Introduzione a «Il diritto di Crono»
La. relazione tra tempo e diritto è tema classico, ampiamente arato, nei secoli, da maestri del pensiero e filosofi del diritto – da Hume e Kierkegaard sino a Heidegger ed Husserl (e, per venire ad epoche ed ambienti a noi più prossimi, Bruno Romano) – cui Questione Giustizia si accosta senza ambizioni di inquadramento sistematico e con il più circoscritto scopo di verificare, sotto una pluralità di angoli visuali, le ricadute del decorso del tempo.
L’interesse nasce – oltre che dalla considerazione, scontata, per la quale la durata di qualsivoglia procedimento finisce, specie negli ambiti “sensibili”, con il condizionare, fino a neutralizzarla, l’effettività della risposta di giustizia, ovvero, al contrario, a stravolgerne il senso e la funzione – dalla poliedricità ed eterogeneità delle interazioni che, nel panorama italiano ed internazionale, connettono il naturale divenire e l’esercizio della giurisdizione; senza dimenticare, d’altro canto, che lo scorrere degli anni può far sorgere e consolidare, invece che estinguere, situazioni giuridiche della cui salvaguardia occorre discutere.
Se questo è il raggio di azione, non sorprenderà che la Rivista si sia, innanzitutto, interessata dell’istituto della prescrizione penale che, precludendo la definizione del procedimento con un accertamento sul merito della pretesa punitiva, certifica, in qualche misura, la sconfitta dell’ordinamento e che costituisce oggetto, immediato o riflesso, di alcuni dei contributi qui raccolti, a partire da quello di Paolo Ferrua, dedicato al principio della ragionevole durata del processo.
Ferrua, criticate le ricostruzioni dell’istituto consacrato nell’art. 111 Cost. che ne esaltano, in dichiarato ossequio alla sua matrice convenzionale, la dimensione soggettiva di diritto vantato dall’individuo nei confronti dei pubblici poteri, gli assegna un concorrente, e per certi versi preminente, ruolo di garanzia oggettiva di buon funzionamento della giustizia.
È al legislatore che, in questo contesto, spetta contemperare i valori, di rango costituzionale, che vengono in rilievo, senza cadere nella tentazione di sterilizzare, qualificandole come abusive, condotte finalizzate all’utilizzo, in chiave dilatoria, delle garanzie riconosciute alla difesa.
Un tema, quello del rapporto tra etica professionale e ragionevole durata del processo penale, che Ferrua analizza, dunque, dal coté di una impostazione accademica laica e liberale: ben più radicale è, invece, l’intervento di Cataldo Intrieri, convinto che l’adozione di un punto di vista meno inquinato da luoghi comuni e letture conformistiche conduca ad esiti sorprendenti in ordine alla lentezza del procedimento penale prima ancora che alla sue cause.
Dal punto di vista dell’avvocato, il processo corre a due velocità grazie, nella sostanza, ad un uso francamente eccessivo della custodia cautelare dal quale discendono, a cascata, inesorabili accelerazioni – come, ad esempio, nel caso del cd. «giudizio immediato cautelare» – che incidono sulla tempestività e la completezza dell’accertamento.
Lo spauracchio della prescrizione, seppure riferito ad un problema endemico e reale, viene agitato, secondo questa linea di pensiero, in modo improprio, quando non addirittura per celare l’irresistibile tentazione a mantenere margini per operare, tra le notizie di reato, una selezione solo formalmente rispettosa del canone di obbligatorietà dell’azione penale e volta, al di là delle apparenze, a mantenere preziosi margini di manovra.
Non si sottrae al confronto dialettico a tutto campo, anche su questi profili, Giuseppe Battarino che, rifuggendo da un approccio anche solo latamente militante e fideistico, enuclea i sentieri, a volte stretti ed impervi, attraverso i quali è a suo modo di vedere possibile, a legislazione data e non valicando il perimetro di accettabili punti di riferimento teorici, recuperare spazi di efficienza alla giurisdizione e sottrarla allo spreco di attività nel quale tante volte si risolve una pronunzia di prescrizione.
Ciò, muovendo, sul piano teleologico, da una visione incentrata sulla riconducibilità dei singoli snodi procedimentali ad un unico fine e, su quello culturale e di politica del diritto, dalla promozione di prassi e comportamenti che, evitando il rischio connesso alla segmentazione ed all’autoreferenzialità, assecondino la condivisione di obiettivi e strumenti tra i diversi soggetti, siano essi interni o meno all’ordine giudiziario, coinvolti nell’agone processuale; nel sincero auspicio – scrive Battarino – che un’apertura di fiducia nell’alveo della correttezza possa essere ripagata in migliore efficienza e risparmio di tempi e nel parallelo convincimento che l’agire giudiziario razionale costituisca unico efficace antidoto rispetto a derive colpevolmente lassiste o, al contrario, inutilmente efficientistiche.
Discorso a parte merita un profilo del tutto peculiare del modus operandi della prescrizione, che attiene alla decorrenza della causa di estinzione del reato nel settore degli illeciti penali ambientali, più di altri connotato dalla naturale diluizione nel tempo delle condotte tipiche e dei loro effetti.
È Alberto Aimi ad occuparsi del tema o, meglio, di come esso è stato declinato lungo il corso del noto e tormentato procedimento penale relativo agli effetti pregiudizievoli, segnatamente per la salute umana, derivati dalla produzione e dalla diffusione nell’ambiente del materiale commercialmente conosciuto con il nome di Eternit.
La puntuale esposizione e disamina critica delle importazioni via via privilegiate dagli organi, requirenti e giudicanti, che si sono pronunziati sul caso fa da preludio a conclusioni in cui la sostanziale condivisione della soluzione adottata dalla Corte di cassazione – che ha temporalmente collocato la consumazione del reato e, quindi, l’inizio della decorrenza della prescrizione in epoca tale da aver determinato l’estinzione del reato già prima dell’emissione della sentenza di primo grado – si accompagna alla denunzia della necessità di un intervento riformatore che si appunti, oltre che sulla determinazione della quantità di tempo necessario a provocare l’effetto estintivo, sulla specificazione delle regole deputate all’individuazione del momento dal quale il tempo della prescrizione deve essere computato, all’attualità ancorate a categorie – quelle, rispettivamente, del reato « tentato», «consumato» e «permanente» – cui se ne sono aggiunte, nella prassi altre, quali quelle del reato «a consumazione prolungata» o «reato abituale», per le quali è quantomeno opportuno individuare il momento di iniziale decorrenza della prescrizione.
Le interazioni tra tempo e pena costituiscono il main focus della riflessione di Riccardo De Vito, che le iscrive nella cornice del paradigma della risocializzazione indicato all’art. 27, comma 3, Cost. e nella conseguente creazione di un giudice, il magistrato di sorveglianza, deputato a seguire, lungo il corso, appunto, del tempo, l’esecuzione della pena e la persona che la patisce.
Enucleata la genesi storica della sanzione detentiva e della sua commisurazione temporale, De Vito – che non manca di segnalare, tra l’altro, la necessità di considerare l’incidenza sul piano esecutivo della durata dei processi penali e, correlativamente, dei termini di prescrizione – si interroga sulle attuali connotazioni e sugli effetti dello scorrere del tempo dentro il carcere, traendone il convincimento che ampia sia la distanza dell’istituzione dalla promessa costituzionale e siderali siano, del pari, le differenze tra l’ambiente intramurario e quello esterno.
Di qui si dipanano le proposte, già presenti nel dibattito scientifico e valorizzate anche in prospettiva riformatrice, per una penalità meno incentrata sul carcere, da utilizzarsi solo quale risposta alla criminalità più grave, e che apra il campo a scelte che indirizzino la pena verso terreni diversi dalla logica della mera separazione del condannato dalla società.
Non poteva mancare, all’interno di un approfondimento sui temi del rapporto tra tempo e diritto e della prescrizione, l’analisi, affidata ad Alberto Macchia, sui riflessi sistematici del dibattito innescatosi in conseguenza della nota sentenza «Taricco» della Corte di giustizia dell’unione europea, di recente culminato nella proposizione, da parte della Corte costituzionale, di apposita domanda di decisione pregiudiziale.
Si tratta di un terreno sul quale si intersecano considerazioni di valore, quali quelle legate alla concreta attitudine della disciplina interna della prescrizione a generare un effetto frustrante sul piano della effettività e dissuasività dell’apparato sanzionatorio, e riflessioni di portata più generale, che afferiscono alla natura dell’istituto, condizionata dalla sua genesi e dall’evoluzione storica ma, nondimeno, ritiene Macchia, tuttora contendibile, quantomeno in chiave di riforma.
Ed è proprio in quest’ottica che, preso atto delle più significative défaillances del sistema, si muovono le proposte più appropriate, a partire da quella che esclude l’operatività della prescrizione dopo l’emissione della sentenza di primo grado.
Il riferimento al contesto sovranazionale accomuna, poi, gli interventi dedicati, rispettivamente, al rispetto del principio di ragionevole durata del processo da parte delle Corti europee ed ai più rilevanti arresti in tema di diritto all’oblio.
Francesco De Santis di Nicola apre, da un canto, una interessante finestra sul mondo della Corte di giustizia dell’unione europea e di quella Edu e sul loro atteggiamento – che risulta, almeno in parte, diverso per ciascuno degli organi giurisdizionali – rispetto al problema dell’eccessiva dilatazione della durata dei procedimenti ivi introdotti.
I giudici del Lussemburgo, infatti, hanno di recente affermato, con una serie di pronunzie, il diritto della parte processuale al risarcimento dei danni provocati dal superamento del délai raisonnable, così introducendo un meccanismo connotato da non marginali analogie con quello disegnato, in Italia, dalla cd. «legge Pinto».
Sul piano esclusivamente organizzativo si pone, invece, la risposta approntata dalla Corte di Strasburgo, sprovvista di strumenti processuali atti a verificare la ragionevolezza della durata dei procedimenti colà promossi e tuttavia impegnata in un’azione di razionalizzazione e semplificazione – non priva di controindicazioni, per come evidenziato dalla prassi – finalizzata a concentrare le risorse nell’esame delle questioni più significative e, comunque, a contenere i tempi delle decisioni.
Nella cornice europea si iscrivono, ugualmente, i contributi di Roberto Pardolesi ed Alice Pisapia, aventi ad oggetto il cd. diritto all’oblio – espressione che, a riprova della riconducibilità degli argomenti trattati in questo obiettivo ad un minimo comune denominatore, è stata utilizzata, anche dalla Corte costituzionale, con riferimento al tema della prescrizione penale – specificamente inteso alla stregua di diritto dell’individuo a non vedere pubblicate alcune notizie relative alla propria identità rispetto alle quali è ormai trascorso un notevole torno di tempo.
Punto di partenza dell’analisi è la nota sentenza Google Spain della Corte di giustizia dell’unione europea, pervenuta ad approdi nei cui confronti Pardolesi mostra di nutrire più di una perplessità, specie nella misura in cui penalizza l’attività svolta dal motore di ricerca piuttosto che quella di chi ha immesso l’informazione sul web; così come non appaiono scevre di contraddizioni, quando non addirittura di conseguenza paradossali, le decisioni di legittimità e di merito intervenute sul versante nazionale.
Sullo sfondo, si staglia la necessità di adeguare senza stravolgerne l’impostazione, alla luce della rivoluzione digitale, la riflessione su valori eterni e temi classici quale, in primis, quello della tensione tra l’aspirazione dell’individuo alla privacy e l’interesse pubblico alla circolazione dell’informazione, sottesa, da ultimo, alla pronunzia resa dalla Corte di giustizia dell’unione europea il 9 marzo 2017 in materia di conservazione dei dati inseriti nel registro delle imprese e, quindi, di contemperamento tra il diritto all’oblio e le esigenze di trasparenza connesse al corretto funzionamento dei mercati.
Alice Pisapia, dal canto suo, pone attenzione, oltre che all’indirizzo espresso dalla Corte Edu, alla più recente normativa eurounitaria (il riferimento attiene al Regolamento n. 679/2016, la cui entrata in vigore è fissata all’aprile 2018), che ha reso più stringente la tutela del diritto ad ottenere la rettifica o la cancellazione dei propri dati personali e la cui efficacia dovrà, però, essere testata in ragione dell’utilizzo che ne faranno, innanzitutto, i giudici nazionali, cui resta demandata, in ultima analisi, la garanzia di questo come di ogni altro diritto fondamentale.
Altrettanto significative sono le ricadute della relazione tempodiritto nel settore civile, ove il tempo necessario per ripristinare l’equilibrio alterato dall’illecito, sia esso contrattuale o meno, costituisce non occasionale veicolo di consolidamento dell’asimmetria anziché del suo superamento, specie nelle articolazioni della giurisdizione connotate, come in ambito lavoristico, dalla diversa forza negoziale delle parti.
Del tutto peculiare è, del resto, la relazione tra scorrere del tempo ed incidenza dell’intervento giurisdizionale nelle materie, quale quella delle persone e della famiglia, in cui la dimensione fattuale, con la sua continua, inarrestabile ed irreversibile evoluzione, si impone e prevale su quella giuridica.
L’orizzonte civilistico fa da sfondo agli interventi di Giacomo Travaglino e Remo Caponi.
Travaglino si impegna in una speculazione a tutto campo, intesa, innanzitutto, a verificare se ed in quale misura il volto della prescrizione estintiva sia mutato rispetto alla sua configurazione tradizionale.
Puntuali riferimenti alle origini dell’istituto sono il preludio al richiamo alla sua dimensione sostanziale, privilegiata a fronte delle ricostruzioni più inclini ad esaltare ricostruzioni di stampo processualistico, cui segue l’analisi dei caratteri morfologici della fattispecie.
Si perviene, per tale via, al cuore della riflessione, volta a scrutinare gli effetti che la contemporanea ottica di tutela del contraente debole e del danneggiato ha prodotto sulla prescrizione quale presidio di esigenze di certezza del diritto.
Il quadro che emerge, filtrato alla luce degli orientamenti della giurisprudenza interna e, soprattutto, sovranazionale, si connota, rileva Travaglino, per la tendenza al superamento della questione volta a comprendere se i termini prescrizionali riguardino l’estinzione del diritto o l’improponibilità, imponendosi, piuttosto, una prospettiva imperniata sull’obiettivo di garantire l’effettività della tutela rimediale.
Sostanzialmente inesplorato rimane, nel contesto dell’obiettivo, il tema della relazione tra il tempo del processo e quello della decisione e, in particolare, delle conseguenze prodotte da spinte volte, al fine di ottenere un verdetto il più rapido possibile, a contrarre i tempi dell’accertamento giurisdizionale e della pubblicazione dei motivi della decisione.
La questione involge le politiche di degiurisdizionalizzazione e la tendenza alla sommarizzazione dei riti; ad essa non è aliena quella, pure di primario interesse, ricorrente a fronte di processi penali di grande rilevanza sociale o particolarmente seguiti dai media, che involge la ricerca di soluzioni che consentano all’opinione pubblica di cogliere le ragioni essenziali di una decisione, senza attendere i tempi, necessariamente lunghi per il deposito dei motivi.
Al riguardo, è stata proposta una sorta di comunicazione sintetica ed informale dei motivi, contestuale alla lettura del dispositivo, finalizzata a prevenire le polemiche che spesso si scatenano, ancora prima di conoscere i percorsi argomentativi del giudice, nella pendenza dei termini per il deposito delle motivazioni.
L’indagine di Caponi è dedicata al giudicato civile ed ai limiti della sua intangibilità, da rivedersi alla luce della crisi della tradizionale idea che la sentenza definitiva di merito è l’unico mezzo per l’accertamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio e della conseguente irrilevanza della sentenza ingiusta.
Caponi, sebbene convinto del rango costituzionale dei valori a cui presidio si pone il giudicato, rileva, così rivedendo, almeno in parte, un suo precedente convincimento, che, al cospetto di diversi, concorrenti, valori tutelati dalla Costituzione, il bilanciamento possa operarsi nel senso di un cedimento del giudicato.
Un tema, questo, che assume nuove sfumature nella dimensione internazionale e sovranazionale, caratterizzata dall’intervento di altre Corti giudiziarie, come dimostrato, di recente, dal caso «Taricco».
La constatazione della crisi del giudicato e dunque dell’idea che vi siano decisioni definitive, che durino nel tempo, è l’anello di congiunzione con un’ulteriore declinazione della questione dei rapporti fra tempo e diritto.
Concludendo questa introduzione, ricordiamo che con l’obiettivo abbiamo affrontato il tema del tempo nel diritto, ossia della diversa efficacia che il tempo possa avere come fattore di creazione o di estinzione di diritti.
Residua quello, ulteriore ed in certo senso speculare, del diritto nel tempo, ossia dei modi e dell’opportunità che le regole giuridiche mutino con il tempo.
La legislazione insegue la realtà empirica, sempre più velocemente mutevole. Esiste, nondimeno, un nocciolo duro che deve resistere alla continua novella legislativa, indifferente alle necessità (se non alle ansie) riformatici? La rigidità degli ordinamenti (e delle Costituzioni sulle quali si fondano) è un freno all’efficienza del sistema od una garanzia a fronte della tirannia della maggioranza del momento?
Il rapporto fra legge e tempo è storicamente regolato secondo il principio per il quale la legge successiva modifica o sostituisce quella precedente, con il noto limite garantista che giammai potrà incriminare o sanzionare condotte precedenti alla sua entrata in vigore.
Negli anni più recenti, tuttavia, è emersa preponderante la produzione normativa di matrice giurisprudenziale. Al tema abbiamo dedicato tutto l’ultimo numero del 2016. Ci chiediamo, però, quanto debba consolidarsi e rimanere costante nel tempo un orientamento giurisprudenziale perché assuma il valore di fonte. È il tema che ci ha consegnato la Corte costituzionale italiana, dopo la sentenza «Varvara» della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Ancora, ci domandiamo cosa accade se l’incriminazione di una condotta discende, non già da una novella legislativa, ma dal consolidarsi di una diversa interpretazione della medesima norma. Anche in questo caso, l’interrogativo è provocato da quanto la Corte europea dei diritti dell’uomo ha deciso nel caso «Contrada».
Per ora è opportuno sollecitare il dibattito; presto, torneremo ad affrontare questi argomenti in modo organico, in un ideale seguito di questo obiettivo.