Giudicato civile e identità nazionale
(un appunto con contrappunto sul caso Taricco)
La tradizione ci ha consegnato l’idea che la sentenza definitiva di merito è l’unico mezzo per l’accertamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio: l’eventuale divergenza tra il diritto sostanziale preesistente e la situazione accertata dalla sentenza passata in giudicato è un fenomeno privo di rilevanza giuridica. Tale idea, già entrata in tensione con la dimensione costituzionale nazionale, è chiamata attualmente a confrontarsi con i piani del diritto internazionale e sovranazionale. Il giudicato civile, come aspetto fondamentale della tutela giurisdizionale dei diritti, appartiene alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri dell’Unione europea, al di là delle diversità con cui esso si manifesta nei vari ordinamenti nazionali. La protezione del giudicato civile è esposta al bilanciamento con altre garanzie costituzionali. La conformazione che il giudicato assume negli ordinamenti processuali degli Stati membri rientra nella identità nazionale insita nella struttura fondamentale politica e costituzionale di questi ultimi, che deve essere rispettata dall’Unione europea.
1. Premessa
Nell’ambito di una raccolta di saggi dedicati a taluni profili della rilevanza del tempo nel diritto, la direzione della rivista Questione giustizia mi ha chiesto di scrivere un breve contributo[1]. Ho pensato di intervenire su un tema di diritto processuale civile meno distante possibile dal caso Taricco, poiché mi sembra che quest’ultimo costituisca l’occasione, nonché l’asse portante, di questa raccolta di saggi.
Con la sentenza Taricco[2] la Corte di giustizia dell’Unione europea ha accertato la potenziale incompatibilità della disciplina italiana sulla prescrizione dei reati con il principio della effettività e della dissuasività delle sanzioni che gli Stati hanno l’obbligo di applicare al fine di combattere la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione (art. 325 Tfue). Di conseguenza, qualora il giudice ritenga che l’applicazione di tale disciplina pregiudichi l’effettività delle sanzioni «in un numero considerevole di casi», egli è chiamato a non applicarla[3]. Nel frattempo, la Corte costituzionale italiana ha chiesto ulteriori spiegazioni alla Corte di giustizia[4].
La scelta dell’argomento è caduta pertanto, quasi in modo inevitabile, sulla crisi del giudicato civile per effetto di pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea.
2. Tradizione
Inserisco il punto attuale nella linea che proviene dal passato.
Il processo civile di cognizione si conclude fisiologicamente con l’emanazione di una sentenza che dichiara chi ha ragione e chi ha torto fra le parti e risolve nel merito la controversia in ordine al diritto fatto valere in giudizio. La decisione giurisdizionale della controversia, a partire da un momento determinato nel tempo, non può essere più rimessa in discussione, se non per motivi eccezionali: ci si riferisce – nell’ordinamento italiano – all’acquisto dell’autorità di cosa giudicata, previsto dall’art. 2909 cc, conseguente alla relativa immutabilità della pronuncia, che si verifica con la preclusione dei mezzi ordinari d’impugnazione ai sensi dell’art. 324 cpc. Il processo produce dunque, di regola, un risultato che si caratterizza per la particolare stabilità dei propri effetti.
La tradizione ci ha consegnato l’idea che la sentenza definitiva di merito è l’unico mezzo per l’accertamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio: l’eventuale divergenza tra il diritto sostanziale preesistente e la situazione accertata dalla sentenza passata in giudicato è un fenomeno privo di rilevanza giuridica. L’ingiustizia della sentenza assume rilievo nella pendenza dei mezzi di impugnazione, che sono appunto gli strumenti posti a disposizione dell’ordinamento per rimuovere tale ingiustizia, ma diventa irrilevante una volta che la sentenza sia passata in giudicato. La negazione della rilevanza giuridica della sentenza ingiusta è il dato dogmatico fondamentale della teoria tradizionale del giudicato. Pensiamo alla dottrina classica tedesca, in cui è scoppiata l’accesa contrapposizione tra teoria processuale e teoria sostanziale del giudicato. Gli studiosi erano divisi sulla spiegazione del modo di operare del giudicato, ma un punto era fermo per tutti. Il giudicato è per l’appunto il giudicato. Oltretutto nella lingua tedesca il termine Rechtskraft (letteralmente «forza di diritto», «vigore giuridico») esprime plasticamente l’idea che il giudicato guarda l’ordinamento giuridico ad altezza d’occhio: costituisce la quintessenza dell’attuarsi dell’ordinamento nel caso concreto.
3. Crisi
La crisi della dottrina della irrilevanza giuridica della sentenza ingiusta non scoppia solo con il rigoglioso sviluppo odierno delle Corti internazionali. Già dalla metà del secolo XX si è scoperto ciò che è naturale: l’ordinamento giuridico conforma e dimensiona il giudicato, molto più di quanto il primo sia conformato dal secondo. Lo si è riscoperto innanzitutto nell’ipotesi del ribaltamento dell’ordinamento giuridico che aveva incisivamente conformato il giudicato. Il riferimento è a casi storici estremi, ma pur presenti nella realtà storica del secolo XX, quando sotto lo schermo della legalità formale si sono perpetrati i delitti più gravi nei confronti dell’umanità.
Inoltre, come tradizionale presidio di stabilità dell’applicazione giudiziale della legge, il giudicato è chiamato a confrontarsi con il moltiplicarsi dei piani di legalità: sopra a quello della legge ordinaria, si staglia quello della Costituzione e del correlativo controllo affidato ad una Corte costituzionale. Se la legge che il giudice ha applicato per risolvere la controversia viene successivamente dichiarata incostituzionale, che ne deve essere di quel giudicato? È opinione comune che il giudicato civile resista alla sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata dal giudice. In realtà sul problema non si è riflettuto abbastanza, poiché si è rimasti ancorati all’idea tradizionale dei rapporti esauriti, cioè dei rapporti definiti in modo irretrattabile, sottovalutando la novità di questa ipotesi, che difficilmente può essere appiattita su quella del contrasto del giudicato con una legge sopravvenuta retroattiva.
In questo appiattimento sono parzialmente incorso trent’anni fa nello studiare per il mio primo libro[5]. Quae iudicata transacta finitave sunt, rata maneant: è questa la formula del senato-consulto Orfiziano, in cui nella disciplina della successione delle leggi nel tempo non si fa questione di retroattività o di irretroattività della legge, ma di individuazione di quei rapporti che, essendo “esauriti”, sono sottratti all’azione dello ius superveniens. Trovavo continuamente il riferimento a questo passo del Digesto nella letteratura di diritto intertemporale che trattava dei limiti della legislazione retroattiva. Rimasi vittima di un preconcetto: che si dovesse in ogni caso affermare l’intangibilità del giudicato e che il vero problema consistesse nel trovare una persuasiva giustificazione attuale di questa conclusione. In fondo, era una conclusione costantemente affermata nel corso della storia del diritto, a partire dall’esperienza giuridica romana. Eppure bizzarra e un poco inquietante sarebbe dovuta apparirmi fin da allora la persistenza di questa affermazione nel corso del tempo, nell’avvicendarsi spesso traumatico di epoche storiche, di modelli di società, di regimi politici, di concezioni del diritto.
L’intangibilità del giudicato nei confronti della successiva dichiarazione di incostituzionalità può essere accreditata in modo convincente solo elevando a sua volta la protezione del giudicato al livello di garanzia costituzionale, poiché difficilmente un istituto privo di copertura costituzionale può frapporsi agli effetti della sentenza della Corte costituzionale. Vi sono diversi modi per accreditare la tesi che il giudicato sia protetto da garanzia costituzionale. Il migliore fa leva sulla tutela dell’affidamento delle parti sul carattere definitivo del risultato del processo (art. 3 e 24 Cost.). In effetti il giudicato è un aspetto connaturato alla funzione sociale dell’atto di composizione della lite e risponde essenzialmente all’interesse delle parti, prima di essere un elemento della funzione sovrana dello Stato di rendere giustizia. Il giudicato è, si potrebbe dire, una istituzione sociale prima che statale. Quando le parti domandano ed ottengono un giudicato per la tutela dei loro diritti, la stabilità del risultato del processo gode di garanzia costituzionale, non per una ragion di Stato, ma perché ciò realizza l’interesse comune delle parti (vittoriose o soccombenti) a essere lasciate in pace (la parte vittoriosa nel godimento del bene riconosciuto dalla sentenza; la parte soccombente nel non essere più destinataria di ulteriori pretese). L’autorità di cosa giudicata nel settore civile è in via di principio protetta dalla Costituzione, in funzione della tutela della certezza e affidamento che discendono dalla garanzia dello Stato di diritto, non solo nei confronti di successivi interventi retroattivi del legislatore, ma anche nei confronti di successive dichiarazioni di incostituzionalità delle norme applicate dal giudice.
Stato di diritto significa, da un lato, effetto utile del potere esercitato in forma giuridica. Stato di diritto significa, dall’altro lato, anche limite imposto dal diritto al potere. Il giudicato rientra fra questi limiti che il diritto impone al potere: al potere delle parti, al potere del giudice, al potere dei terzi, al potere del legislatore, al potere della Corte costituzionale che dichiara l’incostituzionalità della norma sulla base della quale il giudice ha emanato la sua pronuncia.
La soluzione di una indiscriminata intangibilità del giudicato appare tuttavia troppo rigida. In un ambiente in cui si afferma il bilanciamento delle garanzie costituzionali le une con le altre, la garanzia costituzionale del giudicato deve poter essere bilanciata con il valore costituzionale che chiede di essere realizzato attraverso la sentenza della Corte costituzionale, cosicché, certamente in ipotesi particolarmente gravi, si dischiude la prospettiva di un cedimento del giudicato.
4. Giurisdizioni internazionali e sovranazionali
Il tema della crisi del giudicato si arricchisce di un nuovo capitolo con la sovrapposizione di giurisdizioni internazionali e sovranazionali a quella statale.
In questo quadro di ulteriore moltiplicazione dei piani di normatività, si lanciano alle decisioni dei giudici nazionali le sfide più recenti e impegnative. L’idea del giudicato, già entrata in tensione con il sovrapporsi della dimensione costituzionale nazionale e del controllo di costituzionalità affidato alle Corti costituzionali nazionali, è chiamata attualmente a confrontarsi con i piani del diritto internazionale e sovranazionale, il cui rispetto è affidato parimenti al controllo di Corti giudiziarie. Sorge il problema se il giudicato civile possa venire meno per effetto di una pronuncia di una Corte internazionale o sovranazionale la quale accerti che quel giudicato contrasta con il diritto internazionale, con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, con il diritto dell’Unione europea.
Limito il discorso alle pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea. Non è possibile in questa la sede esaminare di nuovo le pronunce che, nel corso dell’ultima decade, hanno introdotto eccezioni alla intangibilità del giudicato[6].
Un rinnovato rapido sguardo consente tuttavia di impostare il problema.
5. Giudicato come elemento delle tradizioni costituzionali comuni
Il giudicato civile, come aspetto fondamentale della tutela giurisdizionale dei diritti, appartiene alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri dell’Unione europea, al di là delle diversità con cui esso si manifesta nei vari ordinamenti nazionali[7]. Pertanto esso fa parte del diritto dell'Unione in quanto principio generale (art. 6, comma 3 Tue). La giurisprudenza della Corte di giustizia considera il giudicato un cardine, al fine di assicurare la certezza del diritto e dei rapporti giuridici, nonché una buona amministrazione della giustizia. La protezione del giudicato civile è però esposta al confronto e bilanciamento con altre garanzie costituzionali. Il valore della definitiva composizione della controversia e l’affidamento che le parti vi ripongono possono essere compressi in circostanze eccezionali. In relazione al diritto dell’Unione europea, si può intravvedere il lento consolidamento di una tendenza verso la compressione del giudicato civile nazionale dinanzi ad esigenze di ordine pubblico dell’Unione (tendenza già matura nel settore del divieto degli aiuti di Stato).
La conformazione che il giudicato assume negli ordinamenti degli Stati membri rientra nella identità nazionale insita nella struttura fondamentale politica e costituzionale di questi ultimi, che deve essere rispettata dall’Unione europea (art. 4, comma 2, Tue). Tuttavia, la salvaguardia della identità nazionale degli Stati membri non è frutto di opera solitaria delle istituzioni dell’Unione, ma di leale cooperazione tra Unione e Stati membri (art. 4, comma 3, Tue). Uno strumento fondamentale di questa opera dialogica di ricostruzione dell’identità nazionale, ove entri in gioco il rapporto tra Corte di giustizia e Corti nazionali, è il rinvio pregiudiziale (art. 267 Tfue)[8].
Il rispetto della identità nazionale deve essere sottratto a una sterile contrapposizione frontale del potere di dire l’ultima parola e non deve essere oggetto di una specie di riserva di sovranità nazionale che si impone dall’esterno sul diritto dell’Unione europea (idea che è ancora frequentemente propria della dottrina dei controlimiti). Esso deve essere invece consegnato al piano pragmatico di una fruttuosa e schietta collaborazione, vissuta nella quotidianità dei rapporti tra Corti nazionali e Corte di giustizia (nonché, se del caso, Corte europea dei diritti dell’uomo), caratterizzata in un circuito di apprendimento reciproco, nonché da una disputa discorsiva tesa alla ricerca della soluzione migliore, calibrata sul caso concreto che si offre a giudizio[9].
L’identità nazionale è un qualcosa di essenzialmente dinamico, essendo sottoposta a evoluzione, derivante non solo dai cambiamenti della realtà sociale e normativa di un dato ordinamento statale, ma anche (e forse soprattutto, in questo momento storico) dall’appartenenza di quest’ultimo all’Unione europea, nonché, in ultima analisi, dagli stessi risultati dell’apprendimento reciproco generato dal dialogo tra Corti nell’occasione del caso concreto.
Non ho le competenze tecniche dello studioso di diritto dell’Unione europea, né di diritto penale, né di diritto costituzionale. Non mi affretto quindi a prendere posizione nel cantiere affollato di voci sul caso Taricco. Mi illudo però che le conclusioni appena raggiunte possano indicare un approccio utile anche in tale vicenda.
[1] Le ricerche che hanno condotto a questo contributo hanno ricevuto finanziamenti nell’ambito del progetto di ricerca di interesse nazionale (PRIN) 2012 (2012SAM3KM) sulla «Codificazione dei procedimenti amministrativi», finanziato dal Miur (coordinatore: Prof. Jacques Ziller, Università di Pavia).
[2] ECLI:EU:C:2015:555.
[3] Riprendo quasi testualmente questa sintesi della pronuncia dal saggio più limpido che mi sia capitato di leggere su questa vicenda: E. Cannizzaro, Sistemi concorrenti di tutela dei diritti fondamentali e controlimiti costituzionali, in I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali, a cura di A. Bernardi, Napoli, 2017, pp. 45 ss.
[4] Corte cost., 26 gennaio 2017, n. 24.
[5] Cfr. R. Caponi, L’efficacia del giudicato civile nel tempo, Milano, 1991, pp. 43 ss.
[6] A quanto mi consta, l’ultima pronuncia di questa serie è Klausner, ECLI:EU:C:2015:742. Per un’analisi della giurisprudenza fino al 2009, si rinvia a R. Caponi, Corti europee e giudicati nazionali, in Corti europee e giudici nazionali, Atti del XXVII Convegno nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, Bologna, 2011, pp. 239 ss.
[7] Cfr. per tutti R. Stürner, Rechtskraft in Europa, in Festchrift für Rolf A. Schütze, München, 1999, p. 913.
[8] I. Pernice, Der Schutz nationaler Identität in der Europäischer Union, in Archiv des öffentlichen Rechts, 136 (2011), pp. 185 ss., specie p. 214.
[9] Per un più ampio discorso, v. R. Caponi, La tutela della identità nazionale degli stati membri dell’Ue nella cooperazione tra le Corti: addio ai “controlimiti”?, in Diritto dell’Unione europea, 2011, pp. 915 ss.