Il tempo e la difesa
È una pericolosa illusione ritenere che il problema del processo penale sia solo o essenzialmente la mancanza di velocità. Se è vero che i procedimenti molto lunghi favoriscono una prematura estinzione dei reati è altrettanto vero che laddove i processi per particolari condizioni, come lo stato di detenzione, dell’imputato subiscono cadenze serrate, il prevalere dell’esigenza di speditezza finisce per limitare irragionevolmente il diritto ad una difesa effettiva come nel caso del cd. “immediato cautelare”. Il rischio è il prevalere di una certa logica “aziendalista” nel processo penale, in cui la contrazione del tempo e la produzione di sentenze sono il valore da perseguire piuttosto che una migliore ed oculata distribuzione di risorse. Da qui la necessità di pensare ad un nuovo modello di processo dove ad un più frequente controllo giurisdizionale nella fase delle indagini possa corrispondere un più frequente ricorso a forme di contraddittorio “contratto”.
Secondo una diffusa credenza, l’interazione tra tempo e diritto di difesa avrebbe per prodotto finale la prescrizione. L’ambizione di questa breve riflessione è almeno provare ad indicare che il rapporto presenta una maggiore complessità e che è una pericolosa illusione ritenere che il problema del processo penale sia solo o essenzialmente la mancanza di velocità. Se è vero che i procedimenti molto lunghi favoriscono una prematura estinzione dei reati è altrettanto vero che laddove i processi per particolari condizioni (anzi una soltanto: lo stato di detenzione) subiscono cadenze serrate, il tempo finisce per strangolare il diritto di difesa, certamente non perché impedisca la prescrizione (peraltro impossibile per reati che prevedano la custodia cautelare in carcere) quanto per l’effetto di restringere i tempi necessari allo svolgimento di una difesa effettiva. È il caso del cd. «immediato cautelare» rito speciale che, sparita ogni residua parvenza di immediatezza della prova, sempre più spesso diviene un contenitore di materiale d’indagine voluminosissimo, frutto di anni di inchiesta. A fronte di ciò la difesa è costretta ad una affannosa rincorsa per l’instaurarsi di discutibilissime prassi senza neanche avere a disposizione il materiale di prova aggiornato (vedasi l’uso ormai recepito di procedere alle trascrizioni delle intercettazioni in corso di dibattimento). Cosi, mentre il tempo si restringe inesorabilmente per la durata del contraddittorio sulla prova, esso paradossalmente si cristallizza e dilata “dopo la prova” quando il giudice dovrebbe limitarsi ad una spiegazione “concisa”.
Nessuno rende conto di questa drammatica contraddizione: strumentalmente una corrente di pensiero neo-qualunquista (lasciamo perdere il populismo che da Dostoevsky a Peron ha conosciuto ben altri, tragici interpreti) snocciola cifre avulse da ogni significato per sostenere la tesi dell’epidemia sterminatrice di fascicoli. In realtà quelli che muoiono sono i processetti della gente comune che le stesse Procure sulla base di criteri discrezionali insondabili di preferenza mandano preventivamente al macero. Laddove si gioca la posta più alta, quella legata alla libertà delle persone ed ai reati più gravi, il tempo è una ghigliottina instancabile e sempre in danno dell’imputato detenuto (poche storie: le cifre dicono ancora che la custodia cautelare in carcere è la migliore arma contro la caccia alla prescrizione e le Procure la usano senza requie)
Non è questione di visione settaria, le differenze ideologiche sulla prescrizione tagliano trasversalmente i fronti. Basterebbe ricordare che la Corte costituzionale ha avuto modo di sancire che celerità e giustizia non sono sinonimi, ma che in un processo che voglia definirsi equo la durata è una variabile indipendente[1]. Ed ancora prima il giudice delle leggi era stato netto nel definire la prescrizione come istituto di «natura sostanziale»[2].
Ciò non ha impedito che, periodicamente, ondate di malumore ed abusati, quanto provinciali, paragoni con ordinamenti esteri investissero il complesso delle norme, in particolare, non potendosi intaccare il principio di fondo, quelle concernenti il regime della durata e del calcolo della prescrizione.
La nota sentenza della Corte di giustizia europea Taricco (causa C-105/14 8 settembre 2015) ha innescato un nuovo fronte nel quale si sono entusiasticamente avventurati taluni, manipolando direttamente l’art. 161 cp[3] o più prudentemente attivando la Corte costituzionale sia pure con ben diversi accenti e qualità di argomentazione.
Spiega efficacemente la differenza di posizioni giurisprudenziali il contenuto di due delle tre ordinanze che hanno investito della regola Taricco la Consulta.
Nella prima[4], prevalgono considerazioni di natura politica che finiscono per declinare inopinatamente in considerazioni (e recriminazioni) più di natura sindacale che giuridica[5] e che richiamano, a dire il vero, più che l’austerità dell’aula di udienza della Consulta, gli ormai familiari accenti da talk show in cui la visione catastrofista si fonde con l’autoindulgenza vagamente corporativa[6].
Nella seconda, la III sezione penale della Corte di cassazione [7] ha prodotto una acuta e sistemica riflessione sull’istituto di cui ha sottolineato la rispondenza a principi di ordine costituzionale quale il recupero sociale del condannato, vanificato da una tardiva riscossione del debito penale dello Stato verso il reo, nel frattempo mutato dal decorso del tempo.
La visione politica (che è consustanziale al diritto, ogni tipo di diritto) non è mai ripiegata su sé stessa, sulla difesa dell’interesse di categoria, ma affronta con ampio respiro il tema sociale del riscatto personale e dell’equilibrio dei vari interessi in gioco, anche di natura sovranazionale[8].
La Corte costituzionale, pure non riprendendo i molti spunti suggeriti dalla Cassazione e limitandosi ad una sobria quanto secca difesa del principio di legalità e dell’autonomia del giudice nazionale, con riferimento ai principi irrinunciabili della tutela della persona non ha mancato di ribadire la natura «costituzionale» della prescrizione, espressione di valori profondi attinenti la certezza del diritto[9].
Dunque il tema tempo è qualcosa di più ricco e complesso della mediocre disputa sulle subdole finalità perseguite dagli avvocati nel processo penale, è tema politico che richiede soluzioni di ampio respiro e non asfittiche misure tampone.
Il tempo e l’obbligo dell’azione
Il tempo del procedimento penale visto da un avvocato è incredibilmente lungo ed ozioso nella fase delle indagini.
A volte può essere eterno, come provano le statistiche secondo le quali la maggior parte delle prescrizioni maturano durante la fase d’avvio (81.896 su 132.276, fonte Ministero della giustizia, 2015).
È noto come a partire da Torino con la famosa «circolare Maddalena» poi ripresa in pratica da tutti i grandi uffici, le Procure, in via autonoma, si sono date dei criteri di priorità organizzativa mediante i quali si indicano le tipologie di reati da perseguire con corsia preferenziale. Essi sanciscono la messa a morte prematura di migliaia di fascicoli e gravano di un ritardo, assai spesso incolmabile, i restanti che fermeranno il loro viaggio in fasi successive .
Il rimedio a tale situazione è stato costantemente individuato in un allungamento o nella possibile sospensione dei termini della prescrizione, che con tutta evidenza sono misure destinate solo ad aggravare i problemi eliminando financo il debole rimedio della morte naturale dei procedimenti in nome di una sorta di accanimento terapeutico, inutile nella maggior parte dei casi.
Ingenuamente ci si potrebbe chiedere se non sia il caso di porre mano con decisione ad una seria riforma costituzionale sull’obbligatorietà dell’azione penale, ma sul punto la magistratura associata rifiuta ogni dialogo. Già: quella sull’azione penale stranamente è l’unica discrezionalità che rifiuta. Anche se a pensar male si fa peccato, non è difficile intuirne il motivo. Senza l’ombrello di una sia pur fittizia «costrizione» il pubblico ministero sarebbe chiamato ad una scelta chiaramente «politica», sia pur in senso lato ed «alto», nella scelta dei processi da avviare e dunque passibile di critica e revisione, come giusto laddove la discrezionalità investa diritti fondamentali. Su ciò, comprensibilmente ma assai poco democraticamente, non vi è voglia, consuetudine, disponibilità. Meglio, molto meglio quel «velo di ignoranza» di cui parla Rawls, formale ed ammantato di perbenistica ipocrisia, perché, sotto il velo il Pm ci vede benissimo[10].
Stupisce invece, la ritrosia marcata ad un uso massiccio di istituti come l’archiviazione per irrilevanza del fatto e di mezzi di mediazione sociale come la messa alla prova, che dovrebbero essere usati anche in relazione a condotte di reato più gravi di quelle oggi contemplate dalla legge.
Sembra che la magistratura associata preferisca indulgere alla pratica del lamento invece di assumere la corresponsabilità di scelte forse impopolari ma risolutive e di demandare ogni possibilità di azione efficace a strumenti come l’immediato cautelare, o surrogati processuali come il procedimento di prevenzione, di dubbia costituzionalità ma che nella loro giugulatoria speditezza costituiscono un illusorio sollievo almeno per le statistiche.
L’insostenibile immediatezza del cautelare
Riti «immediati», «abbreviati», «direttissimi», assonanze marinettiane di velocità futurista abbinate alla giustizia. La condizione del cd. «immediato cautelare» è emblematica dei contraddittori rapporti tra tempo e giustizia.
Il ricorso all’ultimo ritrovato della via cautelare verso il giusto processo è oggi massiccio. Non stupisce il successo. Evidenti le economie di scala, il risparmio di tempo e gli indubbi vantaggi per l’accusa di cui si è detto in precedenza.
In realtà l’immediato cautelare è un semplice palliativo, un analgesico il cui effetto benefico è puramente illusorio e limitato. Sovente il ritmo di marcia finisce per sfiancare proprio la pubblica accusa che vi fa ricorso. Si paga, nella fase dibattimentale, l’incompletezza delle indagini oppure l’accumulo bulimico di prove e di ipotesi di reato, che – senza il vaglio preventivo dell’udienza preliminare – fatalmente emergono nella loro insostenibilità solo dopo una defatigatoria istruttoria dibattimentale.
Sorge il sospetto, non del tutto malizioso, che spesso il Pm, senza adeguato controllo giurisdizionale soggiaccia alla tentazione di accumulare materiale, nella illusoria speranza che il troppo riempia il vuoto di prove sostanziali, che il volume sortisca un effetto ipnotico di sazietà nel giudice oltre ad impastoiare in una palude di argomenti il difensore.
Il rischio boomerang è elevato ed i rovesciamenti di verdetti in sede di appello, una volta svanito l’«effetto alone» del primo grado ne sono l’esito. Il tempo, prezioso alleato dell’accusa all’inizio, nella versione «ristretta» del processo di prima istanza, concede al giudice dell’appello tempi meno frenetici e riflessione più ampia. Ciò spiega verdetti che sconcertano l’opinione pubblica. Ritmi dilatati e maggior calma, minore emotività frettolosa.
La scarsità del tempo nei riti immediati con detenuti o a rischio prescrizione, unita alla sovrabbondanza del materiale da vagliare, produce un effetto ancor più deflagrante quando, ed è ormai regola, la prova regina se non esclusiva siano intercettazioni di ogni tipo.
Qui, la «tirannia del Dio Crono» ha originato una prassi che si è sostituita alla norma e di cui oggi si avverte la devastante distorsività. La logica di sistema che sovrintende alle disposizioni dell’articolo 268 cpp, raccordate con il principio fondamentale dell’articolo 111 Cost., prevede l’accesso del difensore nel minor tempo possibile alla fonte di prova delle conversazioni registrate, affinché ne possa prendere adeguata conoscenza ed infine, in contraddittorio, davanti ad un giudice delle indagini preliminari, chieda la trascrizione di quelle che ritenga rilevanti .
È a tutti nota la prassi invalsa per cui, addirittura, neanche l’udienza preliminare è più la tappa di arrivo delle necessarie operazioni peritali ma invece si può procedere nel processo in contemporanea al dipanarsi dell’istruttoria dibattimentale con «ovvia» sospensione dei termini di custodia[11].
Secondo la Corte costituzionale, (sentenza 20 luglio 2012 n. 204) la perizia dibattimentale può rappresentare addirittura un fattore di riduzione «complessiva» della durata della carcerazione ed elemento di preziosissima economia nel decorso del processo che può comunque continuare con altri adempimenti evitando le inutili perdite di tempo inevitabili ove si procedesse alla perizia in udienza preliminare.
Invero, il legislatore non colloca necessariamente lo stralcio delle intercettazioni nell’udienza preliminare potendosi addirittura immaginare che essa possa essere disposta, ad esempio, in concomitanza con l’avviso dell’art. 415 bis cpp. Ma ciò che colpisce nel pensiero espresso dalla Consulta è una certa logica «aziendalista» per il processo penale, in cui la contrazione del tempo è il valore da perseguire piuttosto che una migliore ed oculata sua distribuzione. Il processo come catena di montaggio di sentenze non può essere una soluzione auspicabile e poiché la cattiva prassi è come l’erba cattiva, qualcosa che non può essere recintato ed isolato ma finisce per devastare il terreno intorno, gli effetti nocivi non hanno tardato a manifestarsi.
L’esperienza nelle aule ci ha già squadernato davanti esiti paradossali come istruttorie condotte sulla lettura dei famigerati brogliacci, in attesa delle trascrizioni arrivate dopo la chiusura della fase, con precipitoso richiamo dei testi. Alcune Procure rifiutano di rilasciare copia delle registrazioni da loro non ritenute di interesse consentendo solo l’ascolto al difensore per stabilire di quali chiedere la trascrizione, basandosi sulla propria memoria. Tutto ciò a tutela dei terzi «non coinvolti» e pazienza se il diritto di difesa ne risentirà. In compenso le intercettazioni degli inquirenti continuano a circolare sui media con abbondanza di intimi particolari ed immagini suggestive come quella «ancillare» evocata nello sfogo intimo di un ministro, costretto a dimettersi senza mai essere neanche indagato. In nome dell’esigenza temporale si sacrifica tutto. Talvolta anche il senso del ridicolo oltre che i principi costituzionali.
Un altro processo è possibile. La sentenza Sezioni unite Dasgupta
La vivace interazione venutasi a creare recentemente tra la alcune sezioni della Cassazione e le Sezioni unite in tema di rinnovazione obbligatoria della prova dichiarativa, anche quando l’overturning della sentenza di assoluzione riguardi un giudizio abbreviato, spinge ad alcune riflessioni anche sul tema della «ragionevole durata» del processo penale[12].
Il serrato e per certi versi, anche polemico, dialogo è senza precedenti laddove si pensi che il contrasto giurisprudenziale sottoposto all’attenzione del supremo consesso nomofilattico non intercorreva tra le sezioni ordinarie ma tra queste ed una precedente pronuncia delle Sezioni unite sullo stesso tema. Non ho personale memoria di casi analoghi. I collegi «dissidenti» avevano in sostanza obiettato che il «modello alternativo di processo» che veniva a delinearsi in ragione di questa sentenza fosse inconciliabile con la struttura del giudizio abbreviato come delineato dal legislatore. L’oggetto del contrasto è l’obbligo, secondo le Sezioni unite gravante sul giudice dell’impugnazione, di «dover» assumere per la prima volta in contraddittorio una prova dichiarativa, ancorché assunta solo cartolarmente in primo grado. L’art. 603 del codice di procedura prevede questa evenienza come rimessa alla discrezione piena del giudicante in appello laddove le Sezioni unite ne impongono l’obbligo.
Sia consentito, incidentalmente quanto assai sommessamente, rilevare che la decisione non desta scandalo. Ed invero, se la ratio dell’articolo 603 cpp secondo cui il giudice d’appello «può» svolgere istruttoria anche in presenza di una sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato ordinario, poggia sull’obbligo del giudice di ricercare la verità, (Corte cost. 19 dicembre 1991 n. 470, Cass., II Sezione penale 31 maggio 1991, n. 10022) allora, di fronte ad un possibile conflitto di valutazione «cartolare» tra due organi giudicanti, la necessaria insaturazione di un contraddittorio rispettoso dei canoni di oralità ed immediatezza (lo «statuto cognitivo del processo penale») ha una sua logica ed inevitabilità, proprio nell’ottica dell’accertamento di eventuale colpevolezza «oltre ogni ragionevole dubbio». Consentire alla difesa il necessario strumento della confutazione dei motivi della pubblica accusa, oltre a soddisfare i criteri costituzionali dell’articolo 111 Cost. fornisce al giudice la piena cognizione sulla materia devoluta.
Il punto, ai fini della presente riflessione, tuttavia è un altro. Emerge tra le righe della sentenza delle Sezioni unite così come in quelle di una recente pronuncia della Corte costituzionale (7 ottobre 2016 n. 216) una strutturazione del giudizio abbreviato come modello processuale «alternativo» improntato a criteri di «economia processuale» in ragione della natura «contratta» dell’istruttoria probatoria, senza che necessariamente il risparmio di tempo venga a coincidere con la ristrettezza dei tempi e tantomeno la completa soppressione del contraddittorio «orale ed immediato»[13].
Nato come possibile «compromesso procedurale» tra il rito ordinario e quello puramente pattizio, il giudizio abbreviato ha conosciuto nel tempo, a partire dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, una serie di modifiche in funzione di un allargamento del contraddittorio.
La storia giudiziaria recente ha presentato anche casi in cui questo ampliamento ha suscitato ampi dubbi sulla rispondenza del procedimento alla sua natura «deflattiva», ma sia la Corte costituzionale che le Sezioni unite hanno ribadito che anche la più estesa delle istruttorie in sede di udienza preliminare comporterà sempre un indubbia «economizzazione» di tempo ed energie[14].
Da tale concezione si può partire per implementare l’uso di uno strumento non ancora pienamente «capito» e sfruttato nella sua potenzialità di contemperamento di esigenze di speditezza e rispetto del contraddittorio.
Nella sua relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario, il primo presidente della Suprema corte ha sottolineato la necessità di «finestre giurisdizionali» sulle indagini preliminari, come antidoto democratico ad «eccessi di autoreferenzialità».
Autorevolmente taluno ha commentato che già gli «affacci» sono presenti nel codice di rito e che si tratta solo di sfruttarli nella loro pienezza[15]. Si pensi ad un controllo effettivo e rigoroso del rispetto dei termini di indagine, dell’obbligo di iscrizione delle notizie di reato, del rispetto del diritto di accesso pieno e sollecito della difesa al materiale di indagine, almeno quando questo venga diffuso alla stampa dagli appositi uffici di relazioni coi media[16], allo svolgimento tempestivo dell’udienza di stralcio delle intercettazioni, all’introduzione di termini perentori per l’esercizio dell’azione penale.
Come si vede si tratta di strumenti che consentirebbero lo snellimento dei tempi e metterebbero la difesa in condizione di accedere più frequentemente alle forme «contratte» di contraddittorio sulla prova. Quanto più le finestre di giurisdizione consentiranno una tempestiva cognizione del difensore, tanto più sarà possibile limitare la necessita del contraddittorio in udienza. E se il principio di immediatezza richiederà quasi sempre l’escussione dibattimentale della prova dichiarativa (fatta comunque eccezione per i soggetti vulnerabili che già oggi sono sottratti al contraddittorio dibattimentale) le prove scientifiche e le trascrizioni delle intercettazioni, qualora acquisite in fase pre-dibattimentale, costituirebbero, per il loro enorme e costante utilizzo, un forte sgravio verso un alleggerimento dei tempi processuali senza sacrificio del diritto di difesa. Si tratta di introdurre buone prassi.
Ciò richiede una evoluzione culturale di giudici ed avvocati verso il pieno rispetto della giurisdizione. Ribadisco: giudici ed avvocati, che per questi ultimi l’interlocutore naturale è solo il giudice.
Troppo spesso quest’ultimo nell’avvio delle indagini appare timoroso di far deragliare il convoglio dell’inchiesta, per poi correre ai ripari dopo che i guasti si sono verificati. Non si dovrebbe aver timore di incidere subito, anche nelle inchieste più eclatanti quando l’impianto dell’accusa appare fragile. Come ha ricordato la Corte costituzionale di recente «l’attività giurisdizionale è soggetta al governo della legge penale mentre quest’ultima, viceversa, non può limitarsi ad assegnare obiettivi di scopo al giudice».
Un recupero della centralità della giurisdizione, ponendo fine ad una concezione autarchica ed «autoreferenziale» dell’attività d’indagine è il presupposto democraticamente sano e virtuoso per un processo di «ragionevole durata» e che renda a sua volta «ragionevole» il sacrificio che un processo impone al singolo.
Resta da vedere se a queste riforme si possa pervenire, nella abulia del legislatore, secondo un principio di sussidiarietà, tramite prassi condivise dal basso dalle componenti progressiste di avvocatura e magistratura. Ma questa è tutta un’altra storia, ancora da scrivere.
[1] «bilanciamento tra il diritto di difesa e il principio di ragionevole durata del processo deve tener conto dell’intero sistema delle garanzie processuali, per cui rileva esclusivamente la durata del giusto processo, quale complessivamente delineato in Costituzione, mentre un processo non giusto perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata» (Corte cost., 4 dicembre 2009 n. 317).
[2] «il decorso del tempo non si limita ad estinguere l’azione penale, ma elimina la punibilità in sé e per sé, nel senso che costituisce una causa di rinuncia totale dello Stato alla potestà punitiva» (Cass., Sez. I, 8 maggio 1998, n. 7442). Tale effetto, peraltro, esprime l’«interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno, o notevolmente attenuato (…) l’allarme della coscienza comune, ed altresì reso difficile, a volte, l’acquisizione del materiale probatorio» (sentenza n. 202 del 1971; v. anche sentenza n. 254 del 1985; ordinanza n. 337 del 1999) (Corte cost. sentenza n. 393/06 del 23 nov.2006).
[3]Cass., sez. III pen., sent. 15 settembre 2015 n. 2210.
[4]Trib. Cuneo, ord. Gup. 17.01.2014.
[5] «La sentenza di primo grado è, nella stragrande maggioranza delle ipotesi, appellata. Terminato il giudizio di appello, viene proposto ricorso per cassazione alla Suprema corte. La durata del procedimento rende quindi l’impunità in Italia non un caso raro ma la norma. Trattasi di un obiettivo facilmente raggiungibile per il quale i difensori degli imputati prodigano grande impegno, cosa avvenuta puntualmente anche nel presente procedimento».
[6] «Attraverso questo istituto di diritto sostanziale è oggi messo in crisi lo strumento processuale: il processo diviene, con i suoi tempi dilatati ed i suoi gradi, il mezzo attraverso cui inseguire – proprio da parte dei soggetti che mai potrebbero sperare in una pronuncia assolutoria – una declaratoria di estinzione del reato ... sicuramente non potrà mai addossarsene la colpa alla magistratura visto che, per la capacità di definizione annua di procedimenti penali, i giudici italiani risultano al primo posto in Europa, con un indice di definizione pari a 1.168.044, a fronte di 864.231 della Germania, 655.737 della Francia, 437.000 della Russia e 388.317 della Spagna.
[7] Ord. 30/03/2016.
[8] «Tuttavia, il prolungamento dei termini di prescrizione, e quindi della punibilità, in ragione della tutela degli interessi finanziari dell’Ue, comporta una funzionalizzazione della pena eccentrica rispetto al teleologismo costituzionale: la pena non tende più alla rieducazione del condannato, secondo quanto previsto dall’art. 27, comma 3, Cost., ma diviene strumento di tutela degli interessi finanziari dell’Unione. In tal modo, si registra una inversione della concezione personalistica sottesa alla Costituzione, con una strumentalizzazione dell’individuo-persona che, da “fine” della sanzione penale, ne diviene “mezzo”: la visione personalistica sottesa alla funzione rieducativa della pena affermata dalla Costituzione soccombe alla visione patrimonialistica e finanziaria sottesa alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione».
[9] La Corte di giustizia con rinvio pregiudiziale dovrà chiarire se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Tfue (repressione delle frodi finanziarie e dei reati lesivi degli interessi finanziari dell’Ue) «debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato»:
- anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata;
- anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità;
- anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro.
[10] J. Rawls, Una teoria della Giustizia , Milano, 2008.
[11] «la scelta del momento in cui disporre la perizia, può dipendere dai più vari accadimenti processuali, senza che il codice di rito autorizzi la deduzione di conseguenze particolari dalla circostanza che la trascrizione delle intercettazioni sia eventualmente disposta in dibattimento invece che nelle indagini o in udienza preliminare; ciò perché è solo dopo tali fasi che si ha certezza degli imputati nei confronti dei quali si procede a giudizio e di quelli per i quali la perizia trascrittiva non è necessaria per avere costoro richiesto riti alternativi. Ne consegue da quanto detto che l’ordinanza del Tribunale, laddove afferma la «irregolarità» della scelta del Pm di richiedere la trascrizione delle intercettazioni in sede dibattimentale (invece che nelle indagini o in udienza preliminare), per trarne poi la conseguenza della legittimità del diniego della sospensione dei termini di custodia cautelare, è affetta da violazione di legge» (Cass., sez. II, 12 dicembre 2008, n. 47614, Comisso).
[12] Cass. II Ord. 26.11.2015 n. 2259/16; Sezioni unite sent. 28.4.2016 n. 27620/16, Ric. Dasgupta.
[13] Le «finalità di economia processuale proprie del procedimento» sono rimaste relegate nel comma 5 dell’art. 438 cpp, a regolare solo le porte del cd. abbreviato condizionato, mentre sono rimaste programmaticamente escluse dal modello essenziale del rito, cioè quello introdotto da una domanda non correlata ad istanze istruttorie. E non basta, perché quelle finalità sono risultate tanto indefinite da produrre estenuanti discussioni sulla loro fisionomia e sulla loro portata, almeno fino a quando proprio la Consulta, nel solco di una giurisprudenza storicamente mirata all’incentivazione del rito, non si è incaricata di notare che anche la più estesa delle istruttorie aggiuntive comporterebbe «il minor dispendio di tempo e di energie processuali rispetto al procedimento ordinario» (sentenza n. 115 del 2001). Con il che – notoriamente – l’autonomia del (confuso) segnale legislativo sulle caratteristiche del rito, rispetto al requisito concorrente della necessità dell’integrazione proposta dall’imputato, si è sostanzialmente vanificata (così come la prassi dimostra e la dottrina maggioritaria osserva). La logica è che, data la necessità di un atto istruttorio, sarà sempre più conveniente la sua assunzione secondo il rito speciale che quella in forma dibattimentale (con la considerazione aggiuntiva che solo nell’ambito del primo restano utilizzabili gli atti eventualmente già raccolti. Come già rilevato da questa Corte, a seguito della citata novella legislativa il rito abbreviato continua a costituire un modello alternativo al dibattimento che, da un lato, si fonda sull’intero materiale raccolto nel corso delle indagini preliminari – in base al quale l’imputato accetta di essere giudicato – e, dall’altro, consente una limitata acquisizione di elementi meramente integrativi, sì da mantenere la configurazione di rito «a prova contratta» (ordinanza n. 57 del 2005). Di conseguenza, anche se viene richiesta o disposta una integrazione probatoria, «il minor dispendio di tempo e di energie processuali rispetto al procedimento ordinario continua […] ad essere un carattere essenziale del giudizio abbreviato» (sentenza n. 115 del 2001). Solo in ciò, del resto, risiede la ragione giustificativa dell’effetto premiale annesso al rito, consistente in una significativa riduzione della pena inflitta nel caso di condanna (art. 442, comma 2, cod. proc. pen. (Corte cost. n. 216/16).
[14] Corte cost. sent n. 216/16 cit.
[15] G. Spangher, relazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti Matera, 10/11 febbraio 2017.
[16] In un’udienza del processo Carminati M. +42 il responsabile del reparto anticrimine dei Ros ha rivendicato la diffusione alla stampa dopo gli arresti degli imputati di intercettazioni e filmati per finalità « informativa» della pubblica opinione.