Il multiculturalismo nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
Da almeno quarant’anni (sentenze Handyside, 1976 e Young, 1981) la giurisprudenza della Cedu attribuisce rilevanza fondamentale al dialogo interculturale e al rispetto delle minoranze quali condizioni necessarie per la difesa della società democratica e la conservazione del pluralismo, elementi che considera indissociabili dalla tutela delle libertà e dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione europea. La Corte europea, in questo campo particolarmente, deve confrontarsi con i suoi compiti di armonizzazione della protezione dei diritti fondamentali in Europa e del riconoscimento della diversità che esiste tra i Paesi che sono parti della Convenzione. Il metodo comparativo, la individuazione di uno standard minimo europeo di tutela, l’attribuzione di un margine di apprezzamento agli Stati sono i principi guida che la Cedu ha utilizzato sinora nei tre livelli cui è stata chiamata a intervenire e cioè i conflitti culturali all’interno delle singole società europee, fra le diverse culture dei Paesi europei aderenti alla Convenzione, nei rapporti tra l’Europa e il resto del mondo. In particolare il primo livello coinvolge la libertà e il diritto di conservare il proprio stile di vita e la possibilità di mantenere valori e usi tradizionali anche profondamente diversi da quelli delle società di accoglienza e ha visto la Corte impegnata in decisioni molto note e ampiamente discusse nelle società europee.
1. Il pluralismo nella giurisprudenza della Cedu
Una definizione del dialogo interculturale presente nei documenti del Consiglio d’Europa è quella secondo cui questo concetto indica “uno scambio di idee aperto e rispettoso tra individui e gruppi appartenenti a diverse culture che conduce ad una più intensa comprensione dell’altrui visione del mondo[1].”
L’essenza di questa definizione si ritrova nella sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in seguito: la Corte) nel caso Handyside c. Regno Unito del 1976. In questa sentenza la Corte sottolinea non solo l’importanza della libertà di espressione, protetta dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (in seguito: la Convenzione), ma anche la necessità del rispetto di opinioni che sono diverse, e quindi del pluralismo come carattere essenziale della società democratica. La Corte ricorda in questa sentenza che la protezione della libertà di espressione non riguarda solo le informazioni e le idee che sono favorevolmente recepite ovvero sono ritenute innocue o indifferenti, ma anche quelle che offendono, turbano o disturbano lo Stato o qualunque settore della popolazione. Queste, dice la Corte, sono «… le esigenze di quel pluralismo, di quella tolleranza e di quella apertura mentale senza i quali non vi è una ‘società democratica‘[2]».
Con la sentenza Young, James and Webster c. Regno Unito del 1981, la Corte ha integrato questo concetto aggiungendo il rispetto delle minoranze. Dice la Corte che, anche se gli interessi individuali possono a volte esser subordinati a quelli di un gruppo, la democrazia non significa semplicemente che le opinioni della maggioranza debbano sempre prevalere: è necessario trovare un equilibrio che assicuri alle minoranze di essere trattate in modo equo ed adeguato ed eviti ogni abuso di posizione dominante[3].
A proposito di un aspetto particolarmente importante del dialogo interculturale, e cioè della sua rilevanza in materia di libertà religiosa, protetta dall’articolo 9 della Convenzione, la Corte, nel caso della Chiesa metropolitana di Bessarabia ed altri c. Moldova, del 2001, ha osservato che la libertà di pensiero, coscienza e religione è uno degli elementi più vitali che concorrono a formare l’identità dei credenti e la loro concezione della vita, ma è anche un bene prezioso per gli atei, gli agnostici e gli indifferenti. Il pluralismo, che è indissociabile da una società democratica, e che è una conquista cui si è giunti attraverso secoli, dipende da questa libertà. In una società democratica, nella quale coesistono diverse religioni all’interno di una stessa popolazione, può essere necessario prevedere delle restrizioni a questa libertà allo scopo di comporre gli interessi dei vari gruppi e assicurare che il credo di ciascuno sia rispettato. Tuttavia, nell’esercizio del suo potere di regolazione in questo campo e nei suoi rapporti con le varie religioni e credenze, lo Stato ha un dovere di neutralità e di imparzialità. Ciò che è in gioco è la conservazione del pluralismo ed il corretto funzionamento della democrazia, tra le cui caratteristiche principali vi è la possibilità che ad esse offre di risolvere i problemi di un Paese attraverso il dialogo. Di conseguenza, il ruolo delle autorità in queste circostanze non è quello di rimuovere le cause di tensione eliminando il pluralismo, ma di assicurare che i vari gruppi che sono in competizione si tollerino reciprocamente[4].
Nel caso Leyla Şahin c. Turchia del 2005, la Corte ha precisato che la tutela della libertà religiosa non garantisce in ogni caso il diritto di comportarsi in una maniera prescritta da un credo religioso e non conferisce a coloro che lo fanno il diritto di trasgredire regole che si sono dimostrate giustificate[5]. Un’applicazione recente, e molto conosciuta, di questo principio, la si è avuta con la sentenza della Grande Camera S.A.S. c. Francia del 2014[6], che ha confermato la non violazione della Convenzione in relazione al divieto stabilito in Francia di portare in pubblico il burqa ed il niqab.
Per comodità di esposizione, e seguendo la sistemazione utilizzata nei documenti del Consiglio d’Europa, si possono individuare tre livelli nei quali il dialogo interculturale è rilevante, vale a dire:
- all’interno delle società europee;
- tra diverse culture al di là dei confini nazionali;
- tra l’Europa ed il resto del mondo.
La consapevolezza di questi diversi livelli permette una visione coerente della promozione del dialogo interculturale diretto ad una convivenza pacifica e costruttiva in un mondo multiculturale. Guardando in modo complessivo alla giurisprudenza della Corte in questo settore ci si rende conto che, nella percezione della Corte, la difesa e la effettiva realizzazione delle nozioni di pluralismo, tolleranza, apertura mentale e rispetto per le opinioni altrui sono di fondamentale importanza, indipendentemente dal diritto fondamentale che di volta in volta venga in rilievo, perché queste nozioni sono connaturali all’idea di democrazia, senza la quale le tutele della Convenzione non avrebbero senso.
I casi che sono portati alla Corte spesso sollevano questioni relative ad uno dei tre livelli di dialogo interculturale che ho citato. A proposito del primo livello, cioè le questioni che si pongono all’interno di una data società europea, cioè di uno Stato parte, la Corte ha elaborato un’ampia giurisprudenza sui conflitti che nascono dall’opposizione tra gruppi maggioritari e minoritari. La tutela della cultura e dei diritti identitari è sempre più importante per minoranze che si trovano a doversi confrontare con il modo di vivere spesso molto diverso della maggioranza della società. Relativamente al secondo livello di dialogo interculturale, quello che attraversa le frontiere degli Stati, la giurisprudenza della Corte affronta la questione della diversità delle culture giuridiche europee e della varietà con la quale nelle diverse parti del continente i diritti umani vengono interpretati ed applicati. Qui la Corte usa come riferimento per risolvere i conflitti la nozione di «standard comune europeo» (common European standard). Per quanto riguarda il terzo livello di dialogo interculturale, la Corte si trova spesso a doversi confrontare con consuetudini, tradizioni e sistemi di valori, ed anche sistemi giuridici di Paesi extraeuropei. A questo livello, la Corte riconosce i limiti della sua competenza territoriale, che resta ovviamente regionale, ma allo stesso tempo è ferma sull’affermazione dei fondamentali diritti che essa è chiamata a proteggere. Quindi la Corte è chiamata a comporre tradizioni e approcci giuridici europei e non europei, che si confrontano in un mondo sempre più globalizzato.
Da un punto di vista generale, quando la Corte si confronta con nozioni quali «cultura», «diversità culturale» e «dialogo interculturale», due principi fondamentali vengono in rilievo: da una parte è compito della giurisprudenza della Corte di pervenire, entro certi limiti, ad una armonizzazione della protezione dei diritti fondamentali a livello europeo e, d’altra parte, ed allo stesso tempo, la giurisprudenza deve riconoscere la diversità che esiste tra gli Stati parti della Convenzione.
In effetti il principio di sussidiarietà che deriva dalla Convenzione implica che scopo della stessa Convenzione è l’istituzione di un sistema di controllo internazionale della protezione dei diritti fondamentali da parte delle autorità nazionali, ma non è quello della istituzione di un sistema di regolamentazione dettagliata in tutte le aree di attività coperte dai diritti garantiti. Gli standard della Convenzione, come si ripete continuamente, non sono da considerare come una disciplina uniforme, ma come un livello minimo di protezione che tutti gli Stati parte devono osservare. Si parte cioè dall’idea che spetta alle autorità nazionali proteggere e garantire i diritti fondamentali tenendo in considerazione le necessità e le tendenze della comunità locale. Attraverso il principio di sussidiarietà, la Corte promuove la varietà delle tradizioni culturali, giuridiche e anche ideologiche esistenti in Europa. Evidentemente dunque il principio di sussidiarietà è particolarmente importante nel contesto del dialogo interculturale.
Questi due grandi principi determinano l’atteggiamento della Corte rispetto alle questioni riguardanti le differenze culturali: lo scopo della giurisprudenza è quello della fissazione di uno standard europeo per la protezione dei diritti umani, mentre allo stesso tempo essa riconosce la legittima diversità culturale. In altre parole, come in ogni sistema di protezione internazionale dei diritti umani, è necessaria l’elaborazione di strumenti di interpretazione che permettano di tracciare il confine tra ciò che appartiene ad ogni comunità nazionale di decidere a livello locale e ciò che invece è talmente fondamentale da imporre lo stesso livello di tutela per tutti i Paesi che partecipano al sistema, quali che siano le variazioni nelle tradizioni e nelle culture[7].
Quali sono gli strumenti elaborati dalla giurisprudenza della Corte per affrontare la varietà delle tradizioni giuridiche e culturali tra i Paesi parte della Convenzione e poi stabilire se occorre veramente indicare una soluzione basata su di uno standard europeo da imporre a tutti? Questi strumenti sono essenzialmente due: l’analisi comparativa ed il margine di apprezzamento.
2. Analisi comparativa
Il metodo comparativo è uno degli strumenti usati dalla giurisprudenza della Corte nell’interpretazione, in situazioni specifiche, delle regole fissate in modo abbastanza vago dalla Convenzione. Si dice comunemente che il riferimento comparatistico è una fonte persuasiva di aiuto all’interpretazione[8]. Mettendo a confronto gli standard di protezione attuati dagli Stati parte al loro livello interno, la Corte realizza una sorta di «dialogo interculturale» allo scopo di individuare un «terreno europeo comune» nel rispondere a una specifica questione giuridica[9]. Nel caso Christine Goodwin c. Regno Unito la Grande Camera della Corte, per esempio, ha esaminato la questione del regime del riconoscimento legale del cambiamento di sesso in diversi Paesi europei. Nella sua sentenza[10], che è del 2001, la Corte dice che nel decennio precedente era riconoscibile nelle legislazioni dei Paesi membri del Consiglio d’Europa, senza possibilità di errore, una tendenza verso il pieno riconoscimento legale del cambiamento di sesso. Questo risultato dell’indagine di diritto comparato compiuta dalla Corte ha contribuito alla conclusione della Corte che è stata nel senso del riconoscimento a carico del Regno Unito di un obbligo positivo di riconoscimento legale del cambiamento di sesso e quindi di una violazione dell’articolo 8 della Convenzione.
Nel riferirsi a uno standard europeo comune per la protezione dei diritti umani, la Corte si basa sugli sviluppi sociali e culturali, riflessi nelle legislazioni degli Stati parte alla Convenzione. L’interpretazione evolutiva della Convenzione, che può condurre a una modernizzazione della legislazione interna su temi che interessano l’ordine morale o sociale dello Stato interessato, si appoggia quindi su di un «terreno europeo comune» che a sua volta è ricavabile dalla legislazione e dalle prassi della comunità degli Stati membri del Consiglio d’Europa. Tuttavia, nonostante l’importanza dell’analisi comparativa, la Corte considera che alle autorità nazionali deve essere comunque garantito un certo margine discrezionale quando esse regolano una determinata questione al loro interno. Questo aspetto della giurisprudenza della Corte va sotto il nome di «margine di apprezzamento».
3. Margine di apprezzamento
I risultati ottenuti mediante l’analisi comparativa e l’ampiezza del «margine di apprezzamento» si influenzano reciprocamente. Si dice che quanto più ampio è il cosiddetto «terreno comune europeo» nella legislazione e nella prassi dei Paesi europei, tanto più ridotto è il margine di apprezzamento per gli Stati che non seguono il consensus europeo, mentre, all’opposto, se l’analisi comparativa rivela una grande diversità, allora il margine è più ampio[11].
La dottrina del margine di apprezzamento è applicata dalla Corte in vari settori. Naturalmente il suo campo privilegiato è quello degli articoli da 8 a 11 della Convenzione, che proteggono diritti limitabili e che quindi richiedono normalmente il bilanciamento di interessi differenti e ugualmente tutelati.
Anche se la discrezionalità nazionale è limitata dal controllo finale della Corte, che ha anche l’ultima parola per quanto riguarda l’accertamento dei fatti, la Corte riconosce il profondo legame tra le idee di moralità, sistemi di valore e la comunità sociale locale. Quando determinati valori culturali e di società sono controversi e dunque formano oggetto di dibattito a livello nazionale e internazionale è ovviamente difficile che essi vengano convertiti in valori protetti dalla Convenzione. Quando manca l’uniformità tra i Paesi europei a proposito di certe concezioni, come può accadere per la protezione della morale, o anche a proposito del posto che va riconosciuto alla religione nella società, la Corte ritiene generalmente che le autorità statali si trovano, in via di principio, in una posizione migliore rispetto a quella del giudice internazionale per esprimersi nella materia.
Nel celebre caso Lautsi c. Italia del 2011, che riguardava l’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche, la Corte ha osservato che gli Stati dispongono di un margine di apprezzamento nei loro sforzi volti a conciliare l’esercizio delle funzioni che assumono in relazione all’educazione e all’insegnamento rispetto al diritto dei genitori di assicurare per l’appunto un’educazione e un insegnamento conforme alle loro convinzioni religiose. Questo si applica all’organizzazione dell’ambiente scolastico e anche alla predisposizione ed alla programmazione del curriculum. Quindi la Corte ha in linea di principio il dovere di rispettare le decisioni degli Stati contraenti in queste materie, incluso lo spazio che essi intendono destinare alla religione nella vita pubblica, purché tali decisioni non conducano a forme d’indottrinamento.
Viceversa, se l’elaborazione di sviluppi sociali e culturali in Europa, rivelata dalla legislazione degli Stati contraenti quale appare dall’analisi comparativa, permette alla Corte di discernere una tendenza unificante di progresso sociale e culturale, può sorgere un problema dal punto di vista della Convenzione se la legislazione dello Stato convenuto non riflette la tendenza generale.
Quindi nella sua giurisprudenza la Corte esplicitamente o implicitamente utilizza questi metodi per stabilire uno standard europeo comune in materia di protezione dei diritti umani, riconoscendo al tempo stesso la legittima diversità culturale. Il difficile compito di tracciare il confine tra il rispetto della diversità culturale e la necessità di armonizzare la protezione dei diritti umani si presenta a tutti e tre i livelli di dialogo interculturale che ho evocato all’inizio.
Cercherò ora di fornire qualche esempio per ciascuno di questi livelli.
3.1. Multiculturalismo all’interno delle società europee
Il primo livello di dialogo interculturale riguarda le questioni che si pongono all’interno delle società europee, come il dialogo tra le culture minoritarie e quella maggioritaria all’interno della stessa comunità. La protezione delle minoranze etniche e nazionali svolge un ruolo crescente nell’ambito della Convenzione. L’articolo 1 della Convezione assicura ad «ognuno» i diritti e le libertà previsti dal testo, ma non ci sono disposizioni espressamente dedicate alle minoranze. L’articolo 14, cioè la norma anti-discriminazione, è l’unica disposizione che si riferisce alla necessità di proteggere le minoranze. L’articolo 14 dice che il godimento dei diritti e delle libertà protetti dalla Convenzione deve essere assicurato senza discriminazioni di nessun genere, come ad esempio «l’appartenenza ad una minoranza nazionale». Inoltre il Protocollo n. 12 alla Convenzione (non ratificato dall’Italia), che stabilisce un divieto generale di discriminazione, è entrato in vigore il 1° aprile 2005. Nel determinare lo standard internazionale di protezione delle minoranze, la Corte utilizza diversi testi internazionali pertinenti, elaborati sia dal Consiglio d’Europa, sia dall’Unione europea e dall’Osce. In particolare la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa per la protezione delle minoranze nazionali, entrata in vigore il 1° febbraio 1998 è una fonte di ispirazione particolarmente importante, come la Grande Camera della Corte ha osservato nel caso Chapman c. Regno Unito del 2001.
Vale la pena di ricordare alcune sentenze della Corte in materia di tutela delle minoranze.
3.2. Minoranze e diritto alla vita
L’importanza dell’articolo 2 della Convenzione come una disposizione che non solo protegge il diritto alla vita, ma fissa anche le condizioni nelle quali la privazione della vita può essere giustificata, è stata ripetutamente affermata dalla Corte.
Un caso particolarmente interessante in materia di protezione delle minoranze è la sentenza Nachova ed altri c. Bulgaria del 2005. In questo caso la Grande Camera della Corte si è occupata delle doglianze dei ricorrenti secondo i quali pregiudizi e atteggiamenti ostili verso l’etnia Rom avevano avuto un ruolo decisivo negli eventi che avevano condotto all’uccisione di due militari di leva di origine Rom da parte di soldati della polizia militare bulgara. Le vittime, che operavano nel genio militare, erano fuggite da un sito dove erano impegnate in una costruzione. Sebbene si sapesse che i due coscritti erano disarmati e non pericolosi, i soldati della polizia militare li avevano uccisi con un’arma automatica presso un campo Rom. Dopo l’uccisione, uno dei militari aveva, secondo i ricorrenti, gridato ad uno degli abitanti del campo: «Dannati zingari!», puntandogli contro un’arma. I congiunti delle vittime invocavano dinanzi alla Corte la violazione dell’articolo 2, dell’articolo 13 e dell’articolo 14 della Convenzione combinato con l’articolo 2. Nella sua sentenza, la Corte ha affermato che l’uccisione delle due vittime e l’inchiesta che ne era seguita, che aveva confermato la legalità del comportamento della polizia militare, avevano violato il diritto alla vita previsto dall’articolo 2 della Convenzione. A proposito della questione se le uccisioni avessero una motivazione razziale la Grande Camera ha affermato, pur non essendovi prova dell’insulto razziale che era stato pronunciato secondo i ricorrenti, ogni espressione verbale di questo tipo pronunciata in un’operazione implicante l’uso della forza contro persone appartenenti ad una minoranza etnica o di altra natura è altamente rilevante per stabilire se si sia trattato di violenza istigata dall’odio razziale, per cui, non avendo le autorità bulgare sufficientemente indagato su questo punto, è stata trovata una violazione dell’articolo 14 combinato con l’articolo 2 sotto il profilo procedurale. La Corte ha osservato che la violenza razziale costituisce un affronto particolare alla dignità umana. Tenuto conto della pericolosità delle sue conseguenze, essa richiede da parte delle autorità una speciale vigilanza ed una reazione vigorosa. Per questo esse devono ricorrere a tutti i mezzi a loro disposizione per combattere il razzismo e la violenza razzista, rafforzando così la concezione democratica della società, nella quale la diversità non è vista come una minaccia, ma come una ricchezza.
3.3. Minoranze, cultura e diritti identitari
La libertà e il diritto di conservare il proprio stile di vita, così come la possibilità di mantenere valori ed usi tradizionali è questione di grande e crescente importanza per le minoranze che nella società di oggi sono spesso circondate da una maggioranza che ha stili di vita totalmente diversi. In termini generali, il «diritto alla cultura» copre, oltre al diritto al proprio stile di vita, una vasta gamma di aspetti sostanziali, come l’uso di lingue minoritarie nell’apprendimento scolastico[12], ma anche altri aspetti legati all’educazione, come i curricula scolastici.
Nel caso Chapman c. Regno Unito, sentenza della Grande Camera del 2001, la Corte era stata chiamata ad esaminare la questione dello stile di vita di famiglie zingare, e le specifiche difficoltà che esse incontravano per parcheggiare le loro roulotte. Il ricorrente, che aveva acquistato un terreno in una zona verde (Green Belt area) nell’Hertfordshire, si era visto rifiutare il permesso di collocare sul terreno il suo caravan e di costruire un bungalow. Nel procedimento amministrativo si era riconosciuto che non vi erano campi zingari nelle vicinanze e quindi era stato accordato al ricorrente un certo tempo per ottemperare all’ordine di sgombero che era stato impartito. Nella sua sentenza la Grande Camera ha riconosciuto che l’articolo 8 della Convenzione, che protegge la vita privata e familiare, include la tutela degli stili di vita tradizionali dei gruppi minoritari, stabilendo che l’articolo 8 implica obblighi positivi a carico degli Stati, che sono tenuti a facilitare lo stile di vita degli zingari, considerando in particolare i loro bisogni nelle decisioni sulla pianificazione urbanistica del territorio e nella decisione su casi particolari. La Corte ha osservato che anche se il fatto di appartenere ad una minoranza certamente non può conferire una esenzione rispetto alla generale legislazione che è diretta a regolare i beni comuni, come l’ambiente, può però incidere sulla maniera in cui queste leggi sono applicate.
Con la sentenza S.A.S. c. Francia, la Corte, che evocavo prima, ha affermato che il divieto del velo integrale è compatibile con la Convenzione. In effetti il contesto generale dei valori e dei principi comuni derivanti dagli strumenti internazionali esistenti, compreso il soft law del Consiglio d’Europa, sembrava dover condurre la Corte a una diversa soluzione.
La Risoluzione 1743(2010) e la Raccomandazione 1927 (2010) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa su L’islam, l’islamisme et l’islamophobie en Europe invita gli Stati membri a non adottare un divieto generale del velo integrale. Nello stesso senso, la ferma presa di posizione del Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, secondo il quale «…l’interdiction de la Burqa et du niqab… ne correspondrait pas aux valeurs européennes», que sont «la diversité et le multiculturalisme».
Tuttavia la decisione della Corte, che ammette la conformità alla Convenzione del divieto del porto del velo integrale riconoscendo la «scelta di società», a tutela del «vivere insieme» compiuta dal legislatore francese si inscrive nella giurisprudenza precedente, critica sul senso del foulard islamico. Naturalmente il rispetto del margine di apprezzamento riservato al legislatore nazionale ha giocato un ruolo importante[13].
3.4. Dialogo tra diverse culture di là dei confini nazionali
La pratica del dialogo interculturale attraverso i confini nazionali tra i Paesi del Consiglio d’Europa è uno degli aspetti del lavoro quotidiano della Corte. In effetti, la Corte deve valutare, formulare e riconoscere l’esistenza di uno «standard europeo comune» nella protezione dei diritti fondamentali. In particolare, le concezioni morali e valoriali che si esprimono negli stili di vita individuali, modi di pensare, usanze ed abitudini, formano una parte importante dello scambio interculturale tra le società europee per promuovere una migliore comprensione delle altrui concezioni di vita.
La Corte si è occupata in particolare di questioni che in questo campo si sono poste a proposito dell’articolo 8 sulla vita privata e familiare, dell’articolo 9 sulla libertà di religione e dell’articolo 10 sulla libertà di espressione.
Mi limiterò, per ragioni di tempo, ad un esempio in materia di tutela della vita privata e familiare, citando il famoso caso Marckx c. Belgio, sentenzadel 1979.
In questo caso la Corte era chiamata a proteggere il rispetto della vita familiare garantito dall’art. 8 della Convenzione a proposito della evoluzione delle forme di struttura familiare emergenti nelle moderne società. La Corte ha affermato che la posizione giuridicamente sfavorevole in Belgio delle madri non sposate e dei bambini nati fuori dal matrimonio, posta a confronto con le madri sposate e con i figli legittimi violava il diritto al rispetto della vita familiare ed era discriminatorio alla luce degli articoli 14 e 8 della Convenzione. Allo scopo di definire una comune tendenza europea relativamente allo status sociale e giuridico dei figli di madri non sposate la Corte ha preso in considerazione i cambiamenti legislativi negli Stati membri del Consiglio d’Europa, notando che se, nel 1950, quando la Convenzione fu adottata, si poteva considerare normale in molti Stati europei di fare una differenza tra famiglie «legittime» ed «illegittime», alla luce delle condizioni prevalenti al momento del giudizio, si doveva constare una netta evoluzione della situazione legislativa dei Paesi membri, oltre che degli strumenti internazionali pertinenti, in favore del principio «mater semper certa est», e dunque del superamento della distinzione tra figli legittimi ed illegittimi. Riferendosi alle convenzioni internazionali esistenti nella materia, e considerando le tendenze legislative in diversi Stati membri che avevano cambiato le tradizionali strutture della disciplina dell’affiliazione, la Corte ha concluso che l’eliminazione di ogni ineguaglianza basata sulla nascita corrispondeva ad un «bisogno sociale imperioso» nelle moderne società europee.
3.5. Dialogo interculturale tra l’Europa ed il resto del mondo
Il dialogo interculturale tra l’Europa ed il resto del mondo occupa un posto quantitativamente meno importante nella giurisprudenza della Corte. Da un punto di vista territoriale, l’articolo della Convenzione definisce l’ambito di applicazione con riferimento agli Stati parte, che sono responsabili per assicurare la garanzia collettiva della protezione dei diritti fondamentali. Quindi, gli Stati non europei, che non sono contraenti della Convenzione, non rientrano nella sfera di applicazione territoriale della Convenzione e quindi nella giurisdizione della Corte. Tuttavia, non bisogna dimenticare che talvolta la Convenzione è stata integrata nella Costituzione di Stati non europei e che la giurisprudenza della Corte è spesso citata da Corti supreme di tutto il mondo[14]. La Convenzione non si applica quindi agli atti di Stati terzi, né obbliga gli Stati contraenti ad imporre gli standard convenzionali a Stati terzi.
Detto questo, però la Corte ha il dovere di controllare gli atti sovrani degli Stati contraenti che potrebbero esporre il ricorrente al rischio di una violazione dei suoi diritti fondamentali protetti dalla Convenzione, come gli articoli 2, 3, 4 o anche 6, quando si tratti di un flagrante diniego di giustizia. La maggior parte di questi casi sono legati ad un rischio imminente di una violazione dei diritti fondamentali in presenza di un ordine di espulsione deciso da uno Stato contraente.
In questo contesto, sempre per ragioni di tempo, mi limiterò ad un solo esempio, che riguarda la mutilazione genitale femminile.
Nel caso Collins e Akaziebie c. Svezia, decisione dell’8 marzo 2007, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da una donna nigeriana anche nell’interesse della figlia minore. La prima ricorrente aveva chiesto asilo ed un permesso di soggiorno in Svezia dopo essere fuggita da Agbor, nello Stato del Delta. Le autorità svedesi avevano rigettato la richiesta di asilo, status di rifugiato e di permesso di soggiorno. La prima ricorrente aveva riferito essere una tradizione nigeriana quella di forzare le donne a subire la mutilazione genitale femminile (Female Genital Mutilation, Fgm) al momento del parto, facendo presente di aver avuto il timore di dover subire questa pratica quando si era accorta di essere incinta, specialmente perché né il marito né gli altri membri della sua famiglia avrebbero potuto impedire l’esecuzione della mutilazione perché si trattava di una tradizione profondamente radicata. La donna diceva in particolare che, pur avendo già subito la Fgm, rischiava di essere assoggettata ad una mutilazione ancora più grave, cioè l’infibulazione. Pur negando che la donna avesse provato la sua reale esposizione al rischio denunciato, e quindi rigettando il ricorso, la Corte ha però osservato che non è in discussione che sottoporre una donna alla mutilazione genitale femminile costituisca un trattamento contrario all’articolo 3 della Convenzione. In questo modo la Corte ha riconosciuto la sua responsabilità di decidere sulle circostanze socio-culturali in Stati non europei e sugli effetti che queste circostanze possono avere sugli obblighi degli Stati contraenti secondo la Convenzione.
Sotto un altro profilo, può venire in rilievo l’atteggiamento di uno Stato contraente della Convenzione rispetto al trattamento di valori giuridici ed etici extraeuropei.
Nella recentissima sentenza Z. H. e R. H. c. Svizzera, no. 60119/12,[15] dell’8 dicembre 2015, la Corte, in un caso di espulsione di una coppia di richiedenti asilo, si è trovata a doversi confrontare con il rifiuto delle autorità svizzere di riconoscere il matrimonio che essi sostenevano essere stato celebrato tra di loro. I ricorrenti, cittadini afgani, affermavano di essersi sposati in Iran con un matrimonio religioso all’età di 14 anni lei e 18 anni lui. La richiesta venne rigettata ed il secondo ricorrente venne espulso verso l’Italia, nell’ambito del sistema «Dublino». Nel confermare il rigetto della domanda, le Corti svizzere avevano considerato, tra l’altro, che il matrimonio della coppia non poteva essere riconosciuto in Svizzera perché contrario all’ordine pubblico, dato che i rapporti sessuali con un minore al di sotto dei 16 anni costituiscono reato in quel Paese, per cui non si poteva invocare la protezione della vita familiare di cui all’art. 8 della Convenzione. La Corte ha concluso che l’articolo 8 della Convenzione non può essere interpretato nel senso di imporre ad uno Stato contraente l’obbligo di riconoscere un matrimonio, religioso o non, concluso da una bambina di 14 anni. In questo quadro, la Corte ha osservato che tale obbligo non poteva derivare nemmeno dall’articolo 12 della Convenzione, il quale espressamente prevede che il matrimonio sia regolato dalla legge nazionale. Data la delicatezza delle scelte etiche sulle quali le Corti svizzere dovevano decidere e l’importanza inerente alla protezione dei fanciulli e alla necessità di assicurare loro un ambiente familiare adeguato, la Corte ha fatto applicazione della dottrina del margine di apprezzamento, concludendo che i giudici nazionali si trovavano in una posizione migliore, rispetto al giudice europeo, per decidere sulle questioni sollevate dal caso dei ricorrenti, e che quindi al momento dell’espulsione del secondo ricorrente le autorità elvetiche potevano con ragione considerare la coppia come non sposata.
Naturalmente il coinvolgimento della Corte in questo terzo livello di dialogo interculturale è indiretto: la Corte non giudica le azioni e le possibili violazioni dei diritti umani di Stati che non sono parti della Convenzione. Le sentenze della Corte mostrano però che ci sono effetti sulla giurisprudenza di sistemi sociali e giuridici non europei. Nella valutazione dei fenomeni sociali e giuridici propri di comunità non europee, si può dire che l’approccio della Corte è diretto a una più profonda comprensione dei sistemi giuridici e culturali non europei, in vista di assicurare quanto più è possibile una vita pacifica nelle nostre società europee multiculturali di oggi, senza però abbandonare mai, come si è visto, la tutela dei diritti fondamentali in omaggio a particolari tradizioni o usanze di questa o di quella parte del mondo.
[1] Council of europe, Consultation document for preparing the “White paper on intercultutal dialogue“, Strasbourg, January, pp. 6-9. V; P.Wiater, Intercultural Dialogue in the Framework of European Human Rights Protection, Council of europe, White Paper Series - Volume, 2010.
Attualmente un testo di soft law, intitolato Guidelines of the Committee of Ministers to Member States on the Protection and Promotion of Human Rights in Culturally Diverse Societies è all’esame del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa.
[2] Handyside c. Regno Unito, 7 dicembre 1976, Serie A, n. 24, § 49.
[3] Young, James e Webster c. Regno Unito, 13 agosto 1981, Serie A, n. 44, § 63.
[4] Metropolitan Church of Bessarabia and Others c. Moldova, no. 45701/99, §§ 114-116, ECHR 2001-XII.
[5] Leyla Şahin c. Turchia [GC], n. 44774/98, ECHR, 2005.
[6] S.A.S. c. Francia [GC], n. 43835/11, 1° luglio 2014.
[7] P. Mahoney, Marvellous Richness of Diversity or Invidious Cultural Relativism?, Human Rights Law Journal, vol. 19.(1998), pp. 1-6.
[8] P.Mahoney, Comparative Law and the ECtHR, in G. Canivet, M.Andenas e D. Fairgrieve (eds.), Comparative Law before the Courts, London, 2004, p. 136.
[9] P.Mahoney, op. cit., p. 138.
[10] Christine Goodwin v. the United Kingdom, n. 28957/95, ECHR 2002,VI.
[11] L.Wildhaber, The Role of Comparative Law in the Case-Law of the European Court of Human Rights, in Bröhmer et al. (eds.), Internationale Gemeinschaft und Menschenrechte, Köln/Berlin/München, 2005, p. 1106.
[12] Belgian linguistic case (merits), sentenza del 23 luglio 1968, Serie A, n. 6.
[13] S.A.S. c. Francia (GC), n. 43835/11, cit.
[14] J.F. Flauss (ed.), L’influence de la Convention européenne des droits de l’homme sur les Etats tiers, Coll. Droit et Justice, n. 35, Bruylant, Bruxelles, 2002, p. 162.
[15] Z. H. e R. H. c. Svizzera,n. 60119/12, 8 dicembre 2015.