglie e comunità bangladesi. Comprendere questo profilo psico-sociale è estremamente importante – come illustreremo – per cogliere la dimensione sistemica del debito migratorio in Bangladesh e, di riflesso, per la valutazione della sua incidenza sulle prerogative umanitarie di migranti senza successo e, quindi, inadempienti. Partire, in altre parole, è spesso una scelta obbligata; prendere a prestito dagli Skylocks locali un altro passaggio pressoché inaggirabile. Enormi pressioni psico-sociali sono all’opera e cementano situazioni di potere in grado di condizionare e neutralizzare il controllo istituzionale su simili pratiche.
Settimo dato. Il contratto è siglato nel nome di Allah. Eppure, il testo viola in modo quasi spettacolare il divieto islamico di ribah, cioè il divieto di prestare a interesse. Inoltre, le sue clausole costituiscono una negazione radicale del principio di equità nei rapporti intersoggettivi, vero e proprio pilastro del diritto contrattuale islamico. Ora, la violazione dei precetti religiosi potrebbe essere imputata anche agli effetti di fenomeni d’inculturazione di matrice occidentale e/o capitalistica. Questa ricostruzione entra in contraddizione, tuttavia, con l’invocazione di Allah. Certo, potrebbe trattarsi solo di un elemento stilistico. Ciò nondimeno, il divieto di ribah è ben presente a qualsiasi islamico. È vero, comunque, che le banche del Bangladesh praticano ordinariamente il prestito a interesse, benché il Paese sia a maggioranza islamica. Persino la Grameen Bank, fondata e promossa da Mohammad Yusuf, praticava il micro-credito a tassi del 20% annuale, con frequenze di riscossione settimanale. La risposta del premio Nobel, di fronte alle obiezioni e alle critiche provenienti dal mondo islamico, si iscriveva nella logica di un’interpretazione sistematico-evolutiva del testo Coranico. Yusuf sosteneva che il rispetto dei precetti religiosi dovesse combinarsi con i bisogni delle persone. Del resto, l’unico modo per dar vita a istituti in grado di arginare l’usura consisteva nell’utilizzo del microcredito a un interesse ragionevole – questa la tesi di Yusuf. Il divieto Coranico avrebbe dunque dovuto essere considerato derogabile, quantomeno tenuto conto della situazione specifica del Bangladesh e, specificamente, delle sue realtà rurali. Tutto ciò senza nulla togliere alla fede in Allah e al rispetto del Corano.
Niente di strano, dunque, che nel contratto qui considerato i contraenti non si facessero scrupolo di invocare Allah come garante di un prestito praticato al tasso del 24% annuo. Del resto – ma si tratta di un dato culturalmente meno indicativo, considerata la data di emanazione delle normative e la forte influenza dei modelli occidentali sulla legislazione di quegli anni – gli stessi Usurious Loans Act del 1918 e il Money-Lenders Act del 1933 del Bangladesh, tuttora vigenti, prevedono la possibilità di prestare a interesse. Comunque sia, si tratta di un dato da tenere in considerazione anche al fine di evitare false stereotipizzazioni. Nonostante la popolazione del Bangladesh sia per il 90% musulmana, le norme deducibili dalla Rivelazione Coranica non costituiscono la legge dello Stato e tantomeno l’effettiva ortoprassi seguita dalle persone. Non basta dunque muoversi secondo l’equivalenza Paese Musulmano/Normatività (etica e legale) Sharaitica per comprendere quel che vi accade. La conoscenza effettiva del contesto di esperienza è indispensabile. Deduzioni elaborate da dietro una scrivania, limitandosi a leggere testi, libri e notizie sul web, non sono sufficienti a schiudere alla vista di un osservatore esterno lo scenario socio-esistenziale dei Bengalesi, come di qualsiasi altra popolazione. Come si vedrà, questa considerazione dovrà essere ripresa in modo analogo con riferimento ad altri profili dell’intera vicenda di Robel.
Il quadro tracciato sin qui lascia intendere che il credito dello Skylock bangladese è un credito in viaggio, pensato e prestato, cioè, in stretta connessione alle possibilità e alle potenzialità economiche connesse all’esperienza migratoria del debitore. Questa connotazione è particolarmente interessante poiché evidenzia il carattere trans-territoriale e quindi trans-culturale dei tracciati d’esperienza inclusi implicitamente nella piattaforma negoziale. Creditore e debitore immaginano attività consumate altrove, lontano dal Bangladesh, come parte integrante del loro accordo – ancorché non lo dicano espressamente. Naturalmente, questo proiettarsi oltre la prossimità spaziale, intesa in senso fisico, non è privo di conseguenze. Il significato dell’operazione economica non potrebbe essere colto indipendentemente da questo “guardare oltre”.
Stranamente – ma non tanto – l’Altrove e le sue imprevedibilità sono presenti anche nella vicenda dell’Antonio shakespeariano. In quel caso, erano navi commerciali che disegnavano la rotta personale verso l’Altrove al fine di riportare a Venezia un’incrementata disponibilità economica a beneficio di chi accettava il rischio di investire nei traffici marittimi. Il loro naufragio annunciato – ma smentito alla fine del dramma, in ossequio alla logica del lieto fine – lascia Antonio in balìa di Shylock. Anche nel caso di Robel/Antonio il fallimento dell’intrapresa verso l’Altrove produce un effetto analogo ma con il pericolo – tutt’altro che remoto – che non vi sia alcuno spazio per il lieto fine.
Cosa significa, in concreto, che creditore e debitore modellano il senso del loro accordo su quel che avverrà altrove? Significa che in quell’accordo l’autorappresentazione dei soggetti e la loro relazione intersoggettiva hanno come implicazioni, e quindi come connotazioni di senso, elementi geograficamente e culturalmente distanti. Robel migra inizialmente verso la Libia. Nonostante sia sottoposto a prassi lavorative al limite della schiavizzazione, da lì riesce comunque a inviare a casa somme di danaro congrue rispetto all’esigenza di saldare il debito contratto. La Storia – non la sua personale – si è poi messa di mezzo ai suoi piani. Nella Libia liberata dalla dittatura di Gheddafi non c’erano e non ci sono più le condizioni per lavorare, né per vivere. In questa situazione, si schiudevano allora due possibilità:
- Tornare a casa, e consegnare se stesso e la famiglia nelle mani dello Shylock bengalese.
- Provare a proseguire il viaggio, con un ulteriore investimento, nella speranza di approdare in Italia e, di là, muoversi nello spazio europeo per trovare lavoro. In questo modo, il debito avrebbe forse potuto essere adempiuto. Così, anche un rientro in Bangladesh dalle conseguenze meno catastrofiche avrebbe potuto quantomeno essere immaginato.
Come si è detto, Robel sceglie – si fa per dire – l’alternativa b). A questo punto, però, l’Altrove si riconnota. I suoi elementi costitutivi, per alcuni versi i traghetti del credito in viaggio, si modificano profondamente. Gli elementi informativi iniziali avevano fornito a Robel e al suo Shylock uno spazio prognostico calibrato sulla Libia e sulle modalità di ingresso e permanenza in quel territorio consentite (concretamente) dal governo libico. Tutto il progetto esistenziale di Robel dipendeva da questa variabile remota e indipendente. Al suo mutare, il quadro migratorio è saltato, la situazione è precipitata e ha finito per modificare anche il significato dell’opzione iniziale.
Lo spazio prognostico, il progetto, doveva essere sottoposto ad alcuni riaggiustamenti. In primo luogo, c’era da affrontare il rischio fisico della traversata del canale di Sicilia. Scampato al pericolo di annegamento, Robel ha poi dovuto fare i conti con le possibilità di rimanere sul territorio italiano ed europeo. Le normative sull’immigrazione e sul soggiorno entrano improvvisamente, come una sopravvenienza geografico-semantica, a far parte del senso di quel che era stato progettato in Bangladesh. La mappa contenuta nel contratto di prestito va quindi ulteriormente integrata, ridisegnata.
È importante osservare, a questo punto, che la necessità di ri-cartografare la prognosi migratoria, e quindi le possibilità di adempiere il debito, si commuta inevitabilmente in un rimodellamento categoriale. Il significato e le implicazioni pratiche, esperienziali, di quel che abita il nuovo spazio geografico incluso nel progetto migratorio si trasformano in connotazioni di senso dello spettro semantico del contratto. E vale la reciproca. Lo slargamento della mappa migratoria è una conseguenza, un’implicazione del contratto stesso, delle sue condizioni, nella necessità di adempiere il debito nei tempi previsti per salvaguardare le prospettive esistenziali e la stessa incolumità di Robel e della sua famiglia. In proposito, basti considerare questo: chi avrebbe affrontato il rischio di affogare nel canale di Sicilia e tutte le incertezze connesse all’ingresso sul territorio europeo se fosse potuto rientrare in Bangladesh in sicurezza e, comunque, senza esporre la propria rete familiare a una vera e propria catastrofe esistenziale?
Asserire che il credito generato dalla conclusione del contratto è un credito in viaggio sta a indicare il carattere dinamico del suo spettro semantico e pragmatico. Questo dinamismo genera una sorta di continuum semantico/spaziale di tipo mobile, in fieri. Ciò che è Altrove e ciò che è Prossimo, unitamente alle loro rimodulazioni connesse all’incedere imprevedibile dell’esperienza, si ritrovano unificate – come si accennava sopra – all’interno di una cornice semiotica dove spazio e connotazioni di senso finiscono per confluire in una dimensione marcata dalla loro coestensività. Ciò accade perché ogni categorizzazione e scansione dello spazio dipende, nelle rappresentazioni e nell’esperienza umane, da quel che si svolge in esso, dagli eventi, dai fatti, dagli oggetti che lo popolano. Tutti insieme disegnano un perimetro semiotico denso di connotazioni e di possibili implicazioni con altri perimetri esperienziali e segnici, con altri spazi vissuti. Quel che accade, che colma un determinato spazio, include tutto ciò che è connotativamente connesso con o implicabile da quel che si trova al suo interno. Questo nesso implicativo può rendere i confini mobili, rimodulabili, a seconda dei ponti connotativi, delle implicazioni inevitabili o necessarie per decodificare il significato, quindi anche le conseguenze e i presupposti, di ciò che è interno a ciascun perimetro spaziale. In altre parole, ogni spazio si candida a diventare, a esser parte di un inter-spazio, ad aprirsi e fondersi con altri spazi, in ragione delle proiezioni semiotiche di quel che è posto al suo interno[40].
La conclusione del contratto di prestito tra (il fratello di) Robel e lo Shylock bangladese apre le porte alla configurazione di uno circuito di esperienza che unifica Bangladesh, Libia e Italia (oltre allo spazio politico-culturale-geografico che include tutte le determinanti di quel che accade nei tre paesi: in questo caso può parlarsi di implicazioni indirette o remote ma non per questo meno rilevanti o incisive). È questo lo spazio reale vissuto sia da Robel sia dalla sua controparte contrattuale, di là dalle scansioni geografiche alle quali siamo abituati.
L’unificarsi degli spazi, intesi come circuiti semiotici, produce però una simultanea riconfigurazione di altri confini, quelli categoriali. Non appena si delinea la continuità esperienziale tra spazi geograficamente distanti, si determina simultaneamente un mutamento del contesto complessivo di senso. Ciò fa sì che le implicazioni di ogni categorizzazione praticata nei diversi spazi, ed elaborata in base alle condizioni esistenti all’interno del loro perimetro, entrino in contatto con altri paesaggi semiotici, con altre possibilità implicative. Questa dinamica produce un effetto feedback che agirà sui presupposti costruttivi, sugli assi di coerenza e sui profili teleologici-assiologici che stanno alla base di ogni categorizzazione, a ogni scansione di senso. I confini tra ciò che è esterno e ciò che è interno a ogni categoria si altereranno inevitabilmente. Ciò avverrà perché ogni categoria e gli oggetti, i fatti, gli eventi, ai quali essa si riferisce, saranno attratti nel circuito di nuove relazioni segniche, di nuove reti implicative, che ne rimoduleranno inevitabilmente il contesto di significazione e, quindi, il significato. In parole più semplici, ciò vuol dire che il medesimo gesto, la medesima parola, lo stesso oggetto, avranno conseguenze differenti, inedite. Muterà, appunto, il loro significato. La catena di implicazioni/conseguenze, di continuità connotative e categoriali – capaci di far diventare prossimo, incluso, ciò che prima era remoto ed escluso dalla cornice categoriale – potranno a loro volta disegnare nuovi tracciati spaziali. Del resto, ogni categoria contiene istruzioni per l’uso del mondo e quest’uso si propaga nel mondo attraverso il dispiegarsi della pratica orientata da quelle istruzioni. Accade così che le implicazioni categoriali attraggano e coinvolgano elementi o connotazioni inclusi in spazi considerati fisicamente remoti. Di conseguenza, questi spazi, unitamente alle scansioni categoriali che li popolano e li scandiscono, si riveleranno semioticamente e semanticamente prossimi, continui, rispetto a quelli originariamente inclusi nel contesto di proiezione pratica delle categorie originariamente considerate.
La dinamica reciprocamente trasformativa delle relazioni tra spazio e spettri semantico-categoriali è potenzialmente illimitata, perennemente aperta. Saranno ragioni di economia rappresentativa e pragmatica, supportate da opzioni di valore o teleologiche, a determinare interlocutoriamente dove può fermarsi o assestarsi la cornice spaziale-categoriale, cioè i confini dello sguardo cognitivo di chi è chiamato a vivere, comprendere o giudicare una determinata catena esperienziale[41].
Il contratto di Robel è insomma una mappa suscettibile di integrazioni. Esso è, al tempo stesso, la premessa e l’icona riassuntiva di tutto quel che è accaduto, accade e potrà ancora accadere.
6. Fughe di spazi e corologia giuridica
Quando le coordinate dell’esperienza si modificano, accade spesso che quanto si credeva remoto, distante da noi, si faccia improvvisamente prossimo, e viceversa. La rimodulazione del contesto di senso, dello sfondo sul quale galleggiano le nostre categorie, fa improvvisamente evaporare le scansioni tra idee, spazi, esperienze, soggetti, oggetti, e così via. A rendersi visibile, anche se solo per limitati intervalli di tempo, è una sorta di magma connotativo che rende i confini tra cose, categorie, spazi, tempi, valori e fini, improvvisamente promiscui, confusi e mobili. È il momento in cui siamo chiamati a esercitare al massimo grado la nostra capacità creativa. Siamo così sollecitati non solo a ridisegnare la mappa della realtà ma persino a concepire e a modellare – almeno in parte – la realtà della quale poter disegnare una mappa. L’attività rappresentativa si accoppierà a quella generativa dell’esperienza del reale: cartografare sarà simultaneamente un fare, e viceversa. Ciò accade perché la nostra azione includerà sempre, più o meno implicitamente, ipotesi o prognosi: quindi rappresentazioni pro-attive e abbozzi cartografici dell’esperienza e delle sue implicazioni di senso[42].
Il magma connotativo prima indicato consiste nel continuum spaziale-semantico definibile – riprendendo un’espressione platonica – come chóra. Nel Timeo, Platone intende questa dimensione come quella che ospita la dialettica tra idee e materia, una dimensione che preesiste alla nascita di ogni differenza o distinzione, quindi anche al tempo. Essa è posta all’inizio, in un principio che è prima del principio del cosmo e della sua creazione demiurgica. In qualche modo, il chóra è esistenzialmente presupposto alle stesse idee, che pure sono da considerarsi eterne. È la dimensione che ospita, nella quale avviene, acquista possibilità, la relazione tra mondo delle idee e mondo materiale, una relazione indispensabile a entrambi – come asserisce Platone nel Timeo[43]. In alcuni frangenti – come, ad esempio, nei sogni – o in situazioni in cui i confini categoriali e spaziali sembrano evaporare (proprio come nella trasformazione dell’acqua in vapore acqueo o, potrebbe dirsi oggi, di una particella in un’onda elettromagnetica) il chóra riemerge, diviene visibile. Le distinzioni tra oggetti, fenomeni, entità e tra i confini e le dislocazioni del loro manifestarsi si confondono, divengono nebulose e opalescenti. Le connotazioni categoriali si presentano allora ubique, come se fossero trascinate da un impetuoso flusso metaforico che tutto attraversa e trasfigura. A noi, esseri umani, il compito, la sfida di ricomporre creativamente questo magma connotativo, rendendo nuovamente invisibile la dimensione corologica in attesa di sue nuove epifanie, di nuovi appelli alla nostra creatività.
Benché il richiamo alla corologia possa apparire eminentemente speculativo, esso è invece reso pragmaticamente necessario proprio per riuscire a concepire e intendere le coordinate dell’esperienza spaziale ed esistenziale vissuta da Robel. Il territorio che ospita il suo agire è un interspazio dove Bangladesh, Libia e Italia sono unificati, resi comunicanti e semanticamente co-implicati. Il senso di quel che Robel chiede con la sua istanza di asilo presentata in Italia giace (anche) altrove. Senza una lettura in chiave corologica della sua richiesta e dei presupposti per la sua accoglienza o per il suo respingimento, quindi senza inquadrare il continuum semantico-spaziale che restituisce il senso unificato della sua esperienza, l’applicazione delle normative in materia di asilo rischia di fondarsi su un’inesatta rappresentazione dei “fatti”. Sennonché una falsa interpretazione degli elementi di fatto può produrre un’eterogenesi dei fini normativi, e cioè effetti ingiusti e incoerenti rispetto ai presupposti di legittimazione e alle finalità della stessa normativa applicata.
L’importanza di un approccio corologico può essere illustrata, tuttavia, anche seguendo una pista non direttamente connessa alle suggestioni platoniche. In effetti, il termine «corologia» è utilizzato nell’ambito delle scienze geografiche. Ha un’origine risalente e il suo uso è stato soppiantato, in ambito accademico, dalla parola «geografia» con l’intento di sostituire a uno studio del territorio locale l’analisi generale dello spazio terrestre. Ciò nondimeno, l’espressione «corologia» ha mantenuto una sua connotazione specifica. Essa è oggi utilizzata per indicare il settore d’indagini che si occupa della distribuzione geografica delle piante o degli organismi[44]. Rimane in questa accezione un tratto caratteristico – presente anche nella corologia storica: l’idea che lo studio del territorio ricomprenda ciò che lo popola, vale a dire una identificazione tra la rappresentazione del territorio e ciò che vi accade, la vita che vi si svolge[45]. In particolare, vi sono due criteri di articolazione dell’analisi corologica applicata alla flora che si adattano in modo particolarmente efficace, se traslati metaforicamente, ai profili giuridico-antropologici qui analizzati. Il primo criterio classificativo è il corotipo: esso coincide con il tipo di distribuzione areale delle diverse piante o famiglie di piante. Colpisce la circostanza che tra i molteplici corotipi si annoveri anche quello cosmopolita, quello panboreale o, ancora, bipolare (che indica specie distribuite in luoghi molto distanti del globo), endemico ecc. Il secondo criterio classificativo coincide con lo spettro corologico: esso indica la percentuale dei diversi corotipi presenti in una porzione di territorio.
L’analisi corologica, alla luce dei criteri classificativi che utilizza, mostra dunque di occuparsi di territori specifici ma con riguardo alle proiezioni multi-spaziali di ciascun corotipo. Così, ad esempio, il significato della presenza di una determinata specie floreale all’interno di un’area territoriale specifica sarà ricostruito tenendo conto della sua distribuzione in altre aree del globo, dei rispettivi percorsi di sviluppo, dei tragitti migratori percorsi, delle modalità di adattamento ai diversi ambienti, della capacità di convivere con altre fitospecie, e così via. A uno sguardo corologico, insomma, ogni luogo appare considerato sia nella sua dimensione locale sia in quella (potenzialmente) planetaria. Ciò dipende, appunto, dalla circostanza che esso è osservato, analizzato e rappresentato in ragione di ciò che lo abita e delle connessioni interspaziali e inter-temporali di queste presenze e degli elementi biologici che le sostanziano[46].
Un’analisi corologica delle vicende di Robel e del Bangladesh (inteso come spazio d’esperienza) lascia intendere, precisamente, come l’areale soggiacente al contratto di prestito includa, dal punto di vista semiotico, anche la Libia e l’Italia. La stessa analisi va adesso trasposta focalizzandola sul punto di arrivo dell’arco migratorio del debitore. Robel è giunto in Italia e qui presenta domanda di asilo. Lo spazio semiotico, politico e giuridico italiano entra così in contatto con un soggetto proveniente dal Bangladesh e poi dalla Libia. Al fine di giudicare la posizione di questo soggetto diviene quindi rilevante qualcosa che è avvenuto e continua ad avvenire prima in Bangladesh e, poi, in Libia. Le norme italiane in materia di asilo, unitamente a tutti i loro rimandi sistemici (costituzionali, legislativi, sovranazionali – ad es. diritto comunitario – e internazionali – ad es. Dichiarazione universale dei Diritti umani), dovranno essere lette e applicate in relazione a un fatto che diverrà compiutamente comprensibile soltanto se colto all’interno della sua rete di relazioni inter-spaziali e inter-culturali. Questa inclusione può produrre una rimodulazione delle potenzialità semantiche della normativa italiana e, al tempo stesso, la sua ultra-operatività geografica. Ciò vuol dire che se lo spazio d’esperienza bangladese si traduce, viaggiando sulle spalle di Robel, all’interno di quello italiano, a sua volta quello italiano, come in una successione fugata, può generare un contro-effetto su quello bangladese (e persino su quello libico). Una valutazione delle chances di ottenere l’asilo da parte di Robel, condotta sulla base delle normative vigenti in Italia, gioverà a dare consistenza pragmatica all’effetto di connessione fugata tra gli spazi esistenziali appena osservato.
Verosimilmente, le possibilità per Robel di ottenere asilo politico internazionale sono pressoché inesistenti. Un indirizzo costante a livello sia governativo sia giurisprudenziale esige che per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato sia necessario dimostrare che si è oggetto di persecuzioni per ragioni attinenti alla razza, alla religione, alla nazionalità, alle opinioni politiche o all’orientamento sessuale. Senza scendere nei particolari, è sufficiente verificare la conclusione negativa ora prospettata sull’elenco dei testi che riguardano la protezione internazionale e i rispettivi requisiti[47].
Discorso differente potrebbe essere svolto per la protezione cd. sussidiaria. Nel caso in cui non sia riconosciuto lo status di rifugiato per mancanza dei requisiti non è comunque possibile espellere dal territorio dello Stato il cittadino di un Paese terzo o apolide nei cui confronti sussistano fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine (o nel Paese di domicilio se apolide), correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno[48]. La nozione di «danno grave» è esplicitata attraverso le seguenti ipotesi: a) condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; b) tortura o altra forma di pena o trattamento inumano e degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine (o di dimora abituale); c) minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato interno ed internazionale[49]. In questi casi, si farà luogo alla protezione sussidiaria qualora non sia possibile accertare la condizione di persecuzione individuale secondo gli standard richiesti per il riconoscimento della condizione di rifugiato.
Nel vicenda di Robel, la strada – forse – percorribile ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria sembrerebbe transitare attraverso l’ipotesi b), appena riportata. Quanto stabilito dalle norme italiane in materia di protezione sussidiaria corrisponde, sostanzialmente, al dettato dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, a sua volta analoga all’art. 5 della Dichiarazione universale sui diritti umani. Inoltre, l’art. 3 cit. deve essere interpretato alla luce della Convenzione Onu contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 10.12.1984 e recepita in Italia con la l. n. 498/1988. Questo plesso normativo va inteso, con specifico riguardo ai trattamenti inumani o degradanti, nel senso che è indirizzato a «impedire lesioni particolarmente gravi della dignità umana. Di conseguenza, una misura che scredita una persona nel suo ceto sociale, nella sua situazione o nella sua reputazione, può essere considerata trattamento degradante», a patto che raggiunga una determinata soglia di gravità. Questo indirizzo ermeneutico, espresso tempo addietro dalla Commissione europea, nel caso Asiatici dell’Africa Orientale c. Regno Unito (parere 1.12.1973), è stato sostanzialmente ripreso anche dalla Corte europea dei diritti umani. La Corte ha distinto specificamente le diverse ipotesi riconducibili alle norme adesso citate, stabilendo tra l’altro che deve ritenersi degradante ogni trattamento che «umilia o sminuisce un individuo, rivelando una mancanza di rispetto per la sua dignità, ovvero ledendo quest’ultima, generando sentimenti di paura, angoscia o inferiorità»[50].
A tutto ciò deve aggiungersi che l’art. 6 della direttiva cd. «qualifiche», recepito nell’art. 5 del d.lgs n. 251/2007, ha stabilito in merito al responsabile dell’azione persecutoria o degradante che il suo ruolo possa essere incarnato: a) dallo Stato; b) da partiti o organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio; c) da soggetti non statuali, se i responsabili di cui alle lettere a) e b) comprese le organizzazioni internazionali non possono o non vogliono fornire protezione ai sensi dell’art. 6, comma 2, contro persecuzioni o danni gravi. La lettera c) va interpretata nel senso che lo Stato o altra organizzazione siano conniventi con il soggetto che infligge il trattamento degradante oppure che non posseggano le strutture o l’effettiva capacità di arginare l’inflizione di quel trattamento.
Una lettura del contratto di prestito in esame sembrerebbe far rientrare il caso di Robel/Antonio nell’ipotesi di pericolo per trattamento degradante perpetrato da persone private, in assenza dell’effettiva capacità dello Stato di arginare il fenomeno. In effetti, nell’accordo si prevede che in caso d’inadempimento il debitore debba accettare qualsiasi punizione, oltre al trasferimento di casa e negozio a saldo del proprio debito. La portata di queste affermazioni non appare determinabile con precisione. Certo, non può negarsi che l’inciso su «qualsiasi punizione» suoni alquanto sinistro. Tra l’altro, le conseguenze dell’inadempimento acquistano le fattezze di una vera e propria nemesi intergenerazionale, poiché – non si sa bene secondo quali standard etico-normativi – il debitore si impegna anche per i familiari ad escludere qualsiasi loro pretesa futura in ordine ai mezzi di soddisfazione del proprio credito che il creditore avrà deciso porre in campo.
È difficile negare che i rischi per l’incolumità fisica e la riduzione di un intero gruppo familiare in condizioni di sub-sopravvivenza possano essere considerate come una prospettiva non-degradante e non implichino un danno grave nel caso di rientro in patria – almeno secondo l’interpretazione che di questo standard ha fornito sia la Commissione europea sia la Corte europea dei diritti umani.
Ulteriore rilievo, a tal fine, riveste l’art. 3 del d.lgs 251/2007. In ragione delle osservazioni che si proporranno dappresso, converrà riportarne il testo integralmente:
Art. 3.
Esame dei fatti e delle circostanze
1. Il richiedente è tenuto a presentare, unitamente alla domanda di protezione internazionale o comunque appena disponibili, tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda. L'esame è svolto in cooperazione con il richiedente e riguarda tutti gli elementi significativi della domanda.
2. Gli elementi di cui al comma 1 che il richiedente è tenuto a produrre comprendono le dichiarazioni e tutta la documentazione in possesso del richiedente in merito alla sua età, condizione sociale, anche dei congiunti, se rilevante ai fini del riconoscimento, identità, cittadinanza, paesi e luoghi in cui ha soggiornato in precedenza, domande d'asilo pregresse, itinerari di viaggio, documenti di identità e di viaggio, nonché i motivi della sua domanda di protezione internazionale.
3. L'esame della domanda di protezione internazionale è effettuato su base individuale e prevede la valutazione:
a) di tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese d'origine al momento dell'adozione della decisione in merito alla domanda, comprese, ove possibile, le disposizioni legislative e regolamentari del Paese d'origine e relative modalità di applicazione;
b) della dichiarazione e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente, che deve anche rendere noto se ha già subito o rischia di subire persecuzioni o danni gravi;
c) della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare la condizione sociale, il sesso e l'età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave;
d) dell'eventualità che le attività svolte dal richiedente, dopo aver lasciato il Paese d'origine, abbiano mirato, esclusivamente o principalmente, a creare le condizioni necessarie alla presentazione di una domanda di protezione internazionale, al fine di stabilire se dette attività espongano il richiedente a persecuzione o danno grave in caso di rientro nel Paese;
e) dell'eventualità che, in considerazione della documentazione prodotta o raccolta o delle dichiarazioni rese o, comunque, sulla base di altre circostanze, si possa presumere che il richiedente potrebbe far ricorso alla protezione di un altro Paese, di cui potrebbe dichiararsi cittadino.
4. Il fatto che il richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di persecuzioni o danni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi, salvo che si individuino elementi o motivi per ritenere che le persecuzioni o i danni gravi non si ripeteranno e purché non sussistono gravi motivi umanitari che impediscono il ritorno nel Paese di origine.
5. Qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l'autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che:
a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda;
b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell'eventuale mancanza di altri elementi significativi;
c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone;
d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla;
e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile.
Dalla disposizione adesso riportata emerge analiticamente e con chiarezza che l’esame della domanda va svolto dalla Commissione competente alla valutazione della richiesta di protezione sussidiaria e, in caso di rigetto e di impugnazione in sede giurisdizionale, dal giudice attraverso indagini che includono l’attivazione d’ufficio di tutte le competenze necessarie a conoscere la situazione del richiedente nel suo Paese d’origine. Tra queste condizioni, oggetto d’indagine d’ufficio, sono annoverate quelle sociali, familiari, personali e, non ultime, quelle politiche – come precisato dalla Cassazione[51]. Queste indicazioni alludono a un dovere di collaborazione da parte delle autorità italiane al fine di agevolare la dimostrazione, da parte del richiedente, della sussistenza dei presupposti per ottenere la protezione sussidiaria. In qualche modo, è un po’ come se l’arrivo dello straniero producesse un’inclusione delle condizioni socio-politiche ed esistenziali del Paese d’origine – in questo caso il Bangladesh – all’interno del territorio e della sfera di competenza dell’ordinamento italiano. In altre parole, nello spettro della normativa statale, nello specchio del diritto italiano, luoghi distanti divengono prossimi, unificati in un'unica fattispecie costituita, appunto, da un inter-spazio d’esperienza.
La prossimità semiotico-normativa ingenerata dalle previsioni sulla protezione sussidiaria e dalle esigenze conoscitive connesse a una sua appropriata applicazione non unificano, tuttavia, solo spazi fisici. La coordinazione e l’interpenetrazione si verificano, inevitabilmente, anche sul piano semantico e culturale. Applicare gli schemi culturali italiani ed europei, soggiacenti a parole-icone come «danno grave» o «trattamenti degradanti», a situazioni generate e vissute all’interno dell’ambito sociale e comunicativo bangladese esige un’opera di traduzione interculturale da condurre tramite il supporto di indagini antropologiche. Non basta, ovviamente, fare un paio di click sul web per verificare le previsioni normative e lo stato dei luoghi. Comprendere come le norme di quel paese sono interpretate, quali sono i loro standard di effettività, se vi siano condizioni sociali locali che impediscono la possibilità di rivolgersi alle istituzioni di operare efficacemente per assicurare gli standard di giustizia formalmente previsti dall’ordinamento, se il soggetto sia concretamente nelle condizioni di rivolgersi ad autorità giurisdizionali ecc.: tutto questo esige una conoscenza acquisita sul campo, a contatto con le persone e, quindi, la capacità di tradurre categorie culturali diverse e di includere gli esiti di queste operazioni di traduzione all’interno dello spettro semantico delle disposizioni normative in materia di protezione sussidiaria. Ma non basta. A essere chiamate in causa saranno non solo le disposizioni specificamente contenute nei plessi legislativi o regolamentari concernenti la fattispecie della richiesta d’asilo. Definire cosa sia degradante o un grave danno implica inevitabilmente un’idea di soggettività. Tuttavia, questa è a sua volta connotata nei suoi contenuti non solo da fattori etico-culturali ma anche dall’intero complesso delle norme di ogni sistema giuridico che concorrono congiuntamente a delineare il volto del soggetto di diritto. Queste norme saranno chiamate, dunque, a misurare la loro portata semantica, le loro potenzialità deontiche, in coordinazione con situazioni connotate da indici culturali e di senso spesso semanticamente distanti e geograficamente lontani da quelli praticati all’interno del contesto socio-politico-legale del paese dove è richiesto l’asilo.
D’altra parte, come si palesa a una lettura dell’art. 3 sopra riportato, è lo stesso diritto italiano, le sue categorie normative, a includere lo spazio altro, l’Altrove – a sua volta scandito da altre connotazioni di senso – all’interno del proprio areale d’applicazione. Come si diceva più sopra, la prossimità spaziale determina prossimità categoriale e, viceversa, la prossimità categoriale, inerente a categorie generali e dalla portata tendenzialmente universalistica, come ad esempio i diritti umani, genera prossimità spaziale. Un’intrinseca vocazione corologica è quindi riscontrabile nella stessa lettera del diritto statale.
Se l’esperienza bangladese include nelle sue auto-rappresentazioni l’Altrove e ne fa, mediante i percorsi migratori, elemento dinamico per la propria auto-trasformazione, in una sorta di successione fugata può dirsi lo stesso, quindi, per i Paesi d’approdo e i loro sistemi giuridici e culturali. La relazione tra gli spazi instaurata dal ponte migratorio, dal tra-dursi di un soggetto da un luogo a un altro, ingenera processi di contaminazione semiotico-interspaziale di tipo bi- o multi-direzionale. In effetti, così come le pratiche bangladesi ingenerano modificazioni etnico-demografiche in altre parti del mondo, simmetricamente gli standard d’accoglienza e gli stili di vita acquisiti dai migranti nei territori d’approdo producono feedback sui contesti sociali di partenza. Il diritto e i suoi paradigmi ricoprono, in questo gioco di relazioni e contaminazioni incrociate, una parte tutt’altro che secondaria.
L’essere umano di cui parlano le dichiarazioni dei diritti corrisponde, in termini metaforici, a un corotipo antropico certamente definibile come cosmopolita. La sua distribuzione sul pianeta e nei diversi ambienti ha rilevanti conseguenze ai fini della fenomenologia e della rappresentazione della sua presenza in ciascuno di essi. Detto in termini più diretti, per capire cosa fa, cosa sta affermando, qual è la condizione esistenziale del soggetto che chiede asilo, protezione sussidiaria o (come vedremo tra breve) protezione umanitaria, è necessario tenere presente, rendere semioticamente prossimo, cosa accade, è accaduto e potrà accadere nel suo luogo d’origine o in quello di transito e sottoporlo a un processo di traduzione interculturale.
Prima di procedere oltre, qualche parola va spesa in ordine alla distinzione, oggi quasi una summa divisio, tra rifugiati e migranti economici. I criteri per operare questa suddivisione non sono omogenei tra i Paesi del mondo, e non sono tali neanche all’interno dell’Europa. È estremamente difficile, dunque, svolgere considerazioni di carattere generale. Molto dipende dai frangenti storici e dalla coloritura politica assunta, nell’avvicendarsi dei Governi, dalle istituzioni di ogni Stato. Generalmente, si afferma che il rifugiato è colui che è costretto a partire perché teme per la propria incolumità e perché vittima effettiva o potenziale di una violazione dei diritti umani. Viceversa, il migrante economico è colui che sceglie di partire per migliorare le sue condizioni di vita, pur non dovendo temere di incorrere nelle situazioni considerate come presupposti e requisiti della tutela internazionale dei rifugiati e del diritto d’asilo (cfr. supra).
Quando si considera il caso di Robel/Antonio, la scansione adesso illustrata sembrerebbe dover condurre direttamente alla conclusione che il suo sia un caso palese di migrazione economica. Robel ha autonomamente deciso di partire. Nessuno lo perseguitava o minacciava la sua incolumità. È anche vero, tuttavia, che il suo progetto migratorio avrebbe dovuto seguire un percorso ben diverso. La destinazione iniziale era la Libia, dove peraltro le sue previsioni di guadagno, e quindi la possibilità di restituire il suo debito, avevano fino a un certo punto trovato conferma. Il vento della «primavera araba» ha poi confuso le carte, riscrivendo la mappa del suo itinerario migratorio. Tornare in Bangladesh a mani vuote avrebbe significato – e significherebbe ancora – incorrere in non ben prevedibili ritorsioni/punizioni da parte dei creditori e, certamente, nella perdita di tutti i mezzi di (sub-)sussistenza per sé e la rete familiare.
La risposta corologicamente meno sensibile alla sua richiesta di asilo può immaginarsi abbia il seguente tenore. In Bangladesh non c’è guerra, lì non sei perseguitato per ragioni razziali, religiose ecc.: dunque torni. Richiesta d’asilo rigettata. Eppure, se Robel/Antonio tornasse, lo Shylock locale potrebbe ben pretendere la sua libbra di carne – purtroppo, non solo in senso figurato. Sta tutto qui lo scarto tra la sua situazione e quella ordinariamente etichettata come «migrante economico», sinonimo di «migrante irregolare» e non legittimato a richiedere asilo o altre forme di protezione[52].
La nozione di «migrante economico», che impazza sui media, non si ritrova nella normativa[53]. Ai sensi delle disposizioni italiane e comunitarie citate con riguardo alla protezione sussidiaria (ma il medesimo discorso vale anche, come si vedrà tra breve, per la protezione umanitaria) non è importante perché si sia partiti quanto piuttosto la circostanza che non si possa rientrare senza incappare in trattamenti degradanti che espongano a un danno grave. Tra l’altro, l’ordinamento italiano non fa alcuna distinzione tra le ipotesi in cui la possibilità di subire tale danno sussistesse al momento della partenza oppure si sia concretizzato solo successivamente. Robel/Antonio è dovuto fuggire dalla Libia non solo perché non poteva più lavorare/guadagnare, dato lo stato di guerra civile, ma anche perché le chance di sopravvivenza e di incolumità personale erano divenute, in quel Paese, tragicamente scarse. È questa combinazione imprevedibile, e diabolica, di congiunture storiche che espone oggi Robel/Antonio, una volta che rientrasse in Bangladesh, al rischio di dover cedere al suo Shylock, in un modo o nell’altro, la sua libbra di carne o, sostanzialmente, l’intero suo corpo, divenendone schiavo fino al saldo del debito (cioè, in base allo standard di un comune salario bangladese nella zona dove Robel e la famiglia vivono: praticamente mai).
D’altro canto, che in Bangladesh la tutela giudiziaria contro l’usura sia assai blanda è testimoniato da una serie di circostanze facilmente identificabili. L’invenzione del micro-credito e la fortuna economica e personale di Mohammed Yusuf sono connessi esattamente alla incapacità del governo bengalese di estirpare le pratiche usurarie, soprattutto nelle zone rurali del Paese. A ciò si aggiunga che lo stesso Governo sta procedendo, da qualche tempo, allo smantellamento di molte strutture di micro-credito e alla nazionalizzazione persino della Grameen Bank fondata da Yusuf, proprio perché persino le pratiche di micro-credito danno luogo a fenomeni usurari o para-usurari. L’usura e le ritorsioni legate a forma di sovvenzionamento costituiscono insomma un dato socio-culturale. Rispetto a questo dato e alle sue implicazioni anti-umanitarie il governo bangladese non sembra ancora attrezzato a risanare la situazione e ad allinearla agli standard di legalità previsti dalla legislazione lì attualmente vigente (ancorché piuttosto antiquata). Le carenze istituzionali fanno sì, dunque, che i creditori usurari possano perpetrare qualsiasi abuso. Del resto, la sicurezza di potersi soddisfare mediante simili pratiche trova palese testimonianza nella redazione per iscritto del contratto di prestito concluso con Robel/Antonio, come di altri similari con numerosissimi altri aspiranti migranti. Un contratto che in qualsiasi altro Paese, dotato di un’efficiente tutela contro l’usura, equivarrebbe non solo a un semplice pezzo di carta senza valore ma addirittura a una prova d’accusa per lo Shylock di turno.
Supponiamo, tuttavia, che la richiesta di protezione sussidiaria non passi il vaglio della Commissione. Indipendentemente da un’impugnazione in sede giurisdizionale, esistono altre strade per Robel/Antonio che possano consentirgli di evitare un catastrofico rientro in Bangladesh? Altre vie lungo le quali un approccio corologico-interculturale possa fare (praticamente) la differenza?
7. Protezione umanitaria e proiezioni interculturali del divieto di patto commissorio
Nei casi in cui non possa farsi luogo a protezione internazionale e sussidiaria, l’art. 5, comma 6, del d.lgs 286/1998, stabilisce che si possa accedere a una forma di protezione umanitaria qualora ricorrano «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano». In questi casi è competente all’esame della pratica il questore, a norma dell’art. 11, comma 1, del dPR 394/1999.
Nella prassi, i seri motivi di carattere umanitario sono stati riconosciuti nei seguenti casi:
a. Condizioni di salute, familiari o legate all’età (anziani o bambini); b. Pene sproporzionatamente severe previste per reati come il rifiuto di prestare servizio militare, diserzione, fuga dal Paese o domanda di asilo all’estero; c. Situazioni di guerra, guerre civili o disordini etnico/nazionali; d. Instabilità politica, episodi di violenza, insufficiente tutela dei diritti umani; e. Carestie, disastri naturali e ambientali; f. Rifiuto del Paese di origine di riammettere i richiedenti asilo all’estero.
L’elencazione non deve considerarsi tassativa ma solo esemplificativa. Questo anche perché la formula «seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» si presta alle più svariate interpretazioni, considerata l’ampiezza del suo spettro semantico.
Con riferimento al caso di Robel/Antonio, i profili rilevanti sembrerebbero ridursi principalmente a due: 1. Carente tutela dei diritti umani nel paese d’origine; 2. Obblighi costituzionali dello Stato italiano. Proverò a esplicitare perché è così e, soprattutto, a illustrare le sequenze argomentative che potrebbero supportare una richiesta di protezione umanitaria calibrata su questi indici.
La circostanza, già illustrata nel paragrafo precedente, per cui Robel/Antonio potrebbe essere esposto in caso di immediato rientro in Bangladesh alle ritorsioni del suo Shylock, tra l’altro preannunciate dal contratto di prestito, costituisce senz’altro un motivo per asserire che possa farsi luogo alla protezione umanitaria. Simile pratiche sono connesse all’usura e questa, a sua volta, non sembra costituire un problema che le istituzioni bangladesi si sono dimostrate, a tutt’oggi, in grado di fronteggiare.
Tuttavia, esiste un altro profilo, di particolare interesse, che potrebbe legittimare la richiesta di protezione umanitaria. Mi riferisco, in particolare, alla garanzia reale prevista dal contratto per il caso d’inadempimento del debito e riguardante l’abitazione e il negozio di Robel/Antonio: beni che, tra l’altro, non sono attualmente intestati esclusivamente a lui.
Nell’ordinamento italiano e in molti altri di matrice latino/cattolica, le garanzie reali sono qualificate come «patto commissorio» quando implichino l’immediato passaggio di proprietà al creditore di un bene del debitore in caso d’inadempimento. Gli artt. 2744 e 1963 del codice civile italiano sanciscono il divieto di ogni patto commissorio, stabilendo che ogni pattuizione in tal senso sia da considerarsi nulla[54].
Art. 2744: Divieto del patto commissorio. «È nullo il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto è nullo anche se posteriore alla costituzione dell'ipoteca o del pegno».
Art. 1963: Divieto del patto commissorio. «È nullo qualunque patto, anche posteriore alla conclusione del contratto, con cui si conviene che la proprietà dell’immobile passi al creditore nel caso di mancato pagamento del debito».
La prima disposizione ha portata generale. La seconda è prevista nel contesto dell’anticresi o patto anticretico[55] previsto dall’art. 1960 del codice civile. Il divieto di patto commissorio ha ricevuto molteplici interpretazioni e ricostruzioni, orientate a ricostruirne la ratio[56]. Secondo alcuni di questi approcci ermeneutici, esso avrebbe sostanzialmente lo scopo di evitare che i privati si facciano giustizia da sé, senza transitare attraverso le procedure di vendita dei beni dati in pegno o ipotecati gestite giudizialmente. I privati, in sostanza, non possono apprestare forme di garanzie patrimoniali in modo creativo. In materia, l’ordinamento manterrebbe una sorta di monopolio o, se non altro, un potere di supervisione. Queste giustificazioni di carattere pubblicistico – per alcuni aspetti pure condivisibili – sono affiancate da altre ricostruzioni focalizzate sui profili patrimoniali. In particolare – si afferma – la previsione di un patto commissorio potrebbe violare gli interessi degli altri creditori (par condicio creditorum), che si vedrebbero sottratta la possibilità di soddisfarsi, in concorrenza, sul ricavato della vendita giudiziale del bene trasferito al beneficiario del patto commissorio. In questa prospettiva, diverrebbe ancora più problematico se tutti i contratti prevedessero, come clausola di stile, l’inserimento di un patto commissorio. In tal caso, si determinerebbero enormi problemi nella soddisfazione di creditori concorrenti e magari (virtualmente) titolati a soddisfarsi sui medesimi beni.
Quest’ultima considerazione, può diventare più chiara dove si consideri che il patto commissorio è costruito, in genere, non solo come un negozio accessorio o collegato alla costituzione di un pegno o di un’ipoteca, ma anche in modo autonomo. Ciò vuol dire che le parti pongono in essere una vendita sottoposta a condizione sospensiva o risolutiva. Così, nel caso in cui si verifichi l’inadempimento del debitore proprietario del bene, nella prima ipotesi la vendita produrrebbe i suoi effetti fino ad allora sospesi, trasferendo la proprietà al creditore; nella seconda ipotesi, la vendita già perfezionatasi, qualora si verificasse l’adempimento, si risolverebbe, con la conseguenza che il bene rientrerebbe nella proprietà del debitore.
La giurisprudenza italiana presenta alcune oscillazioni in materia di valutazione della nullità del patto commissorio. In passato, si era aperto qualche spiraglio con riguardo alla possibilità di escludere dal divieto ex art. 2744 l’ipotesi della vendita sottoposta a condizione risolutiva (Cass., sent. n. 7385/1986). Si asseriva in quella pronuncia (contrariamente a quanto affermato in Cass. sent. n. 3800/1983) che il divieto di patto commissorio non operasse nel caso in cui all’interno dell’intera operazione negoziale si prevedesse che il creditore dovesse restituire il surplus di valore del bene trasferito rispetto al debito garantito. In questo caso, si affermava, non vi sarebbe stato indebito arricchimento né un’ingiusta prevaricazione da parte del creditore ai danni del debitore. In altri termini, di là dalla forma, ciò che avrebbe dovuto essere indagato ed essere considerato determinante ai fini della configurabilità del patto commissorio coincideva con l’effettivo intento delle parti. In sé e per sé – si proseguiva – la vendita di un bene costituisce un contratto con causa lecita e che si perfeziona pienamente anche in caso di previsione di condizione risolutiva – a differenza dell’ipotesi in cui ricorre la condizione sospensiva. Solo l’indagine sulla connessione fraudolenta tra i due contratti (prestito e vendita del bene) potrebbe accertare lo scopo fraudolento del secondo.
La successiva giurisprudenza di Cassazione, tuttavia, ha mostrato di non seguire questo indirizzo. Soprattutto, si è orientata a dichiarare la nullità di ogni patto commissorio o contratto che lo dissimulasse ogni qual volta potesse ravvisarsi un collegamento anche indiretto con l’esigenza di garantire il debito tramite il trasferimento di un bene del debitore in caso d’inadempimento[57]. In particolare, si è sottolineata l’irrilevanza della clausola, annessa a un patto commissorio o a un negozio fiduciario (con il quale un soggetto, un creditore, si impegni a ritrasferire successivamente il bene al debitore, in caso di adempimento), con la quale si prevedesse che al debitore fosse restituito il surplus di valore del bene rispetto all’ammontare del debito non adempiuto (Cass., sent. 10.3.2011, n. 5740).
La non rilevanza dell’assenza di sproporzione economica tra valore del bene e ammontare del debito, quindi dell’indebito arricchimento da parte del creditore, ai fini della configurabilità di un’ipotesi di patto commissorio, e quindi della nullità di esso o del contratto che lo supporti, è particolarmente rilevante ai fini della determinazione della ratio della previsione ex art. 2744 e 1963 del codice civile. A supportare questa conclusione concorre la sentenza della Cassazione del 9.5.2013, n. 10986. In questa pronuncia, si è prevista l’ammissibilità del patto marciano: vale a dire la garanzia statuita a favore del creditore attraverso la previsione del trasferimento di un bene del debitore in caso d’inadempimento di un debito previa valutazione imparziale, effettuata da un terzo, del valore del bene e, perciò, del prezzo del suo trasferimento. Sembrerebbe, alla luce della pronuncia appena citata, che la Corte di Cassazione ravvisi la ratio degli artt. 2744 e del 1963 c.c. esclusivamente nel rischio di un ingiustificato arricchimento da parte del creditore, che potrebbe approfittare delle condizioni di bisogno del debitore per precostituirsi una fonte di indebita e abusiva appropriazione. Nonostante le apparenze, tuttavia non è questo il complessivo indirizzo ermeneutico espresso dalla Corte. E, in effetti, nella medesima pronuncia si precisa che gli artt. 2744 e 1963 cc palesano «una specifica valutazione legale del carattere riprovevole del patto commissorio, in virtù della sua intrinseca elevata potenzialità – per frequenza di impiego e facilità di realizzazione – a determinare il rischio (presunto) di produrre effetti che l’ordinamento non consente e che si risolvono, in definitiva, in un eccesso di garanzia per il creditore e di responsabilità patrimoniale per il debitore». Del resto, l’argomentazione si pone in linea con quanto asserito da Cassazione nella sent. 20.2.2013, n. 4262, in merito alla violazione del divieto di patto commissorio, per cui «qualsiasi negozio può integrare tale violazione, quale che ne sia il contenuto, nell’ipotesi in cui venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento giuridico, di far ottenere al creditore, mediante l’illecita coercizione del debitore al momento della conclusione del negozio, la proprietà del bene dell’altra parte, nel caso in cui questa non adempia la propria obbligazione».
Una lettura complessiva degli indirizzi giurisprudenziali sopra riportati lascia emergere come la sproporzione economica tra ammontare del debito e valore del bene oggetto di patto commissorio non rappresenti, nella prospettiva della Corte, l’asse di legittimazione della nullità sancita dagli artt. 2744 e 1963 del cc. Del resto, nelle norme in questione non si fa alcun cenno al profilo dell’equivalenza patrimoniale tra ammontare del debito e valore del bene oggetto del trasferimento. C’è da osservare, peraltro, che il criterio della proporzione economica tra le prestazioni è invece espressamente previsto da altre norme in materia contrattuale, come ad esempio l’art. 1448 del codice civile[58].
La differenza nel modo di considerare patto marciano e patto commissorio, probabilmente, è da ricondurre alla circostanza che il bene del debitore, nel primo caso, funge esplicitamente da equivalente patrimoniale, mentre nel secondo caso – anche quando sia prevista la restituzione del valore eccedente da parte del creditore – rappresenta l’oggetto diretto delle possibili mire di chi presta. In questa seconda ipotesi, potrebbe essere in gioco l’equilibrio nella condizione di reciprocità e simmetria che dovrebbe assistere l’esercizio della libertà contrattuale non soltanto dal punto di vista puramente economico-finanziario. Nei diversi frangenti della vita, la possibilità di stipulare un patto commissorio potrebbe porre il creditore nella condizione di approfittare della necessità di liquidi da parte del debitore (senza che questo conduca a ipotizzare gli estremi di una radicale situazione di bisogno, né un ingiustificato arricchimento che superi la metà dell’ammontare del debito ex art. 1448), in modo da prefigurare, così, la possibilità di impadronirsi di un bene che il debitore stesso non avrebbe altrimenti voluto cedergli. Quel che vuole evitarsi con l’art. 2744, insomma, è una situazione di potere a vantaggio del possibile creditore, che lo porrebbe nelle condizioni di indirizzare in modo anomalo la volontà del debitore. Nei diversi contesti sociali, chi presta si trova già, mediamente, in una condizione di vantaggio. Scegliere su quale dei beni del debitore soddisfarsi, approfittando della sua esigenza di disporre immediatamente di liquidità, potrebbe rappresentare un viatico per accumulare ancora più potere, per incrementare una posizione di dominio sociale, se non pure per umiliare l’altra parte o per offenderne la dignità. Del resto, è solo utilizzando uno sguardo più vasto, sensibile alle dimensioni etico-sociali della prassi negoziale, che può cogliersi la continuità esistente tra le contemporanee previsioni di nullità del patto commissorio e le sue lontane origini romanistiche. Prima di ripercorrere brevemente il percorso che conduce da queste matrici culturali sino a oggi, è necessario tuttavia svolgere alcune considerazioni sull’attuale distribuzione geografica, potrebbe dirsi sul corotipo normativo, del divieto di patto commissorio.
La dichiarata ammissibilità del patto marciano, da parte della Cassazione, corrisponde a una progressiva difficoltà di mantenere ferma la più ampia portata del divieto ex articolo 2744 e 1963 nel contesto contemporaneo degli scambi globali. Complice di questa difficoltà è la circostanza che il Common Law non conosce un analogo divieto, come tale estraneo anche al diritto tedesco – nonostante le forti ascendenze romanistiche della tradizione giuridico-dogmatica teutonica. Di fronte a un mondo finanziario e commerciale sempre più influenzato dalla lingua e dalle pratiche di Common Law, il divieto di patto commissorio, se inteso nella sua massima ampiezza, rischia perciò di porre gli operatori italiani in una condizione di svantaggio o di marginalizzazione. Tra l’altro, anche la legislazione francese, traghettatrice con il Code Napoléon (artt. 2078 e 2088) del divieto di patto commissorio nell’esperienza moderna di Civil Law, ha eliminato la sanzione di nullità del patto (artt. 2078 e 2088 Code civil, come modificati da ord. n. 346 del 23.3.2006)[59]. A evitarne la configurazione si ritiene basti la previsione della restituzione al debitore dell’eccedenza – in questo modo attribuendo all’istituto una funzione di tutela patrimoniale calibrata sulla necessità di evitare un ingiustificato arricchimento da parte del creditore. Sotto questo profilo può dirsi che sembrerebbe potersi registrare una tendenziale convergenza tra Civil Law e Common Law; che, a sua volta, trova un asse di transazione/mediazione precisamente nella trasformazione dei patti commissori in patti marciani[60]. Alla serie di considerazioni appena illustrate, deve aggiungersi la larga diffusione del trust, in grado di incarnare un negozio fiduciario orientato a configurare una delle ipotesi indirette di realizzazione del patto commissorio, e cioè tramite l’intermediazione di un terzo: ipotesi sanzionata invece con la nullità ex artt. 2744 e 1963 dalla giurisprudenza italiana.
Eppure, la funzione non patrimoniale ma etico-sociale ed equitativa del divieto di patto commissorio risulta con chiarezza dalle sue matrici storiche. La previsione del divieto fu introdotta dall’imperatore Costantino con un editto del 320 d.C.. La disposizione imperiale prevedeva la nullità del patto commissorio correlato alla costituzione di un pegno (che in diritto romano concerneva sia i beni mobili sia i beni immobili), per cui la cosa data sarebbe passata direttamente nella proprietà del creditore in caso d’inadempimento. Le parole dell’editto, riprese poi nel Codex Theodosianus e successivamente ribadite nei contenuti dal Digesto, non sembrano lasciare dubbi sulle finalità etico-sociali, e non meramente patrimoniali, del divieto: «Si quis igitur tali contractu laborat, hac sanctione respiret, quae cum praeteritis praesentia quoque depellit et futura prohibet […] quoniam inter alias captiones praecipue commissoriae pignorum legis crescit asperitas, placet infirmari eam et in posterum omnem eius memoriam aboleri»[61]. La previsione si iscriveva nel quadro di un intento complessivo volto a evitare che il debitore fosse indotto a… per necessitatem o obpressum debito promittere[62]. Obiettivo di Costantino sembrerebbe essere stato quello di neutralizzare la durezza del patto commissorio, percepito evidentemente come una manifestazione del potere sociale di chi si trovava nella condizione di poter prestare danaro e avesse esercitato quel potere in modo da incrementarlo sempre più a danno di chiunque si trovasse nel bisogno o fosse più debole.
Il principio fu ripreso da Innocenzo III, nel suo Significante de pignoribus, dove il divieto di patto commissorio trovava una ratio fondamentalmente teologico-morale. «La possibilità di inserirlo rischia di far tracimare i rapporti tra creditori e debitori nell’ambito dell’usura, quindi nella violazione della giustizia commutativa, dei doveri di carità e nell’ingiusto asservimento di chi si trova a dover chiedere danaro in prestito» – così si affermava. Nelle parole di Innocenzo III lo squilibrio economico, connesso all’eccedenza del bene dedotto nel patto rispetto all’ammontare del debito, è indubbiamente presente. Ciò nondimeno, esso non costituisce il nucleo finalistico del divieto, che ha a che fare, piuttosto, con la depravazione intrinseca nella pratica dell’usura, nella prevaricazione sui più deboli e nell’indifferenza alla loro dignità in quanto figli di Dio al pari dei creditori. Traghettato dal diritto canonico, il divieto di patto commissorio proseguì il suo cammino nella cultura giuridica europea intrecciando i suoi destini con la riflessione della prima e della Seconda Scolastica, fino a innestarsi nel solco della riflessione giusrazionalistica e giusnaturalistica, riversatasi poi – come si è già indicato – nel prototipo dei moderni codici civili: il Code Napoléon. È questo il lungo sentiero che conduce prima al codice civile italiano del 1865 (artt. 1884, 1894) e, quindi, al codice civile vigente e ai suoi articoli 2744 e 1963.
La storia culturale del divieto di patto commissorio, in un certo senso, illumina di una luce differente il significato che la previsione può oggi svolgere nella cornice costituzionale e sullo sfondo delle previsioni internazionali e sovranazionali in materia di diritti umani. La necessità di tutelare la libertà economica dei soggetti di diritto è un principio che rientra nell’arco delle statuizioni della Costituzione italiana. Questo principio deve, però, essere declinato in modo plurale. Esso vale per ciascuna delle parti contraenti, sia essa incarnata da una persona facoltosa o da una persona non abbiente. Inoltre, secondo il dettato dell’art 41 della Costituzione italiana, la libertà d’iniziativa economica «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Così, per quanto possa apparire strano, il testo dell’art. 41, proprio attraverso lo spettro del divieto di patto commissorio, entra in stretta consonanza con le previsioni dell’art. 5, comma 6, della d.lgs 286/1998.
Tutto ciò riporta, dopo un giro largo, alla richiesta di protezione umanitaria di Robel/Antonio e al suo contratto di prestito. Che il contratto di Robel/Antonio violi la sicurezza, la libertà e la dignità sua e della sua famiglia si sta poco a riconoscerlo – salvo che non si abbia una posizione preconcetta in senso contrario. Che questa conclusione sia supportata anche dalle modalità di previsione del patto commissorio in esso contenuto (avente ad oggetto: casa, negozio, esigibilità del pagamento del debito in qualsiasi momento prima della scadenza) pare altrettanto palese. Tra l’altro, il principio di cui all’art. 41, secondo comma, della Costituzione italiana si qualifica senz’altro come un principio fondamentale, anche perché chiama in gioco diritti e prerogative incluse nei principi supremi dell’ordinamento costituzionale e nel novero dei diritti umani (libertà, dignità, sicurezza) così come disciplinati a livello internazionale e sovranazionale. Per il tramite della previsione civilistica concernente il patto commissorio e in forza della sua valenza costituzionalistico-umanitaria, la richiesta di Robel/Antonio appare dunque plausibilmente da prendere in considerazione come suscettibile di iscriversi all’interno della cornice della protezione umanitaria.
È vero, il Bangladesh non prevede il divieto di patto commissorio, né pone ostacoli alla costituzione di garanzie reali o all’uso, a queste finalità, del trust. Tuttavia, ciò non inficia la possibilità e persino il dovere, da parte dello Stato italiano, di verificare lo standard di tutela che ricevono i diritti umani nel Paese d’origine del richiedente asilo. D’altro canto, tutelare i diritti umani nelle loro possibili proiezioni di senso è certamente da considerarsi un obbligo costituzionale dello Stato, soprattutto quando essi ricevano una protezione più intensa per effetto della combinazione/coordinazione tra norme esterne e norme interne all’ordinamento italiano.
Come ostacolo a queste conclusioni potrebbe tuttavia invocarsi la sent. Cass., Sez. unite, 5.7.2011, che ha escluso l’ascrivibilità del patto commissorio all’ordine pubblico internazionale, sulla base della constatazione che esso «non è conosciuto, né vietato, in una (sicuramente rilevante) parte dell’Unione europea». Pur considerando la scarsa diffusione del divieto di patto commissorio, ciò non implica affatto, però, che in relazione a specifiche situazioni concrete esso non possa funzionare da tramite e interfaccia (tecnicamente: da norma interposta) per la garanzia di diritti umani e/o fondamentali. Del resto, che la Cassazione a Sezioni unite si sia soffermata sulla valenza costituzionalistica e umanitaria del divieto sancito dall’art. 2744 del codice civile italiano mi pare sia da escludere. Se l’emergere di questa valenza prende corpo in queste pagine, ciò dipende, appunto, dalle implicazioni corologiche della richiesta d’asilo e, prima ancora, della presenza di Robel/Antonio sul territorio italiano. Sono il transito di questo giovane bangladese e le sue istanze di tutela che generano un’inedita prossimità spaziale e semantica, oltreché un intreccio interculturale, tra Bangladesh e Italia, tra i rispettivi ordinamenti e tra i codici culturali dei due Paesi, tali da far acquisire al divieto di patto commissorio rilevanza umanitaria.
Gli eventi passati e futuri, effettivi e possibili, che possono essersi prodotti o prodursi in Bangladesh, così da decidere il destino, la situazione personale di Robel, del richiedente protezione umanitaria, entrano a far parte del contesto semiotico in cui si proiettano le potenzialità semantiche delle normative italiane, anzi dell’intero sistema normativo italiano – inclusi i diritti fondamentali e i diritti umani sanciti a livello sovranazionale. Così come qui proposta, la ricalibratura geografica del divieto di patto commissorio e delle sue implicazioni costituzionali ha una matrice corologica, cioè dipende dai soggetti, dalle situazioni, dai fenomeni che si producono in Italia per effetto dell’arrivo di Robel/Antonio e della sua storia, cioè di un plesso di connotazioni semantiche rilevanti – in modo inedito – per il diritto interno, sovranazionale e internazionale. È l’interrelazione semiotica tra accadimenti altrimenti disgiunti nello spazio fisico, e generata dalla presenza di Robel, che produce l’interpenetrazione trans-territoriale tra Bangladesh e Italia unitamente all’esigenza di una traduzione interculturale tra i loro circuiti di senso e di esperienza. Tutto ciò costituisce una condizione necessaria, un punto di vista da acquisire senza possibilità di elusione, se chi giudica la richiesta di protezione umanitaria in questione intende applicare correttamente, in coerenza con i suoi presupposti di legittimazione, la normativa in materia. In mancanza di uno sguardo corologico-interculturale, in grado di veicolare la traduzione tra gli indici di senso culturalmente differenti che concorrono a definire la storia di Robel/Antonio, semplicemente non si riusciranno a comprendere i presupposti di fatto, cioè gli indici cognitivi indispensabili a determinare quali norme applicare al caso concreto e come applicarle.
Le decisioni prese in Italia in ordine all’accoglimento o al rigetto della richiesta di protezione umanitaria produrranno peraltro conseguenze in Bangladesh, non solo qui e adesso, ma anche con riferimento al futuro dei processi migratori tra i due paesi e alla condizioni socio-economiche dei bangladesi. Quelle conseguenze sono e saranno da considerarsi, comunque, parte integrante del significato delle decisioni che saranno assunte, delle normative applicate e della coerenza di tali applicazioni/interpretazioni con i corrispondenti presupposti di legittimazione costituzionale dell’azione istituzionale. L’ambito di effettività, l’areale corologico di quelle norme, è insomma coestensivo all’interspazio di esperienza e di senso disegnato e vissuto da Robel/Antonio attraverso il suo tragitto migratorio passato, presente e futuro.
8. Processi culturali e occhiali (rotti) del giurista
L’incontro di Robel/Antonio con l’ordinamento italiano produce all’interno di questo una spinta all’auto-trasformazione. L’inclusione di uno spazio altro nell’ambito della cornice fattuale da qualificare giuridicamente equivale a un rinnovamento del contesto semiotico di interpretazione e applicazione delle norme. L’Alterità e il contatto con essa innescano un’auto-mutazione nell’ordinamento statale italiano indotta non tanto da un fenomeno di alienazione, di esotizzazione legale[63], quanto da uno straniamento inerente a esso stesso, alla necessità di applicare le proprie norme in armonia con i propri presupposti di legittimazione. Sennonché il contatto con l’Alterità (culturale e insieme spaziale) non si sostanzia in un atto istantaneo, come se entità separate improvvisamente si incastrassero l’una nell’altra e si combinassero in modo meccanico e predefinito. Piuttosto si tratta del progressivo dispiegarsi di un processo.
L’Alterità modifica il contesto che ospita le relazioni di senso, rinnovandolo. L’applicazione delle norme statali e le norme statali stesse ne risultano interrogate in modo nuovo e sono sollecitate a produrre nuovi significati. Come si è visto con riferimento al divieto di patto commissorio, nuovi eventi, nuove combinazioni di fatti e fenomeni, innescano domande inedite, schiudendo nuove angolazioni riguardo al significato delle norme dell’ordinamento statale. Disambiguare i possibili significati delle parole del diritto è una dinamica processiva dai risultati non predeterminati, né predeterminabili in anticipo. Nel suo dispiegarsi, essa richiede l’elaborazione di argomentazioni, la modellazione di nuove reti di senso capaci di supportare le opzioni ermeneutiche finali, cioè suscettibili di costruire un’impalcatura semantica che possa garantire la certezza del diritto anche quando si tratti di fronteggiare situazioni inedite. La considerazione delle implicazioni di precedenti opzioni interpretative, magari assestate e utilizzate in modo relativamente irriflesso, all’interno di nuovi contesti fattuali e connotativi può condurre a un ripensamento dei loro presupposti, dei loro “perché”. Spesso, e come è accaduto anche nel caso del divieto di patto commissorio in relazione alla richiesta di protezione umanitaria qui esaminata, il confronto con l’Altro, con il nuovo, spinge a compiere viaggi retrospettivi nella storia. Simili escursioni nel passato, così come quelle condotte nei futuri possibili, non sono altro, tuttavia, se non tentativi di ampliare la rete di relazioni di senso che ogni parola riassume in sé, come un’epitome. Grazie a essi, si acquisisce consapevolezza critica di quel che si sa ma fino a un determinato momento non si sapeva di sapere. Si tenta, cioè, di divenire consapevoli della propria cultura, delle sue risorse semantiche, in modo da poterle “maneggiare”, usandole come arnesi per creare nuovi contesti unificati di esperienza. All’interno di essi, il “nuovo” potrà essere tradotto, coordinato e inglobato e posto in continuità – secondo relazioni di omologia o di contrapposizione dialettica – con il passato. Sarà così definito il suo statuto cognitivo e assiologico, le categorie normative nel cui spettro semantico l’Alterità potrà essere iscritta o dalle quali dovrà essere estromessa. Nel corso di questa operazione, tuttavia, muteranno gli stessi confini semantici delle categorie normative prese in considerazione. Ciò avverrà in concomitanza al riarticolarsi delle reti di senso disegnate nel modularne l’interpretazione rispetto al caso concreto, in modo da supportare un significato finale (per quanto tale solo in via interlocutoria) sul quale basare l’attività di applicazione del diritto.
I viaggi retrospettivi nel “passato”, nella tradizione degli istituti o nelle loro implicazioni sistematico-culturali, producono storia e rigenerano le coordinate di senso del sistema giuridico-culturale. Costituiscono un atto creativo. Nel caso qui analizzato, le oscillazioni e gli assestamenti interpretativi degli artt. 2744 e 1963 del codice civile italiano, tracciati negli ultimi anni dalla Corte di cassazione, hanno fatto da apripista per una riconsiderazione delle matrici storiche ed etico-culturali del divieto di patto commissorio, conducendo sino alle sue radici costantiniane. Eppure, per quanto possa apparire paradossale, è proprio dal fondo della storia che emerge una chiave di senso in grado di comporre normative costituzionali e umanitarie, divieto del patto commissorio ed esperienza (verrebbe da dire: realtà) culturale del Bangladesh. Le esigenze di tutela dei soggetti deboli che mossero Costantino, millesettecento anni fa, erano probabilmente connesse ad ambienti sociali in cui la distribuzione della proprietà immobiliare giocava una parte importante nell’articolazione delle dinamiche di potere a livello locale. Motivazioni simili traspaiono anche dalle parole pronunciate da Innocenzo III sul finire del XII secolo. Consentire che signorotti (oggi boss) locali utilizzassero il patto commissorio come garanzia dei prestiti da essi erogati avrebbe determinato il rischio di far cementare squilibri di potere destinati a cumularsi e a incrementarsi nel tempo. Tutto ciò avrebbe potuto generare un circolo vizioso. Soggetti sempre più ricchi avrebbero potuto condizionare la vita economica locale in modo dispotico grazie all’accumulazione progressiva di ricchezza immobiliare: allora fonte primaria di ricchezza. Servaggio, assenza di ogni possibilità di giustizia commutativa, condizioni di vita miserrime per i più deboli, sarebbero state le inevitabili conseguenze di un regolare utilizzo del patto commissorio.
Qualcosa di simile può oggi immaginarsi con riguardo al Bangladesh rurale. La posizione di Robel e della famiglia di fronte agli Shylock locali – come si è segnalato – ha qualcosa di endemico. L’espropriazione della casa e del negozio, nel caso di mancato pagamento del debito, andrebbe a rafforzare una posizione di possidenza immobiliare che, a sua volta, incrementerebbe il potere del creditore sul territorio. Del resto, in Bangladesh come altrove, le banche non fanno prestito se non a fronte della possibilità di fornire adeguate garanzie. Una popolazione diffusamente e cronicamente esposta alla perdita dei propri beni immobiliari o mobiliari, come sanzione faidate orchestrata dagli usurai locali, difficilmente potrà avere accesso al credito bancario – che in ogni caso non è propenso ad accettare rischi eccessivi. Del resto, è esattamente questa la situazione testimoniata dalla vicenda migratoria di Robel, che era riuscito a finanziare la propria partenza con 250.000 rupie prestate dalla banca ma aveva dovuto rivolgersi a uno dei tanti Shylock locali per le altre 250.000 necessarie a realizzare il suo progetto di viaggio.
L’inclusione dell’orizzonte bangladese – ma non solo di esso – nell’areale applicativo dell’art. 2744 restituisce, così, al divieto di patto commissorio, quasi attraverso un lifting palingenetico, tutta la portata etico-socio-umanitaria, e non solo meramente patrimoniale, che il divieto di patto commissorio vantava al momento della sua genesi storica nella cultura romana. La dimensione corologica, unificando spazi e spettri categoriali, mostra di ingenerare, quindi, anche una sorta di sintesi inter-temporale. Passato e implicazioni future delle norme chiamate in causa dalla richiesta di protezione umanitaria di Robel sembrano presentificarsi all’interno di una sorta di simultaneità immanente, capace di unificare tempi e spazi diversi. In questa cornice slargata, come per effetto di una sorta di universalizzazione, acquistano una rinnovata fisionomia tratti antropologici, costanti trans-epocali e connotazioni inter-culturali dell’esperienza umana. Tutto ciò è, comunque, soltanto la tessitura di una rete semiotica, che deve la sua apparente a-temporalità e a-spazialità semplicemente alla inossidabilità del segno e della sua inesauribile attitudine alla produzione di significati. D’altronde, nel significato, che riunifica nel senso di un’esperienza l’intera messe di relazioni semiotiche a essa soggiacenti, tutto è compresente. Si tratta però solo dell’esito finale del processo di significazione, che conosce nel suo unificarsi soltanto una battuta d’arresto interlocutoria. Diversamente ci si ritroverebbe immersi in una sorta di condizione di coincidenza onnicomprensiva dell’alfa e dell’omega, vale a dire la fine della storia.
Le considerazioni che precedono mostrano un fenomeno di estremo rilievo. Il giudizio, la valutazione amministrativo/processuale della singola richiesta di protezione sussidiaria o umanitaria, è suscettibile di trasformarsi in un processo culturale, di trasformazione culturale. Quando accade, ciò avviene, peraltro, in modo multi-laterale e multi-direzionale. Così, nella nostra esperienza sul campo, anche Robel/Antonio ha partecipato al gioco dei rendez-vous nella memoria culturale e nelle plurime dimensioni corologiche del suo «trovarsi in Italia a chiedere protezione», qui e adesso. Illustrare a lui cosa significa patto commissorio, le sue implicazioni umanitarie, ingenerare nella sua coscienza un confronto tra abiti etici differenti, coordinare tutto questo a fini pratici intrecciandolo direttamente al suo destino esistenziale: l’insieme di queste e altre attività comunicative, di tali processi di trasformazioni e auto-trasformazione antropologico-culturali, ha prodotto una rilettura dell’esperienza migratoria e delle sue coordinate di senso.
Potrà sembrare inverosimile, tuttavia il costume, l’abitudine, determinano spesso atteggiamenti di acritica accettazione di uno status quo pure culturalmente ed eticamente incoerente. Tra i bangladesi, la diffusa condizione di vittima dell’usura rappresenta, dal punto di vista psico-sociale, un fattore in grado di narcotizzare persino l’etica di matrice religiosa. Come si è osservato, benché il Bangladesh sia per il 90% di fede islamica, l’usura impazza e sovente – come accade in altri luoghi – l’utilizzo della vendita con patto di riscatto è utilizzato come finzione giuridica per dissimulare il prestito a interessi contrario al coranico divieto di ribah. L’Islam Banking praticato nel mondo ne fa un uso diffuso ancorché mitigato da forme di compartecipazione e sodalità nelle attività degli istituti bancari da parte di azionisti e correntisti che, in qualche modo, convertono in una forma di quasi-collaborazione solidaristica svariate forme di prestazione di danaro a interesse. Come si indicava, i colloqui avuti con Robel hanno fatto spazio allo sbocciare di processi di rilettura e riarticolazione del suo sapere culturale. Un fenomeno che ha preso corpo esattamente nell’interspazio fisico e semantico costituito dalla specifica condizione di questo giovane bangladese, a cavallo tra due Paesi e due culture. L’aspetto veramente saliente della vicenda, di questo atteggiarsi dinamico della sua mente, non va colto in una strategica manipolazione dei propri codici identitari al fine di ottenere surrettiziamente un permesso di soggiorno. La furbizia, la capacità di inventarsi narrazioni ad hoc per raggiungere lo scopo principale del migrante, cioè non essere rispedito a casa a mani vuote, fa parte dell’umano, della cronaca quotidiana e non va certo ignorato. Tuttavia, nella possibilità di ottenere un risultato attraverso il diritto, di guadagnarsi un riconoscimento interculturale dotato dell’effettività propria delle norme giuridiche, trova “spazio”, anzi crea il “suo spazio” l’esercizio della competenza culturale propria di ogni individuo. Non solo, dunque, culture statiche, ossificate, messe a confronto sulla base delle loro – presunte – strutture normative e sottoposte a improbabili e compromissori mercanteggiamenti (le note accommodations, spesso sbandierate come panacea dei conflitti identitari[64]), ma piuttosto esercizio in atto della propria competenza/creatività culturale, realizzato riutilizzando i propri saperi per adattarsi a nuovi ambienti, per tradurre e transigere metaforicamente significati e abiti, così da creare cultura.
Non è possibile prevedere come finirà l’avventura migratoria del nostro Robel/Antonio, se il destino – o più semplicemente una Commissione, un Questore o un giudice italiani – lo ricondurranno di fronte al suo Shylock del Bengala, a pagare il debito inadempiuto con una libbra della propria carne. Certo è che, se potesse ottenere protezione, si aprirebbe forse la possibilità, per lui, di traslocare e tradurre in Bangladesh, un giorno, il training, il processo interculturale e di invenzione culturale sperimentato in Italia. Ancora, dunque, un effetto corologico, d’interrelazione spaziale e semiotico-antropologica. Chissà se innestandosi sull’etica islamica il corotipo del divieto di patto commissorio non possa, nel futuro, riconquistare un posto di primo piano sul palcoscenico della coscienza etica planetaria.
C’è ancora qualcosa da osservare, però, riguardo tutto questo. Il diritto, se utilizzato in chiave corologico-interculturale, può svolgere un importante ruolo di emancipazione soggettiva. Lo stesso diritto occidentale moderno – non sembri strano agli antropologi anti-modernisti e anti-occidentalisti – potrebbe riconvertire la curvatura colonialistica e post-coloniale acquisita dal suo universalismo in un fattore di de-colonizzazione interculturale. Questo obiettivo potrebbe essere marcato puntando, appunto, sulla creatività culturale degli individui, esercitata a partire dalle storie personali e dispiegata servendosi della possibilità di inventare l’universale attraverso una lettura polifonica e interculturale dei diritti umani, e persino dei diritti statali – come qui si è tentato di fare. Tuttavia, gli operatori del diritto non saranno capaci di supportare simili processi di trasformazione fin quando resteranno convinti che i loro occhiali da giuristi sono e devono rimanere epistemologicamente puri, idiomatici, metodologicamente chiusi ad apporti interdisciplinari.
Eppure, conoscere le norme non basta. Nessun giurista sarebbe in grado di capire, da solo, senza un supporto antropologico, il senso dell’esperienza di Robel/Antonio – chi ha scritto questo saggio si augura che almeno questo sia emerso con nitidezza. Chiuso nel suo solipsismo legalistico, il professionista del diritto non riuscirebbe mai a tradurre l’Alterità, a liberarsi dei suoi stereotipi, del suo punto di vista, dei suoi occhiali culturali. D’altro canto, l’autorevolezza e il potere del diritto gli sarebbero silenziosi complici nel giudicare l’Altro utilizzando i propri schemi di giudizio radicati nella propria cultura di appartenenza. Entrambi, autorevolezza e potere, potrebbero indurlo – ed è quello che accade, purtroppo, nella maggior parte dei casi – a sottovalutare il problema cognitivo che si annida nell’incontro con l’Altro. La forza delle conclusioni e decisioni raggiunte dai giuristi, proprio perché assistite dall’autorità istituzionale, tende a spezzare il rapporto di simmetria con l’Altro, disattivando così le ragioni propulsive che potrebbero spingere coloro che applicano il diritto a compiere lo sforzo a uscire da se stessi, a dubitare dell’apparenza morfologica delle cose, a capire che prima di applicare la legge bisogna comprendere i fenomeni e, per questo, è metodologicamente necessario porre in discussione quel che si crede di aver capito dei fatti, intraprendendo all’occorrenza un tragitto di traduzione. Solo dopo aver disarticolato eventi, gesti, parole, nei loro elementi connotativi, dopo averli contestualizzati in modo incrociato nelle diverse prospettive culturali e dopo aver effettuato un lavoro di traduzione interculturale, solo allora sarà possibile identificare le norme da applicare al caso concreto e saggiare gli eventuali conflitti tra valori connessi sia all’agire personale, agli scopi individuali o collettivi perseguiti dai soggetti, sia ai differenti orizzonti di fini che li ospitano. Naturalmente, la scelta della norma, o meglio, della costruzione normativa pertinente al caso non costituisce il capolinea dell’indagine ermeneutica diretta alla qualificazione giuridica dei comportamenti dell’Altro[65]. Come si è visto, lo spettro semantico di quella stessa elaborazione normativa può fungere da scaturigine per ulteriori domande, modalità di ricostruzione dell’agire altrui e persino per riconfigurazioni della propria cultura anche da parte dell’Altro. A partire da queste ri-prospettazioni, ammesso che trovino ascolto presso le orecchie del giurista che ritiene di aver già identificato la regola del caso, potrebbe innescarsi un ulteriore processo di rivalutazione sistematica, tale da condurre, in alcune ipotesi, all’esclusione delle stesse soluzioni normative identificate in precedenza come quelle pertinenti.
Credere che la realtà parli una lingua sola o che per dar vita a un approccio corologico-interculturale basti il parere esterno di un esperto di altre discipline – come, ad esempio, un antropologo o uno psicologo culturale – sarebbe un grave errore. Il giurista deve imparare a leggere le norme stesse con occhi da antropologo o psicologo-culturale, da storico, da geografo, e così via. Allo stesso modo, anche gli studiosi di altre discipline, quando si confrontano con il fenomeno dell’incontro/coesistenza tra persone di culture diverse, hanno necessità di guardare ai fenomeni con lo sguardo del giurista. La vita degli esseri umani, ormai a livello planetario e in tutti i settori dell’esperienza, è scandita dal diritto, è costruita attraverso il diritto e può rimodellarsi attraverso il diritto se questo è utilizzato come propulsore assiologico e come strumento per garantire effettività alle sintesi interculturali raggiunte avvalendosi di altri saperi o discipline[66].
L’incontro tra abiti culturali diversi modifica inevitabilmente i contesti di senso, gli sfondi concettuali, cioè l’oceano di presupposti impliciti sui quali sono costruite a scopo euristico e pragmatico le scansioni disciplinari. È inevitabile e indispensabile, perciò, che ai processi interculturali si accompagnino approcci inter-disciplinari, e viceversa. Diversamente, la reiterazione ostinata di paradigmi costruiti in contesti culturali differenti produrrà valutazioni, modalità di categorizzazione e schemi d’azione non adeguati alle dinamiche dell’esperienza e della storia. Errori clamorosi potrebbero scaturirne, insieme a spettacolari eterogenesi dei fini.
Del resto, proprio nell’analisi del possibile rilievo conferito al divieto di patto commissorio dalla richiesta di protezione umanitaria di Robel/Antonio e da una sua lettura in chiave corologico-interculturale si evince l’importanza di un’interazione, ad esempio, tra storia, antropologia e diritto. Lo stesso caso mostra assai efficacemente che un approccio esclusivamente giuridico-comparatistico, internazional-privatisico, inter-legalistico e, più in generale, inter-normativo o inter-ordinamentale, sarebbe del tutto insufficiente, se non pure fuorviante, per comprendere cosa fa, cosa accade, quel che potrebbe accadere a Robel/Antonio e che cosa tutto ciò significhi rispetto alla tutela dei diritti umani e/o costituzionali che pure gli spetta. L’insieme delle opzioni interpretative e metodologiche appena elencate rischia di cadere in quella che potrebbe definirsi come fallacia normativista.
Le persone non sono norme e i processi di tra-duzione/tra-slazione spaziale rendono la loro competenza/creatività culturale, e quindi ciò che essi intendono e vogliono, non coestensiva con gli apparati normativi dei Paesi d’origine o dei gruppi d’appartenenza (religiosi, etnici, nazionali, politici, ecc.). Mutare contesto d’esistenza significa riadattare la propria cultura proprio per rimanere se stessi[67]. La conoscenza degli apparati normativo/culturali deve essere accompagnata e forse preceduta dall’ascolto delle persone che li traghettano sulle proprie spalle e costituiscono il presupposto perché essi possano acquisire rilevanza inter-contestuale, interculturale, interspaziale.
Per comprendere quanto possa essere distante da tutto ciò il modo comune di intendere il proprio ruolo e il proprio lavoro da parte degli operatori del diritto, può essere assai utile tornare all’amata metafora degli «occhiali del giurista». In Italia, essa fu resa celebre da Arturo Carlo Jemolo – che forse la utilizzava con un pizzico di sana ironia – ma ha finito per divenire progressivamente stendardo di una vantata specificità disciplinare ed epistemologica dello sguardo giuridico sul mondo. In questo senso, val la pena di riportare le parole di Paolo Grossi[68], che da storico del diritto pure esalta questa sorta di solipsismo esoterico di chi vanta «occhiali speciali»per guardare il mondo:
«Occorre innanzi tutto, come sono solito dire ai miei studenti, che lo storico del diritto si ponga sul naso gli occhiali del giurista e che senta questi occhiali perfettamente convenienti al suo naso; occorre che egli si misuri anche con quella dimensione esclusiva, ostica ma forse essenziale, che è la tecnica giuridica. Il diritto ha infatti una sua autonomia che si concretizza in una autonoma visione del mondo, che è, insomma, l’autonomia di uno specifico sapere, autonomia di statuto epistemologico, di concetti, di lessico. Il che non vuol dire – come taluni incolti possono credere – condannarlo al formalismo e ai suoi eccessi. È tutto il contrario: il sapere giuridico, come sapere tecnico, è semplicemente la limpida messa a fuoco della dimensione giuridica entro la grande realtà socio-economica: una messa a fuoco che lui – non altri che lui – è in grado di fare».
Le analisi svolte in questo saggio potrebbero servire a mostrare quanto sia illusoria l’idea che il giurista, armato e imbevuto del suo sapere di sfondo culturalmente determinato, possa proiettare una limpida messa a fuoco della dimensione giuridica delle relazioni interculturali contando solo sulle sue conoscenze tecnico-normative. La visione del mondo inerente al diritto può considerarsi autonoma solo fino a quando il «mondo da vedere giuridicamente» si mantiene relativamente stabile e consente, così, di dare per scontate le coordinate extra-giuridiche sulle quali il sapere del giurista e gli stessi significati normativi galleggiano. Quando la stabilità culturale e/o ambientale vacilla e diviene mobile, per alcuni versi ineffabile, il cantiere delle forme, degli apriorismi di ogni settore disciplinare, crolla o, comunque, manifesta la necessità di essere sottoposto a ripensamenti approfonditi. La pratica interdisciplinare, la collaborazione genuina tra “esseri umani” dotati di competenze diverse, con accesso a saperi differenti, e una reciproca inseminazione tra questi bacini cognitivi orientata alla e dall’esperienza degli incontri interculturali, possono consentire rimodulazioni efficienti. Per operare in questa direzione, il giurista deve superare l’idea che il suo ambito di competenza sia confinato al cd. dover-essere, comprendendo la necessità di ri-articolare in modo nuovo le coordinate cognitive da utilizzare per leggere il mondo dei fatti. Egli dovrà agire come se i suoi occhiali – gli occhiali del giurista, appunto – si fossero “rotti”. Piuttosto, per restare in metafora, dovrà tentare di procurarsi lenti multi-focali, idonee a fargli leggere le cose – comprese le norme – da molteplici angolature disciplinari e, soprattutto, a cogliere le implicazioni corologico-interculturali della dinamica sociale contemporanea. Tutto ciò proprio per riuscire a vedere quel che è geograficamente lontano come prossimo e ciò che è concettualmente/culturalmente distante come continuo e contiguo alle piattaforme di senso, agli schemi concettuali, da utilizzare nel determinare il significato delle norme da applicare, i loro effetti e i corrispondenti circuiti d’esperienza destinati a ospitarli.
Come già osservato, ogni processo orientato all’applicazione della legge – da intendersi in senso istituzionale, e quindi: procedura giudiziaria, procedimento amministrativo, attività notarile, consulenza legale – per regolare i rapporti tra differenze culturali (ma anche tra plurime prospettive assiologiche o ideali) può diventare un processo di trasformazione culturale. Lungo i percorsi di questa trasformazione, reciproche Alterità possono entrare in contatto e potranno evitare d’entrare anche in conflitto solo se la strada della traduzione interculturale tra le differenze sarà intrapresa in modo consapevole e metodologicamente appropriato. Soggetti di diritto e operatori istituzionali dovranno considerarsi tutti attori di pari rango nel mettere in scena questo sforzo di composizione, traduzione e transazione tra le differenze. La cultura autentica, la sostanza di quel che è definito e rivendicato come “identità culturale”, è ciò che la capacità/creatività culturale in atto di ogni essere umano riesce a produrre nei suoi contatti con l’ambiente di vita e con le trasformazioni di esso. È questo prodotto, da intendersi in senso perifrastico come un “prodursi”, il genuino oggetto della tutela della differenza culturale. Esso non coincide con i repertori di saperi culturali racchiusi in cataloghi normativi, abiti pre-acquisiti, descrizioni enciclopediche degli usi a disposizione di osservatori distaccati che vogliano acquisire “informazioni” su chi è l’Altro, per inchiodarlo, poi, dentro lo scafandro di una soggettività reificata e sclerotizzata nelle sue strutture di senso. In altre parole, all’interno dei processi di applicazione/trasformazione del diritto nessuno può essere considerato e deve essere indotto a considerarsi una comparsa, un soggetto passivo, una sorta di organismo sottoposto all’osservazione distanziata che può carpirsi da parte di esperti attraverso una sorta di lente entomologica. La distanza culturale va riconosciuta proprio per poter essere varcata, attraversata, e così produrre, proprio mediante la trasformazione interculturale, l’invenzione di nuove coordinate culturali in grado di includere e far convivere le differenze.
Varcare la distanza culturale, come si è tentato di mostrare, significa, però, anche muoversi attraverso la distanza spaziale e tentare di colmarla. Un gesto, questo, suscettibile di produrre re-direzionamenti a catena. Così, proprio prendendo spunto dalla vicenda di Robel/Antonio, potrebbe immaginarsi che le letture incrociate delle pratiche bangladesi in materia di prestito, così come dei bacini etici soggiacenti al divieto di patto commissorio, possano produrre un effetto di ritorno, una sorta di rilettura riflessiva delle continuità riconoscibili tra la giustizia contrattuale occidentale e quella islamica. Il divieto di patto commissorio e il divieto di ribah ruotano entrambi attorno ai criteri di simmetria e solidarietà intersoggettive che dovrebbero connotare le relazioni contrattuali. Se l’itinerario interpretativo qui prospettato conducesse effettivamente a una lettura dei diritti umani convogliata verso la prestazione di protezione umanitaria, allora nello specchio del divieto di patto commissorio potrebbe innescarsi un processo di presa di coscienza delle potenzialità socialmente emancipative del divieto di ribah. La fede islamica e il diritto islamico si mostrerebbero, quindi, come dispositivi di apprendimento interculturale, capaci di includere la distanza e la differenza culturale per autotrasformarsi e promuovere autotrasformazioni delle comunità (socio-politihe) dei fedeli sintonizzate sulla frequenza etica e semantico-normativa dei diritti umani.
Nel Mercante di Venezia, Shylock rimane alla fine con un pugno di mosche in mano. Perde ogni chance di ottenere la restituzione del proprio prestito. È una sorta di punizione per aver troppo voluto, per aver preteso la rigida applicazione dell’Editto sugli stranieri, che gli dava diritto a ottenere una libbra di carne da Antonio su presupposto che questi non aveva pagato e non avrebbe potuto pagare entro il termine prefissato poiché le sue navi – proprio come il progetto migratorio di Robel – sembravano essere naufragate. S’è già detto, nel dramma Shakespeariano le cose devono soggiacere alla logica – quasi una sindrome narrativa – del lieto fine. Immaginare che lo Shylock del Bengala, protagonista della storia di Robel/Antonio, faccia la stessa fine dello Shylock veneziano è chiedere troppo alla storia – quella vera. Gli effetti di una lettura corologico-interculturale del divieto di patto commissorio e la loro applicazione in chiave umanitaria alla vicenda di questo richiedente protezione potrebbero però rappresentare, se non altro, un buon inizio[69].
Appendice 1
Di seguito, la traduzione del contratto di prestito firmato dal padre di Naim per garantirsi il capitale necessario a far partire il figlio per la Libia:
Il sottoscritto [il prestatore] ha dato in prestito in data **/**/** quattrocentoquaranta mila (440.000) taka a *******. In conseguenza di ciò, egli dovrà pagarmi ogni anno un interesse di centoventi mila taka (120.000). Se per un anno non riceverò il pagamento degli interessi corrispondenti (centoventi mila taka), allora il ricevente accetta di pagare al terzo anno la cifra totale di settecento mila (700.000) taka. Se alla scadenza il ricevente non sarà in grado di restituire la somma totale di settecento mila taka (700.000), allora io acquisisco il diritto di prendere possesso della sua casa e degli altri suoi beni. Il ricevente ha ottenuto la cifra del prestito a queste precise condizioni. All’atto di redazione di questo contratto erano presenti le seguenti persone:
Per il creditore -----
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Per il debitore -----
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Bibliografia
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[1] L’asservimento psicologico può essere il trampolino per forme di riduzione in schiavitù, sfruttamento dei migranti, e fa da contorno ai fenomeni di tratta degli esseri umani.
[2] Cfr. infra, per un esempio paradigmatico.
[3] Rinviamo, per l’identificazione dei personaggi, alla trama del Mercante di Venezia di Shakespeare.
[4] Il taka è la valuta del Bangladesh. Un euro corrisponde a circa 82 taka.
[5] Il presente articolo si basa sull’interazione diretta con, e la raccolta di dati sul percorso migratorio di, circa 40 richiedenti asilo del Bangladesh, ospitati in varie strutture in provincia di Siena e Firenze, tra il giugno e il novembre 2015.
[6] Central Intelligence Agency (2012).
[7] Cfr. G. H. Peiris (1998).
[8] Cfr. M.A.M. Joarder and P.W. Miller (2013, 2014), M.M. Rahman (2013), S.R. Rashid (2012).
[9] Rahman (2012, p. 222).
[10] Ci sia concesso qui un parallelo semantico tra la credibilità intesa come possibilità di restituire un debito (solvibilità) e la credibilità come condizione di veridicità di ciò che uno afferma. Se nel primo significato essa sembra essere alla base del percorso migratorio della maggior parte dei richiedenti asilo Bangladesi, nel secondo essa diviene categoria centrale nel loro percorso legale di ottenimento dell’asilo in Europa. Per un’analisi della credibilità in questa seconda accezione cfr. T. Sbriccoli e S. Jacoviello (2011) e A. Good (2007).
[11] Cfr. P. Martin (2009, p. 5).
[12] Cfr. G. Friebel and S. Guriev (2006).
[13] Dalla storia di un richiedente asilo del Bangladesh residente in un Centro prefettizio in Toscana.
[14] Cfr. D.G. Heuze (2007).
[15] Un altro termine spesso usato in India è quello di sahukar.
[16] M. Chen (1986, p. 217).
[17] Dalla storia di un richiedente asilo del Bangladesh residente in un Centro prefettizio in Toscana, ottobre 2015.
[18] Si può consultare nell’Appendice I il contratto di prestito dall’usuraio che il padre di Naim ha firmato.
[19] Cfr. G. H. Peiris (1998).
[20] Spesso gli abitanti di un para appartengono allo stesso lignaggio e, sebbene siano talvolta divisi da molte generazioni, continuano a identificarsi l’un l’altro usando termini di parentela classificatori.
[21] Dalla storia di un richiedente asilo del Bangladesh residente in un centro prefettizio in Toscana, settembre 2015.
[22] Cfr. Trasparency International (2014).
[23] Cfr. M.M. Khan (2005).
[24] Cfr. C. Knox (2009).
[25] Cfr. H. Zafarullah e N. A. Siddiquee (2001).
[26] Cfr. H. Zafarullah e N. A. Siddiquee (2001, p. 480.).
[27] Per una analisi del rapporto tra differenti livelli istituzionali e tra reti locali e giustizia statale nell’India rurale cfr. T. Sbriccoli (2013). Per uno studio dei modelli di autorizzazione locale in ambito indiano di queste figure di mediatori, posti al limite tra patronaggio classico e criminalità, cfr. A. Piliavsky e T. Sbriccoli (forthcoming). Per un quadro d’insieme del Sud Asia sulle stesse tematiche cfr. invece gli articoli contenuti in A. Piliavsky (2014).
[28] Cfr. A. Ruud (2014).
[29] Cfr. A. Ruud (2014).
[30] Naturalmente stiamo qui discutendo i casi di migrazione in cui crisi esplicite dei nuclei familiari rendono inevitabile l’intrapresa migratoria. Non vogliamo sostenere che tutti i casi di migrazione siano da intendere in questi termini. Sebbene, infatti, ogni progetto migratorio contenga al suo interno una parte di investimento autonomo per il miglioramento delle proprie condizioni assieme ad una di mancanza di alternative reali, il modello qui discusso pertiene ai casi in cui il secondo termine ha importanza preponderante sul primo.
[31] C. S. Bal (2013: 79).
[32] Cfr. A. Bahaduri (1977), K. Basu (1984) e M. Rahman (2005).
[33] M. Rahman (2005, p. 6).
[34] K. Basu (1984, p. 145).
[35] Reserve Bank of India (1977).
[36] A. Rahman (1979).
[37] K. Basu (1984, p. 147).
[38] A. Bahaduri (1977).
[39] Vogliamo qui ringraziare Amrita Chaudhury per la traduzione dal Bengali di questo contratto e di quello in Appendice I.
[40] La modulazione degli spazi fisici, della loro prossimità o distanza, in ragione dei criteri adottati per la categorizzazione dell’esperienza è un dato acquisito dalla contemporanea geografia critica: cfr. G. Olsson, F. Farinelli, J. Pickles. Tuttavia, argomentazioni simili, ben prima delle elaborazioni d’ispirazione fenomenologica di M. Heidegger (1969; 1996) e post-moderne-decostruzioniste di J. Derrida (1993) entrambe qui peraltro non condivise nei loro esiti, si ritrovano da sempre nell’esperienza umana. A questo proposito, può riprendersi quanto P. Zumthor (1995, p. 142; or. 1993) osservava a proposito della Historia ecclesiastica di Odorico Vitale, scritta tra l’XI e il XII sec.: «L’altrove lontano si definisce attraverso i luoghi che esso contiene; ciascuno di questi, in occasione di un viaggio, di un soggiorno, comincia talvolta ad assumere i caratteri familiari di ciò che è vicino, se non addirittura del qui. Ma la distanza è percepita qualitativamente, come estraneità, piuttosto che quantitativamente, come continuità spaziale. Tutto si misura in termini di appartenenza, cioè di memoria collettiva e di interessi condivisi; si misura in rapporto alle immagini di identificazione che la comunità si forma così, e che ha inscritto nei suoi riti, nei suoi costumi e nello spazio in cui vive; si misura, infine, coi racconti nei quali si sviluppa questa memoria – che non è archivio inerte ma attività pubblica vigile, insieme preservatrice e profetica. […] L’appartenenza è senza ritorno. Essa implica un elemento quasi religioso: legittima l’esistenza, proprio qui. Il bene dell’individuo non è concepibile che in accordo con il desiderio del gruppo. Ne conseguono, con vicini prossimi, che siano membri di comunità differenti, relazioni ambigue, fondate su giudizi mordaci e raramente favorevoli». Considerazioni simili, seppure prospettate con piglio teorico-filosofico, piuttosto che storiografico, possono rintracciarsi, in modo nitido, ad esempio in T. Carlyle (2008, pp. 318 ss.; 321 ss., or. 1831-33).
[41] Sulla connessione dinamica e circolare tra contesti, fini e significati, e sulle sue implicazioni riguardo le relazioni interculturali, rinviamo a M. Ricca (2008).
[42] Cfr. B. Anderson, P. Harrison (2010).
[43] Su questa mutua, indispensabile implicazione, e sulle sue enormi conseguenze sul piano dell’ontologia, quantomeno rispetto i percorsi battuti attraverso i secoli dal pensiero filosofico occidentale proprio a partire da Platone e dalla sua teoria delle idee, cfr. J. Sallis (1997).
[44] Una definizione paradigmatica del termine «chorology» che si ritrova in ambito anglosassone è la seguente: 1. The study of causal relation between geographical phenomena occurring within a particular region; 2. The study of spatial distribution of organisms (Collins Dictionary).
[45] Per una disamina dell’evoluzione del termine «corologia» nella teoria geografica, cfr. R.D. Dikshit (2006), R. Moreira (2014). In particolare, si esaminano in questi testi le relazioni tra la corologia di Ritter, di von Richtofen e quella di Hettner (Die Geographie Ihre Geschichte, Ihr Wesen und Ihre Methoden, 1927), cui si deve questa declinazione del termine: «L’obiettivo del punto di vista corologico consiste nella conoscenza delle caratteristiche delle regioni e dei luoghi mediante la comprensione della coesistenza e delle interrelazioni tra differenti domini della realtà e tra le loro molteplici manifestazioni, unitamente alla concezione della superficie terrestre come un tutt’uno colto nel suo effettivo articolarsi in continenti, regioni più o meno ampie e luoghi». Per ulteriori declinazioni dell’approccio corologico, cfr. anche R. Hartshorne (1939).
[46] Adottare una prospettiva corologica significa dismettere la logica gerarchica che soggiace alle scansioni spaziali e categoriali. In effetti, la configurazione di uno spettro categoriale, così come quella di un circuito spaziale, produce una sorta di preferenza, di primazia, che induce a prendere in considerazione soltanto quel che è interno alla categoria o a un determinato spazio. Pure quando quel che rimane fuori dai confini categoriali o spaziali presenta elementi di continuità, di analogia, di coestensività, con quanto è posto dentro, esso non è preso in considerazione. Lo sguardo corologico punta a disattivare e neutralizzare questa gerarchia (fondata su valori, scelte culturali, perimetrazioni di contesti) al fine di porre fenomeni, eventi, elementi connotativi su un piano di orizzontalità, di aperta comunicazione. In questo modo la contiguità spaziale potrà mostrare nessi implicativi negati dalle gerarchizzazioni categoriali. Per converso, l’analogia tra le connotazioni di differenti categorie, le implicazioni logiche e pragmatiche tra distinti spettri categoriali, l’utilizzo a fini metaforici di simili continuità connotative, potrà disegnare, lasciar manifestare, spazi unificati o unificabili di esperienza, vanificando le separazione e le gerarchizzazioni precedenti. Ciò non vuol dire che all’orizzonte non si staglierà la creazione e la stabilizzazione di nuove categorie. Semplicemente schiude la possibilità di sospendere e riformare le scansioni preesistenti e le loro gerarchie di senso, spesso scaturigine di veri e propri stati di negazione di fronte alle pressioni e alle sfide provenienti dall’esperienza. La “vacanza”, l’escursione nell’orizzontalità, che è poi l’altra faccia dell’interlocutorietà dell’emersione di una dimensione corologica, serve a garantire che la creatività si mantenga, nella coscienza degli esseri umani, come la matrice di ciò a cui, una volta creato, si vorrebbe attribuire valenza essenziale, ontologica, oggettiva e, soprattutto, una sorta di immunità alla critica e alla revisione. Giusto per fare un esempio, si applichi la possibilità di esercitare uno sguardo corologicamente orizzontale alle scansioni della geografia politica, fatte di nette distinzioni territoriali-nazionali. Scansioni inventate – spesso senza troppa lungimiranza e con nessuna equità – dagli esseri umani e poi trattate, cosificate, come entità immodificabili, presupposti sottratti a qualsiasi valutazione e revisione culturale. Sulla relazione tra gerarchia semantico-spaziale e orizzontalità dello sguardo corologico, rinviamo, per ulteriori esplicitazioni, a Ricca (2015).
[47] In proposito si confronti: Convenzione di Ginevra del 1951 sullo Statuto dei rifugiati, spec. artt. 1 e 2; Art. 10, comma 3, Costituzione, sull’asilo; Direttiva europea 2004/83/CE (“direttiva qualifiche”) sulla qualifica di rifugiato e di persona bisognosa di protezione internazionale; Direttiva europea 2005/85/CE (“direttiva procedure”) sulle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale; d.lgs n. 251/2007 di attuazione della “direttiva qualifiche”; d.lgs n. 25/2008 di attuazione della “direttiva procedure”.
[48] Così stabilisce l’art. 2, lett. g, d.lgs n. 251/2007, che recepisce la citata “direttiva qualifiche”, art. 2 lett. e.
[49] Secondo quanto stabilito dall’art. 14 d.lgs n. 251/2007, che recepisce l’art. 15 della direttiva 2004/83/CE.
[50] Cfr. Cedu, Pretty c. Regno Unito, sent. 29 aprile 2002, nonché Hummatov c. Azerbaijan, sent. 29 novembre 2007; e Corte eur., Kudla c. Polonia, sent. 26 ottobre 2000, e Georgiev c. Bulgaria, sent. 26 luglio 2007, 53).
[51] Cfr. sent. Cass. S.U., n. 27310/2008 e successive pronunce.
[52] Cfr., in un’immensa messe di contributi dottrinali, E. Guild (2004).
[53] In questa sede non desideriamo contestare la distinzione tra rifugiato e migrante economico. Segnaliamo solo che si tratta di una scansione imprecisa e poco aderente alle vicende personali e alla idiomaticità dei percorsi migratori di ogni individuo. Da un altro punto di vista, crediamo che accogliere i rifugiati e disinteressarsi di molti diseredati del pianeta non costituisca un atteggiamento lungimirante. Non intendiamo qui, tuttavia, affrontare tale questione. Ci limitiamo a osservare che quanti difendono (con buon successo mediatico e istituzionale) la distinzione tra rifugiati e migranti economici, non dimostrano un’acuta consapevolezza corologica e, perciò, una piena comprensione dello spazio d’esperienza in cui vivono, e vivranno.
[54] Si precisa da subito che le previsioni dell’ordinamento italiano circa il divieto di patto commissorio non ricadono, nella prospettiva qui analizzata, nell’ambito (pur contestato) di applicazione del principio di reciprocità ex art. 16 preleggi. È così perché l’art. 2744 e l’art. 1963 sono qui utilizzati in via mediata quali proiezioni dei diritti umani e della protezione umanitaria: normative che sfuggono di per sé stesse alla previsione dell’art. 16 preleggi applicabile esclusivamente all’ambito civilistico. Per completezza, si ricorda che l’art. 16 cit. stabilisce: «[1] Lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità e salve le disposizioni contenute in leggi speciali. [2] Questa disposizione vale anche per le persone giuridiche straniere». Sull’ambito di applicazione dell’art. 16 preleggi cfr. Nascimbene (2011).
[55] Art. 1960, cod. civ.: «L'anticresi è il contratto col quale il debitore o un terzo si obbliga a consegnare un immobile al creditore a garanzia del credito, affinché il creditore ne percepisca i frutti, imputandoli agli interessi, se dovuti, e quindi al capitale».
[56] Cfr. M. Bianca (1957), F. Gigliotti (1997), M. Bussani (2000), E. Carbone (2012), A. Trotta (2013), M. Trimarchi (2013).
[57] Cfr., ad esempio, in successione temporale invertita, Cass. sent. 21.5.2013, n. 12462; Cass. sent. 8.2.2013, n. 3134; Cass., sent. 12.1.2009, n. 437; Cass., sent. 5.3.2010, n. 5426.
[58] Art. 1448, cc, Azione generale di rescissione per lesione: «Se vi è sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell'altra, e la sproporzione è dipesa dallo stato di bisogno di una parte, del quale l'altra ha approfittato per trarne vantaggio, la parte danneggiata può domandare la rescissione del contratto.
L'azione non è ammissibile se la lesione non eccede la metà del valore che la prestazione eseguita o promessa dalla parte danneggiata aveva al tempo del contratto.
La lesione deve perdurare fino al tempo in cui la domanda è proposta.
Non possono essere rescissi per causa di lesione i contratti aleatori.
Sono salve le disposizioni relative alla rescissione della divisione.
[59] Cfr. F. Fiorentini (2006).
[60] Cfr., al riguardo, il Draft of a Common Frame of Reference (IX, 7:105). In proposito, cfr. M. Trimarchi (2013); E. Carbone (2014).
[61] Cfr. O. Sacchi (2007) ed ivi i riferimenti alle fonti romanistiche.
[62] Cfr. O. Sacchi, ibidem.
[63] L’approccio d’ispirazione corologica al pluralismo culturale e giuridico si distingue nettamente dal pluralismo inter-ordinamentale o dalla cd. inter-legalità (B. Santos 2002). Al riguardo, comunque, cfr. M. Ricca (2013, pp. 297 ss.; 2015b). Per motivi simili, l’approccio corologico-interculturale include una connotazione emancipatoria e creativa, affidata all’articolazione dinamica della soggettività, che lo distingue, quantomeno in termini di ispirazione e metodologia, dalle analisi etnografiche multi-situate, sulle quali cfr., almeno: G. Marcus (1995, 2006) e, più in generale, A. Gupta, J. Ferguson (1997, 1997a).
[64] Per una critiche delle cd. reasonable accommodations e del loro utilizzo (soprattutto giudiziale) nella gestione delle relazioni tra persone di diversa cultura rinviamo a M. Ricca (2013b); ma cfr., anche e nello stesso senso, già J. Dewey (1916, p. 56).
[65] Qui è estremamente importante porre in evidenza che l’esito dei confronti con situazioni di fatto connotate dalla differenza culturale non vede all’opera sempre e comunque «una norma» da applicare, da intendersi a sua volta come qualcosa di pre-confezionato. L’esperienza giuridica e il lavoro dei giuristi non consistono nell’applicare regole, come se queste fossero già contenute in un repertorio, a una realtà già scandita e distinta in base a etichette. Le vicende del mondo sono magmatiche e multiformi, non hanno alcuna etichetta di riconoscimento. Esse non parlano da sole: res de re non predicatur. Fatti e norme, azioni e opzioni legali, sono l’esito dell’azione e dell’interpretazione umane. La «norma del caso» non è come il tasto di un pianoforte al quale corrisponde una e una sola nota, cioè uno e un solo «tipo» di fatto. L’applicazione del diritto prevede sempre un’opera di traduzione e, insieme a essa, di categorizzazione dell’esperienza in termini sia cognitivi sia tecnico-giuridici. In tutto questo c’è ben poco di automatico e meccanico. Tutto ciò è ancor più vero quando si consideri l’attività pre-giudiziale svolta dai professionisti del diritto (sia notai, sia avvocati). Quando le persone chiedono assistenza legale in via preventiva rispetto all’adozione di determinati comportamenti, si rivolgono ai giuristi narrando storie intessute per mezzo dell’armamentario linguistico offerto dal linguaggio comune e dalla percentuale di lessico giuridico folk che esso contiene. Il giurista di professione provvederà a tradurre in termini tecnico-giuridici le esigenze rese manifeste dalle storie dei clienti, attraverso un percorso di domande e risposte, che giungerà a una conclusione finale. Questa coinciderà con una sintesi tra esigenze di fatto e potenzialità semantiche dell’ordinamento, cioè degli apparati di disposizioni normative combinate in modo creativo per venire incontro alle esigenze dei clienti e dotarle dei crismi della legalità e, al tempo stesso, della protezione giuridica. La sintesi finale fatto-norma non pre-esiste però all’opera di co-costruzione che invece solo il cliente e il professionista potranno di volta in volta svolgere. L’oggettività del diritto effettivo, del diritto vivente, è insomma un risultato, abita il futuro. Essa non corrisponde a qualcosa di già esistente e magicamente racchiuso nei testi di legge e già lì pronto all’uso. È per questo motivo che l’incapacità di svolgere traduzioni interculturali tra gli universi di senso agiti dagli attori di culture differenti, e quindi l’incomprensione da parte dei giuristi di quel che fanno le persone di differente cultura, può risolversi in un tradimento dello stesso diritto e in una tragica eterogenesi dei fini intrinseci alla sua applicazione. Per una ricca casistica, idonea a provare empiricamente quanto appena asserito, rinviamo a un recente saggio contenente i risultati di un’indagine antropologico-giuridica di tipo qualitativo condotta su un campione di notai distribuiti per tutto il territorio italiano cfr. M. Ricca, T. Sbriccoli (2015). Cfr., anche, M. Ricca (2014).
[66] Sulla necessaria collaborazione tra giuristi e antropologi, e sulle implicazioni co-costruttive di un loro coinvolgimento attivo e creativo nell’articolazione della propria competenza/creatività culturale da parte dei singoli soggetti, cfr. M. Ricca (2013, pp. 225 ss.; 2014).
[67] Cfr. M. Ricca (2013, 2014).
[68] P. Grossi (2006, p. 22).
[69] Qualcuno potrebbe osservare che si tratterebbe di “un pessimo inizio”. Aprire questa strada significherebbe – potrebbe obiettarsi – diffondere la notizia che per ottenere il permesso di soggiorno sia sufficiente preparare un falso contratto capestro, simile a quello di Robel, e presentarsi alle autorità italiane o europee richiedendo protezione sussidiaria o umanitaria. È un’eventualità possibile, che ha però a che fare con gli strumenti probatori utilizzati dai migranti e con la capacità degli organi di valutazione delle richieste di protezione di determinare l’affidabilità e la buona fede delle richieste. Resta il fatto che nel caso di Robel il rischio di subire un grave danno, rilevante sul piano della tutela dei diritti umani, al suo ritorno a casa a mani vuote costituisce una prospettiva concreta. Nessun tam-tam planetario aveva finora reso consapevoli della possibilità di far valere l’inumanità di contratti capestro per chiedere e ottenere tutela umanitaria. Rispedirlo a casa perché altri potrebbero utilizzare surrettiziamente simili argomentazioni, costruendo ad hoc casi simili, sarebbe però una super-erogazione di prudenza politica che poco avrebbe a che fare con l’applicazione delle norme e il riconoscimento dei diritti di Robel. Bisognerebbe apprestare gli strumenti per evitare che strategie simulatorie conducano a indebiti riconoscimenti di protezione. Al contrario, tagliarsi i piedi per non bagnarsi le scarpe non è una soluzione (anche perché in questo a caso a rimetterci (i piedi) sarebbe proprio chi ha bisogno di protezione.