L’ombra del tempo e (il diritto al)l’oblio
Il diritto all’oblio ha due anime, entrambe di origine giurisprudenziale. L’una di impronta eurounitaria, l’altra con respiro domestico. Per chi vi si accosti sull’abbrivio dell’etichetta comune, la tentazione naturale è di risolverle in un tutt’uno. Ma l’operazione finisce per avvitarsi nelle spire di corrispondenze che non s’incastrano. La sola convergenza a non sollevare dubbi è la centralità del tempo.
1. Il diritto all’oblio ha due anime, entrambe di origine giurisprudenziale. L’una di impronta eurounitaria, l’altra con respiro domestico. Per chi vi si accosti sull’abbrivio dell’etichetta comune, la tentazione naturale è di risolverle in un tutt’uno. Ma l’operazione finisce per avvitarsi nelle spire di corrispondenze che non s’incastrano. La sola convergenza a non sollevare dubbi è la centralità del tempo. Anche questa, però – e lo si scoprirà fra un momento –, è percepita diversamente.
2. La versione eurounitaria ha, per la verità, origini spagnole. Perché è proprio l’attività dell’autorità iberica per la protezione dei dati, a partire a un dipresso dal 2010, a tradursi, già l’anno successivo, in oltre novanta ingiunzioni a carico di Google perché provvedesse a rimuovere i links ad articoli di stampa. Di lì, e di rimbalzo, numerose istanze giudiziarie innanzi all’Audiencia Nacional[1]. Una di queste prese la via del Lussemburgo, da dove comincia questo capitolo della nostra storia.
La sentenza della Corte di giustizia nella causa Google Spain SL e Google c. Agencia Española de Protección de Datos e Costeja González[2] sta per il principio a tenore del quale, trascorso un certo lasso di tempo dagli avvenimenti che l’hanno vista, volontariamente o meno, nel ruolo di protagonista, la persona i cui dati figurano su una pagina web, anche se non c’è nulla da obiettare sulla pubblicazione in quel sito, può rivolgersi ai gestori dei motori di ricerca per impedire che l’utenza possa servirsi di tali strumenti per trovare la notizia, da mettere in quarantena perché non più attuale. Più prosaicamente: esiste il diritto a che il proprio nome non sia associato da una ricerca in rete a un qualche risultato, evento, circostanza; diritto che si traduce, operativamente, in quello alla de-indicizzazione, de-listing, del risultato (dunque, se non al suo oscuramento parziale, ad una sorta di «removal of visibility» ai fin di una reperibilità decisamente più difficoltosa).
La pronunzia è assurta al rango di blockbuster. A voler dar conto della letteratura ch’essa ha innescato si riempirebbero pagine e pagine[3]: senza nascondere che a questo profluvio di riflessioni ha contribuito anche chi scrive. Meglio, allora, dare tutto per scontato e passare senz’altro al versante della ricostruzione critica[4]. Con una doverosa premessa. L’acquis communautaire va preso sul serio, in tutte le sue articolazioni. Non soltanto, quindi, quelle normative. Sottovalutare gli apporti dei giudici del Kirchberg sarebbe un errore imperdonabile: in effetti, l’«ircocervo mite» – mi si passi l’irriverenza con cui soglio riferirmi alla Cgue – esercita, in forza dell’art. 234 Tfue, una «benevolenza sapiente», in una logica di cooperazione virtuosa col giudice interno, che comunque esita in una res interpretata sostanzialmente vincolante. Questa tecnica, con tutte le sue ambiguità, ha comunque propiziato contributi vigorosi, cui si devono significative rimeditazioni di luoghi comuni apparentemente sedimentati. Eppure, non è oro tutto ciò che promana dal Lussemburgo. Mi sottraggo alle regole letterarie e anticipo la conclusione sul punto: la sentenza Google Spain ha introdotto nel nostro sistema un legal irritant, che porta alle estreme conseguenze le contraddizioni irrisolte della corsa alla protezione dei dati personali[5].
2.1. Riprendiamo le fila del discorso svolto dalla Corte, a partire dal punto in cui non solo si riconosce che il motore di ricerca opera un trattamento autonomo dei dati – e fin qui non c’è di che sorprendersi, posta l’estrema latitudine della definizione di trattamento, in ragione della quale qualunque attività abbia in qualche modo a intercettare risvolti (e diritti) della persona rifluisce nel perimetro applicativo della disciplina sulla privacy informazionale[6] –, ma gli si attribuisce un ruolo sovraordinato. Più in chiaro. Se si sgancia l’attività del motore di ricerca dalla massa magmatica ch’esso sistematicamente scandaglia, si apre alla possibilità che la valutazione di (il)liceità del suo operato sia indipendente da quella relativa al sito sorgente dove l’informazione originaria è contenuta. Si prospetta, così – e non senza sgomento –, un’illiceità a geometria variabile, dove la notizia ingrata per l’interessato campeggia a pieno titolo nel database sorgente (nell’archivio del giornale che l’ha pubblicata a suo tempo; nel registro delle imprese[7]), ma si ammanta di negatività non appena venga catturata dal crawler del Google di turno e, per questa via, messa a disposizione degli utilizzatori del motore di ricerca.
Beninteso, c’è già una qualche difficoltà concettuale ad ammettere che il motore di ricerca ci metta del suo, posto che, per definizione, esso si limita a far approdare sulla schermata dell’utilizzatore quanto abbia raccolto nelle sue ricognizioni della rete. Ma, anche accogliendo l’idea che questa passività meccanicistica possa essere superata in nome del ranking stabilito dall’algoritmo (o, più brutalmente, del fatto che l’informazione è resa disponibile in un luogo digitale diverso dal sito di origine), resta il disagio prodotto dal paradosso in virtù del quale la riedizione di rimbalzo della notizia incorre nella contrarietà al diritto, mentre vi si sottrae la sua versione originale: un po’ come opinare che non incorra nei rigori della legge la pubblicazione di un articolo su un quotidiano, laddove vi incappa la sua riproposizione in una rassegna stampa. Viene così profilandosi un’ipocrisia discriminatoria, in ragione della quale l’immediata disponibilità del dato preoccupa molto di più della sua disponibilità tout court: poco importa, dunque, che l’informazione sia comunque accessibile, basta che non sia a portata di un click del vostro computer. Dove si scopre, per altra e inopinata via, che – come insegnava a suo tempo Marshall McLuhan – il medium è il messaggio; meglio, che la stessa ossessione, la quale in positivo induce a ritenere che o si figura nei primi tre posti dei risultati della query o non si esiste, in negativo porta a ravvisare, nell’emersione di un dato che non ci attalenta, una sorta di lettera scarlatta digitale.
Per un verso, prende così corpo l’aspirazione – teorizzata già da Joseph Kohler un secolo e mezzo fa – ad assumere il controllo dei dati riguardanti la propria persona, con la connessa tentazione di realizzare un’agiografia del sé; per l’altro, si mortifica la logica del diritto all’informazione, perché, piuttosto che stabilire l’illiceità della diffusione dell’informazione, la si bandisce, o quasi, per il quisque de populo, lasciandola impregiudicata per chi abbia i mezzi di andarla a reperire ov’essa risiede lecitamente.
Questo regime schizofrenico appare disperatamente incongruo. Il world wide web è là, con tutti i suoi prodigi e relativi gorghi. Il motore di ricerca non è il banditore inconsulto di accadimenti che vorremmo seppellire; funge, piuttosto, da filo di Arianna nel labirinto digitale, filo che permette di orientarsi, ma non muta l’ecosistema ch’esso aiuta ad attraversare[8]. Paralizzarlo nel segno di idiosincrasie private non è diverso dal censuralo perché non racconta la storia che si assume corretta. Messa diversamente: non è l’indice analitico dell’opera, quello che consente di risalire a quanto stiamo cercando, a influenzare, nel bene o nel male, il risultato dell’indagine; e non si va lontano dal vero con l’immaginare che il search engine funzioni come un indice analitico, ancorché in chiave dinamica. La notizia è comunque là, attingibile in ragione del regime che la governa (sì che, se davvero si aspira a limitarne la circolazione, è quello il reale livello d’intervento).
2.2. Ancor più inquietante, se possibile, il bilanciamento d’interessi pre-impostato dalla Cgue.
In estrema sintesi. La sentenza Google Spain sta per: a) la cannibalizzazione dell’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, ad opera del successivo art. 8, sulla protezione dei dati personali (nel solco dell’eugenetica dei diritti della personalità, propiziata dalle marea montante di leggi sulla privacy informazionale); b) per l’applicazione diretta del su citato art. 8, tramite il rinvio all’art. 6, lett. c) e d) della direttiva 95/46, in ragione del quale i dati personali devono essere adeguati, pertinenti e non eccedenti le finalità del trattamento, nonché esatti e se necessario, aggiornati (ove, per l’appunto, il diritto all’oblio transita attraverso il crivello primigenio di un qualche uso scorretto dei dati personali). La pronuncia, infatti, paventa dati inadeguati, non (più) pertinenti, eccessivi, non aggiornati, conservati troppo a lungo (e, quindi, deperiti?). Insomma, e faticosamente, s’ingegna di divisare una formula magica in termini di improprietà diacronica sopravvenuta: «[…] anche un trattamento inizialmente lecito di dati esatti può divenire, con il tempo, incompatibile con la direttiva suddetta[9]».
Sulla praticabilità di questa traiettoria torneremo fra un momento. Qui conviene sottolineare come questa impostazione preluda ad un bilanciamento fortemente compromesso degli interessi in gioco. Va da sé che di una valutazione incrociata di tal fatta non si possa fare a meno, data la materia con cui ci si misura: con tutti i rischi di paternalismo che vi sono inevitabilmente connessi. Ma spingersi oltre e preconizzare gli esiti di quel bilanciamento è impresa assai più rischiosa. Se si può ragionevolmente convenire che l’interesse della persona a “nascondere” o “modulare” la propria presenza in rete sia normalmente destinato a prevalere su quello economico del gestore del motore di ricerca, appare assai più questionabile la pretesa che analoga prevalenza debba presumersi nei confronti dell’interesse di chi cerca l’informazione. Eppure, la Corte non sembra nutrire dubbi al riguardo: «i diritti fondamentali di cui [agli art. 7 e 8 cit.] prevalgono, in linea di principio, […] anche sull’interesse di tale pubblico a trovare l’informazione suddetta in occasione di una ricerca concernente il nome di questa persona[10]».
Prescindendo, per un attimo, dal temperamento introdotto subito dopo, vien fatto di ipotizzare che la Corte traduca il bilanciamento in un confronto tra l’idiosincrasia dell’interessato (e la sua aspirazione a costruire il profilo con cui vuole apparire al prossimo, sino a lasciar spazio, come qualcuno ha sarcasticamente rilevato, solo ad authorized biographies, per definizione risolutamente sanitized) e la morbosità di chi accede per caso a un bagaglio informativo e apprende notizie che suonano come gossip. Sennonché, per questa via si va oltre il segno: se tale fosse davvero la linea prevalente, dovremmo rassegnarci all’eclisse dei media. Mentre l’art. 11 di quella medesima Carta riconosce dignità di diritto fondamentale anche alla manifestazione del pensiero, includendovi «la libertà di ricevere o comunicare informazioni o idee»; e il fatto che questa libertà possa essere sfruttata malaccortamente non toglie ch’essa sia uno dei pilastri della nostra organizzazione sociale e democratica. Nulla, dunque, che si possa pretermettere semplicemente perché l’euristica della disponibilità porta in primo piano le incursioni di chi spigola nel mucchio col solo scopo di soddisfare curiosità men che edificanti. Il diritto ad essere informati si fonda su esigenze generali, non sulle sbavature di margine, che vanno sì corrette, ma non a colpi di scure sull’informazione. Eppure proprio a questo eccesso porta la sentenza, là dove mette in chiaro che l’implementazione del diritto all’oblio prescinde dalla natura pregiudizievole dell’informazione che l’interessato vuole deindicizzare. Quanto dire che, agli occhi della Corte di giustizia, l’idiosincrasia personale e l’auto-indulgenza dominano il campo.
Col solo correttivo del carattere pubblico del personaggio[11]. Perché allora, si spiega in sentenza, «l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall’interesse preponderante del pubblico suddetto ad avere accesso, mediante l’inclusione summenzionata, all’informazione di cui trattasi[12]». Troppo poco, troppo semplice[13]. Ma una scelta così draconiana non sembra scalfire le certezze del giudice europeo.
2.3. Per inciso, i riferimenti normativi su cui fa leva la sentenza si rivelano alquanto labili. La pretesa inadeguatezza del dato, derivante dallo scorrer del tempo, si scontra con la sua incontestabilità nel sito di origine. E la situazione non è destinata a migliorare col nuovo Reg. europeo n. 2016/79 (in vigore dal 25 maggio 2016, ma caratterizzato da una disperante «efficacia solo parzialmente differita»[14], in forza della quale la disciplina comincia a dispiegare da subito taluni suoi effetti, ma non abroga la direttiva 46/95 fino al 25 maggio 2018, anche se ne condiziona sin d’ora, in via ermeneutica, l’applicazione), che pure prevede, all’art. 17, un’espressa disciplina del diritto all’oblio, sub specie di diritto alla cancellazione. Vi si legge, infatti, che l’interessato può chiederla quando i dati non siano più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti, oppure siano stati trattati illecitamente, etc., senza sostanziare in alcun modo la “deperibilità speciale” da emersione nel motore di ricerca e, anzi, dettando in maniera puntuale le circostanze in cui l’istanza non può essere accolta.
Delle due, l’una. O il dato è disponibile across the board, oppure si deve intervenire alla fonte sulla sua ostensibilità, immaginando che si possano dare ragionevoli giustificazioni al suo accesso. Tutto, insomma, meno che un regime a due facce contrapposte per la stessa fattispecie.
2.4. I contraccolpi della sentenza sono stati clamorosi. Si è scatenata una saga dell’amnesia forzosa in salsa digitale, una versione millenaristica delle memory holes di orwelliana memoria. I numeri alluvionali delle richieste di de-listing mettono in seria discussione il diritto a ricordare[15] (anche se, poi, serpeggia il convincimento che la rete non dimentichi mai). Ma, guardando al nostro quadrante domestico[16], la ricezione giurisprudenziale della versione digitale del diritto all’oblio esibisce indizi di cauta titubanza. Nel primo caso di cui si è avuta notizia[17], il Tribunale di Roma, a fronte della richiesta di deindicizzazione di quattordici links (poi ridotti a una decina), si sottrae alle suggestioni dell’insegnamento euro-unitario schermandosi dietro la brevità del «tempo trascorso» e la conseguente attualità della notizia. L’indagine, relativa a vicende del 2012/2013 (che avevano visto l’attore coinvolto unitamente ad altri personaggi romani, alcuni esponenti del clero ed altri ricondotti alla criminalità della cd. banda della Magliana, relativamente a presunte truffe e guadagni illeciti) è recente, «di sicuro interesse pubblico, (...), verosimilmente non ancora conclusa, stante la mancata produzione da parte dell’istante di documentazione in tal senso»; i dati personali risultano trattati nel pieno rispetto del principio di essenzialità: «nell’ottica del (...) menzionato bilanciamento, l’interesse pubblico a rinvenire sul web attraverso il motore di ricerca gestito dalla resistente notizie circa il ricorrente deve prevalere sul diritto all’oblio dal medesimo vantato». Si obietterà che il diniego di rimozione dei links è poco significativo, perché condizionato dalla mancata ricorrenza, nel caso di specie, dei presupposti del diritto dell’oblio. Ma non si può dire altrettanto del passaggio in cui il tribunale capitolino smentisce la tesi dell’autonomia del trattamento dei dati, ad opera del motore di ricerca, rispetto a quello nel sito sorgente. Il ricorrente, si osserva, non ha titolo a dolersi dell’eventuale falsità delle «notizie riportate dai siti visualizzabili per effetto della ricerca a suo nome, non essendo configurabile alcuna responsabilità al riguardo da parte del gestore del motore di ricerca (nella specie, Google), il quale opera unicamente quale caching provider ex art. 15 d.lgs 70/03»; in effetti, egli «avrebbe dovuto agire a tutela della propria reputazione e riservatezza direttamente nei confronti dei gestori dei siti terzi sui quali è avvenuta la pubblicazione del singolo articolo di cronaca, qualora la predetta notizia non sia stata riportata fedelmente, ovvero non sia stata rettificata, integrata od aggiornata coi successivi risvolti dell’indagine, magari favorevoli all’odierno istante». Di scorcio, vien fatto di osservare che il giudice capitolino non sembra punto disposto ad avallare una richiesta di rimozione dei links che non sia legata ad un qualche pregiudizio ai diritti della personalità dell’interessato; traluce, sembrerebbe, una palpabile sintonia col monito, intimato di recente dalla Corte di legittimità, che «[i]l diritto ad esigere una corretta gestione dei propri dati personali, pur se rientrante nei diritti fondamentali di cui all'articolo 2 Cost., non è un totem al quale possano sacrificarsi altri diritti altrettanto rilevanti sul piano costituzionale[18]»
Più vicino all’ortodossia comunitaria una recente pronuncia del Tribunale di Milano[19], che accredita l’idea di motori di ricerca capaci di fornire «informazioni diverse ed assai più invasive rispetto a quelle fornite dai siti sorgenti» (affermazione implausibile, con la quale, in realtà, si allude non già ad un contenuto diverso, quanto alla maggiore accessibilità del dato), senza però praticarla, posto che, nel caso concreto, l’originaria pubblicazione era stata rimossa, a seguito di accordo transattivo, dall’archivio storico del quotidiano (salvo rifluire in un blog esterno e di lì rimbalzare nella ricerca di Google. Per altro verso, mette conto rimarcare come, piuttosto che fondarsi sull’obsolescenza delle informazioni (che era stata negata da Google nel procedimento seguito alla richiesta di de-listing, come pure dal Garante per la protezione dei dati), la pronuncia meneghina preferisca far leva sul carattere non veritiero, e perciò sostanzialmente diffamatorio, dei dati oggetto di contesa: di qui, si direbbe, l’impulso a sciogliere il nodo del bilanciamento tra oblio e informazione nel senso della prevalenza del primo, in vista dell’inaffidabilità, nella specie, della seconda. Il che, tutto sommato, sembra confermare la riluttanza dei nostri giudici ad avallare una precostituzione valutativa in favore dell’istanza di de-indicizzazione, a prescindere da un qualsiasi vulnus, alla sfera della personalità del soggetto interessato.
A queste due pronunce se ne potrebbero affiancare altre, che pure evocano i dicta degli eurogiudici[20]. Ma non si tarda a scoprire che quelle pronunzie appartengono a un’altra tradizione giurisprudenziale, cui conviene ora rivolgere l’attenzione. Con un’avvertenza: tracciare una linea discretiva sulla base della ricognizione dell’esistente non implica che il reale sia razionale. Solo che lo steccato non si supera facendo di tutte le erbe un fascio, magari evocando il succedersi di diverse stagioni dello stesso istituto giuridico. Le due anime, cui si cennava in esordio, esprimono “filosofie” diverse e, al fondo, conflittuali.
3. La versione domestica del diritto all’oblio ha una storia risalente, che s’interseca (e, talora, si confonde) con quella del diritto alla riservatezza. Non a caso, e a prescindere dalla sconfinata letteratura accademica in materia, l’uno e l’altro sono il frutto di elaborazione giurisprudenziale. Il vero tratto distintivo, comunque, è inequivocabile: per il diritto all’oblio gioca un ruolo cruciale il decorso del tempo.
3.1. L’aspirazione all’oblio presuppone un pregresso di pubblicità. Quale che sia la motivazione sottostante, lusinghiera o aberrante, si ha a che fare con vicende che hanno catalizzato l’attenzione del pubblico: le luci della ribalta, alla cui invadenza ci si vorrebbe sottrarre. Si dà, dunque, un momento, t0, in cui l’Interessenabwägung si risolvea favore del diritto di cronaca, sì che l’informazione corre in piena legittimità e, magari, con grande risalto; e un altro,t1, in cui si rapportano e confrontano i medesimi interessi, ma, in ragione del tempo trascorso da t0 a t1 (e il silenzio sopravvenuto), si vuole che l’esito valutativo sia capovolto e quell’informazione non possa più circolare liberamente. Procedendo per “tipi ideali”, da rapportare a casistica emblematica, è dato prospettare due situazioni.
A partire da quella della figura pubblica che decide di ritirarsi nell’ombra, come accadde nel celebre caso Sidis[21].Non lo racconteremo – altri lo ha fatto, prima e meglio[22] –; ma la vicenda del wonder child, l’ex bambino e poi ragazzo prodigio (non solo per vocazione, ma per disperante pungolo paterno), che, approdato alla laurea in legge di Harvard (e quale altra, sennò?) e all’agognata emancipazione dalle cure genitoriali, sparisce nel nulla, per poi essere ripescato da un’indagine giornalistica del genere «where are they now?»; la vicenda di William James Sidis, dicevamo, è davvero indicativa di un’ansia di anonimato sociale che il passar del tempo colora di determinazione e, a conti fatti, sfocia nell’idea di privacy in guisa di anelito «to be let alone», a esser lasciati in pace. Quest’identificazione tendenziale induce allora a ritenere che, se c’è un proprium del diritto all’oblio, esso va cercato altrove.
L’altra articolazione tipologica (che ha riscontri assai diffusa in chiave comparativa[23]) è presto detta. Corrisponde alla pretesa di un individuo di essere dimenticato, o meglio, di non essere più ricordato per fatti che in passato furono oggetto di cronaca[24]. Essa si radica sul rilievo per cui l’interesse pubblico alla conoscenza di un fatto è racchiuso nello spazio temporale necessario ad informarne la collettività, mentre con il trascorrere del tempo si affievolisce fino a scomparire: in sostanza, con il trascorrere del tempo il fatto esce dal pubblico dominio, per riacquisire l’originaria natura di fatto privato. La prima traccia di un’impostazione così orientata si vuole rimonti a Trib. Roma 15 maggio 1995[25]; ma il suggello ufficiale viene da Cass. 9 aprile 1998, n. 3679[26], che ai tradizionali criteri di verità, pertinenza e continenza, atti a garantire la liceità della divulgazione di una notizia altrimenti diffamatoria o comunque lesiva della personalità dell’interessato[27], aggiunge quello della «attualità della notizia, nel senso che non è lecito divulgare nuovamente, dopo un consistente lasso di tempo, una notizia che in passato era stata legittimamente pubblicata», perché sussiste il «giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata». Ovvio che anche in questo caso sia in gioco un profilo attinente alla privacy, che mette comunque capo ad una valutazione comparativa con l’interesse pubblico (non a caso si avverte, sin dall’esordio, che ove «il fatto precedente per altri eventi sopravvenuti ritorn[i] di attualità, rinasce un nuovo interesse pubblico alla informazione – non strettamente legato alla stretta contemporaneità fra divulgazione e fatto pubblico – che si deve contemperare con quel principio[28])»: solo che, nella circostanza, il fattore tempo funge da ago della bilancia, ricordando la saggezza pratica dei giornalisti che vedono nella notizia una merce che invecchi in fretta e perde man mano di rilevanza (consentendo, quindi, di valorizzare le istanze contrapposte di tutela della persona).
Quest’epifania del diritto all’oblio, in contrapposizione dialettica alla libertà di manifestazione del pensiero sub specie di diritto di cronaca, può dirsi oggi saldamente ricevuta[29], anche se, come si vedrà tra un momento, i risvolti applicati risultano, per certi risvolti, assai controversi. Va registrata, inoltre, una strisciante tendenza a rivederne l’imprinting, che punta a una riconduzione entro il paradigma dell’identità personale.
3.2. Come si è anticipato, non è tutt’oro quel che luccica. L’elaborazione giurisprudenziale in materia di diritto all’oblio, pur nella versione matura che abbiamo testé delineato, registra sbandamenti anche vistosi.
Partiamo da Cass. 24 giugno 2016, n. 13161[30]. A una prima lettura, la sentenza sembrerebbe dettare un precetto del seguente tenore: dopo due anni e mezzo di permanenza nel sito web di un quotidiano on line, una notizia di cronaca (relativa a una vicenda giudiziaria di natura penale, non ancora approdata a definizione) ha ormai fatto il suo corso e va messa nel dimenticatoio. Precetto che suona alquanto inquietante, posto che, nell’indeterminatezza dei termini temporali idonei ad attivare il diritto all’oblio, una sua operatività in tempi così rapidi non era mai stata ventilata[31]. Ma c’è dell’altro. Nella specie, nessun’ombra si proiettava sull’originaria pubblicazione della notizia (si trattava di una storia di lame e sangue, oggetto goloso di cronaca e attenzione pubblica). Né, chiosa la Cassazione, sulla sua successiva conservazione e archiviazione informatica. La criticità riguarda «il mantenimento del diretto ed agevole accesso a quel risalente servizio giornalistico ... e della sua diffusione sul web, quanto meno a far tempo dal ricevimento della diffida ... per la rimozione di questa pubblicazione dalla rete» (rimozione che, peraltro, era sollecitamente avvenuta, nel corso del giudizio). La Corte lascia intendere che, nel bilanciamento tra diritti della personalità e diritto all’informazione, il tempo valga a rendere recessiva l’«esigenza informativa e conoscitiva dei lettori», avallando la valutazione del Tribunale per il quale «dalla data della pubblicazione fino a quella della diffida stragiudiziale [era] trascorso sufficiente tempo perché le notizie divulgate con [l’articolo] potessero soddisfare gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistica». Ciò implica che la liceità della pubblicazione, anche quando riferita a fatti di rilievo penale, abbia un elevato livello di obsolescenza (dipendente dal tipo e, quindi, dalla rilevanza sociale del crimine) e che, pertanto, buona parte dell’informazione giornalistica scivoli, col tempo, oltre i confini dell’essenzialità che garantisce immunità a chi eserciti il diritto-dovere di cronaca. Diritto che, secondo la pronunzia, vanta i suoi tre quarti di nobiltà costituzionale, ma arrugginisce in fretta, a fronte dell’aspirazione dell’interessato a che le sue tracce vengano coperte e rese inaccessibili.
Fin qui, le ragioni del dissenso rimangono, per così dire, contenute. Ma esse escono dal solco e diventano impellenti non appena si considerino le ricadute sul piano rimediale: le conseguenze dell’illecito accertato, secondo il collegio, non si fermano alla de-indicizzazione, ma si spingono sino alla cancellazione del dato. Non importa che non vi sia più illecito, che l’archiviazione sia legittima e non lasci margine per ulteriori violazioni. Il rimedio — ineluttabilmente sovradimensionato — travolge tutto e, nel segno dell’oblio violato per qualche (breve) tempo, porta alla condanna definitiva della memoria. Il difetto di proporzionalità nel risultato si coglie con più evidenza se lo si riconduce alla dimensione tradizionale del supporto cartaceo: trasponendo la direttiva della sentenza, la pagina (del giornale ormai archiviato) che reca l’articolo andrebbe strappata. Si tratta, con ogni probabilità, di una «unintended consequence» (come definire, altrimenti, la cancellazione di dati che figurano legittimamente in un archivio consentito dalla legge per fini storici?). Magra consolazione, rispetto a quando i libri si bruciavano in odio ...
3.3. Non meno plateale la deviazione impressa da Cass. 5 aprile 2012 n. 5525[32]. Nella circostanza, il ricorrente – a fronte di un articolo di cronaca, successivamente approdato nell’archivio del quotidiano, accessibile via internet, in cui si dava notizia dell’arresto in cui era incorso – non contestava la veridicità del contenuto dello scritto, né il fatto ch’esso potesse considerarsi ancora di pubblico interesse; si lagnava, piuttosto, del fatto che non recasse la notizia che l’inchiesta si era poi conclusa con il suo proscioglimento. Salta così agli occhi luce un problema delicato, che anche in altri quadranti desta preoccupazioni, per il vulnus che viene così indebitamente inflitto al «patrimonio intellettuale, etico, ideologico, professionale», in una all’identità della vittima di un gogna mediatica da informazione monca. Ma è proprio questo il punto.In situazioni del genere[33], di là dalle molte riserve suscitate dal rimedio che la corte ha inteso divisare nella circostanza[34], non è in gioco l’aspirazione a restare nel cono d’ombra che il tempo ha ispessito. Anzi, il volgere del tempo, che è il vero motore dell’oblio, risulta pressoché irrilevante, perché quello che davvero preme è l’ingiusto stigma riveniente dalla mancata rettifica dell’informazione originaria. Sennonché, in molti non sembrano essersene dati per inteso: con la conseguenza di allargare il quadro, sì, ma di diluirne la salienza. Quanto dire: un diritto all’oblio collegato all’identità personale, ma spogliato della sua identità primigenia.
3.4. Pur collegandosi idealmente a questo filone, fa storia a sé il conflitto, cui già si è accennato di scorcio in precedenza, tra aspirazione all’oblio e presenza di dati personali nel registro delle imprese, cui si riferisce Cass., ord. 15096/15, cit. All’origine della vicenda giudiziale l’azione intentata dall’amministratore unico di una società immobiliare nei confronti della Camera di commercio di Lecce, responsabile – a suo dire – di non aver provveduto a rimuovere dal registro delle imprese la menzione del suo passato quale amministratore e liquidatore di altra società, fallita nel 1992 e cancellata dal registro stesso nel 2005. Omissione dalle conseguenze gravemente lesive della sua immagine commerciale (tradottesi, a dire dell’attore, nella pratica impossibilità di vendere le unità di un complesso turistico realizzato dall’impresa a lui affidata, a causa dell’ineluttabile emersione, nel corso delle trattative, delle vicende pregresse, per effetto del “riuso” dei dati del registro ad opera di agenzie d’informazione professionale). Il Tribunale salentino avallava la richiesta, disponendo l’anonimizzazione dei dati personali dell’attore e sottolineando la dubbia utilità del permanere di quelle informazioni a tre lustri anni di distanza dalla definizione del fallimento e a due anni dall’intervenuta cancellazione della società. Di qui il ricorso per cassazione, imperniato sull’interrogativo se i dati personali, conservati per mandato legislativo dalla Camera di commercio nel Registro delle imprese, debbano essere, dopo un certo lasso di tempo, sottratti alla pubblica disponibilità.
Era, allora, il turno della Corte di legittimità, la quale sottolineava che la disciplina dell’informazione societaria[35] – e qui si radica la differenza rispetto alla contrapposizione evidenziata nelle pagine precedenti[36] – esprime una matrice obbligatoria, di ordine pubblico; valorizza, cioè, l’interesse della collettività a «conoscere taluni atti essenziali dell’impresa che attengono all’esistenza stessa di ciascun centro d’imputazione di attività economica organizzata e al suo modo di essere, tra cui in special modo le generalità delle persone che hanno il potere di obbligarle»[37]. C’era quanto bastava perché il Collegio statuisse che «l’ex amministratore e liquidatore di una società, il cui fallimento sia stato annotato nel Registro delle imprese, e successivamente chiuso con la conseguente speculare annotazione, seguita dalla liquidazione e dalla cancellazione della società dal Registro delle imprese, non ha diritto ad ottenere dalla competente Camera di commercio la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati relativi all’iscrizione delle predette cariche, rispondendo le relative iscrizioni alla funzione della pubblicità commerciale, in adempimento dei compiti pubblicistici al detto ente affidati ed in ragione della tassatività delle iscrizioni e cancellazioni degli atti dal Registro delle imprese”[38].
Sennonché, la riflessione della Corte non si chiude qui. Perché, dopo aver così argomentato, l’ordinanza rilancia il dubbio che il diritto all’oblio possa metter campo a un tempo limite per la disponibilità delle informazioni nel registro e/o a un qualche contingentamento della sua accessibilità. Ecco, allora, gli interrogativi sottoposti alla Corte di giustizia. Il primo riguarda la compatibilità con la disciplina europea in tema di privacy del sistema di pubblicità attuato dal Registro delle imprese. Il secondo rovescia inopinatamente la prospettiva: rimonta alla prima direttiva 68/151/Cee sulla pubblicità delle società di capitali (ora codificata dalla direttiva 2009/101/Ce del 16 settembre 2009) e chiede se essa lasci margine per una limitazione temporale/soggettiva della disponibilità dei dati, «in base ad una valutazione casistica affidata al gestore del dato». Un ribaltamento di approccio[39], questo, che ha profondamente condizionato la risposta dei giudici del Kirchberg.
La risposta è venuta da una pronuncia resa quando questo scritto era già composto. Corte giust. 9 marzo 2017, causa c-398/15[40] ha buon giuoco a statuire, in vista dell’affidamento dei terzi rispetto ai rischi connessi all’interazione con società di capitali, da un lato, e la consapevolezza, per le persone fisiche che agiscono per il loro tramite, circa l’obbligo di rendere pubbliche le proprie generalità, che il bilanciamento va risolto nel senso della normale prevalenza dell’interesse dei terzi alla trasparenza e al buon funzionamento del mercato interno. Insomma: niente diritto all’oblio per i dati personali iscritti nel Registro delle imprese.
Rimane, nondimeno, uno spiraglio, propiziato dall’art. 14, comma 1°, lett. a) della dir. 95/46, che facoltizza l’individuo ad opporsi in qualsiasi momento e per motivi preminenti e legittimi, al trattamento di dati che lo riguardano, salva contraria disposizione di legge. Non può escludersi, dunque, che in via eccezionale l’accesso ai dati personali riversati nel Registro possa essere limitato, dopo un lasso di tempo sufficientemente lungo dallo scioglimento della società, a chi dimostri di avere un interesse specifico alla loro consultazione. Con due precisazioni: a) perché ciò sia possibile, occorre una specifica indicazione normativa; b) l’interesse fatto valere nel caso di specie (difficoltà a vendere immobili di un complesso turistico perché i potenziali acquirenti hanno accesso, di solito mediato dalle agenzie d’informazione commerciale, al registro delle imprese e possono acquisire contezza della precedente esperienza fallimentare dell’attuale amministratore unico della società venditrice) non ha connotati di preminenza sufficienti a prevalere su quello dei terzi a disporre di tali informazioni.
La pronuncia rivaleggia con i giochi di prestigio. Ammette che, nella ruvidità dell’arena economica, per la disponibilità di certe informazioni non possono fissarsi date di scadenza; ma non si rassegna a riconoscere la subordinazione in assoluto dell’istanza a stender cortine di silenzio su un passato che non garba. La cautela esibita, nella circostanza, dalla Corte di giustizia si tocca quasi con mano, specie nel caveat (altrimenti insignificante nella sua ovvietà) disperso nella massima, dove si precisa: «allo stato attuale del diritto dell’Unione». Con una sorta di (minacciosa) riserva mentale: domani si vedrà!
4. Il diritto all’oblio – avvertivamo all’esordio – ha due anime, che non si sovrappongono. In entrambe conta il volger tempo. Ma solo nella seconda esso diventa il motore immobile – si fa per dire, perché tempus fugit in ogni caso… – della dialettica fra l’aspirazione dell’individuo alla privacy e le tante sfaccettature (destinate ad esercitare un peso volta a volta differente) dell’interesse pubblico alla circolazione dell’informazione. Vale la pena di aggiungere che questa seconda impostazione non è resa obsoleta dalla rivoluzione digitale. La rete ha stravolto le modalità, ma non i valori. L’informazione era disponibile anche prima, sia pure al costo di aprire un libro o di accedere a un archivio. E la tentazione di neutralizzarla – meglio ancora: di sopprimerla –, quando non si allinei a un qualche disegno sovraordinato è in circolo da sempre: la biblioteca di Alessandria è bruciata tre volte e mai per autocombustione. Nella prospettiva qui considerata, la novità dell’era informatica sta tutta nella maggiore percezione dell’individuo circa la sua partecipazione al processo di costruzione della “storia di sé”. I fatti sono lì, come ieri e prim’ancora. Ma appaiono più vividi nello specchio magico del monitor che interroghiamo per sapere che cosa gli altri pensano di noi. La notizia in internet non è più capillare di quella veicolata, mettiamo, dalla televisione o dal giornale a larga diffusione. Semmai, essa è contraddistinta da una latenza passiva, che però dilata la sfera della disponibilità virtuale, che sarà attivi tata dalla curiosità, volta a volta di Ulisse oltre le colonne d’Ercole o del voyeur sociale. Tutto ciò, per tagliar corto, può anche esasperare le idiosincrasie soggettive, senza che, per questo, si debba dar ingresso a un’eugenetica privata e arbitraria di quanto la collettività può ricordare. Al netto dei suoi tanti (e inevitabili) contorcimenti, il diritto all’oblio, nella sua versione time-honored – quella che declina la contrapposizione di privacy e libertà d’informazione, riallacciandosi a una tradizione risalente ma in via di continua ridefinizione –, appare in grado di fronteggiare la ricerca di equilibri accettabili anche in un mondo di nativi digitali.
[1] Per un primer giornalistico sulla crociata spagnola contro il re dei motori di ricerca (con particolare riguardo alla vicenda di Hugo Guidotti Russo, cui si farà cenno in seguito), v. M. Colchester e a., Plastic Surgeon and Net’s Memory Figure in Google Face-Off in Spain, in The Wall Street Journal, 7 marzo 2011, (www.wsj.com/articles).
[2] Corte giust. 13 maggio 2014, causa C-131/12, Foro it., 2014, IV, p. 295, con nota di R. Pardolesi e A. Palmieri, Diritto all’oblio: il futuro dietro le spalle.
[3] Provare per credere: l’Academic Commentary: Google Spain, compilato da J. Powles e R. Larsen, www.cambridge-code.org, e aggiornato a maggio 2015, conta un paio di centinaia di «entries».
[4] Nell’impossibilità pratica di adempiere l’obbligo documentario e per non far torto a nessuno, si farà riferimento ai soli contributi stranieri di più fresca data: v., pur sempre scegliendo nel mucchio, D. Lindsay, The «Right To Be Forgotten» by Search Engines under Data Privacy Law: A Legal and Policy Analysis of the Costeja Decision, in A.T. Kenyon, Comparative Defamation and Privacy Law, Cambridge University Press, 2016, p. 199 ss.; E. Cooper, Following in the European Union’s Footsteps: Why the United States Should Adopt its Own «Right To Be Forgotten» Law for Crime Victims, p. 32; J. Marshall J. Info. Tech. & Privacy L. p. 185, (2016); M. Crockett (Comment), The Internet (Never) Forgets, p. 19, SMU Sci. & Tech. L. Rev. p. 151, (2016).
[5] Il «rampantismo» della informational privacy a livello globale è un fenomeno di evidenza plateale: v. gli scritti di G. Greenleaf, a partire dal più recente, ossia Global data privacy laws 2015; 109 countries, with European laws now a minority, 133 Privacy Laws & Business International Reports, 2015. Si tratta, dunque, di una storia di successo, che pure presta il fianco a impietose revisioni critiche, come quella, fondata sulla labilità del principio consensuale e la macchinosità iniziatica della disciplina, di B.-J. Koops, The Trouble with European Data Protection Law, 2014, «ssrn.com».
[6] Non c’è da sorprendersi, s’è detto nel testo; ma ciò non significa che un siffatto sviluppo meriti approvazione incondizionata. Il gestore del motore di ricerca riuscirà, presumibilmente, a sottrarsi alla responsabilità di cui all'art. 15 d.lgs 70/03, in quanto – come osserva, con qualche approssimazione, Trib. Napoli Nord (Aversa), ord. 10 agosto 2016, in Foro it., Le banche dati, archivio Merito ed extra, in margine a una dolorosa vicenda di cronaca) – , non intervenendo «sui contenuti generati dagli utenti che memorizza temporaneamente (come avviene nel caso di Google web Search) non è responsabile per quei contenuti, a condizione che esso provveda alla rimozione degli stessi o alla disabilitazione dell'accesso a quei contenuti non appena venga “effettivamente a conoscenza” del fatto che: (i) le informazioni siano state rimosse dal luogo dove si trovavano inizialmente sulla rete (ossia siano state rimosse dal sito fonte nel quale erano pubblicate) o che l'accesso a tali informazioni sia stato disabilitato dal gestore del sito fonte; ovvero (ii) un organo giurisdizionale o un'autorità amministrativa ne abbia disposto la rimozione o la disabilitazione». Ma, da responsabile del trattamento, si troverà alle prese con gli stessi obblighi che condizionano l’attività dei siti sorgente: risultato sulla cui congruità è lecito nutrire dubbi profondi, persino per chi paventi i rischi connessi alla messa a disposizione, per gli utenti, di enormi quantità di dati, in assenza di mediazione e contestualizzazione (dimenticando che proprio in queste caratteristiche si dispiegano la novità e il pregio dell’informazione in rete).
[7] Riguardo a questa ipotesi Cass., ord. 21 luglio 2015, n. 15096, Nuova giur. civ., 2016, I, p. 70, con nota di A. Mntelero, “Right to be forgotten” e pubblici registri (v. altresì G. Carraro, Pubblicità commerciale e “diritto all’oblio” nella prospettiva dei diritti dell’uomo, ibid., II, p.634) ha sottoposto alla Cgue questione pregiudiziale, che, come si vedrà più oltre, ha ricevuto risposta sostanzialmente negativa (salvo lasciare un margine per interventi legislativi su situazioni dichiaratamente eccezionali). Mette conto notare, tuttavia, come per Carraro, cit., p. 640, piuttosto che puntare al «dato storico, che per sua natura non può essere cancellato … né tantomeno può essere rimosso dal registro», si dovrebbe guardare al «metadato estratto dal registro delle imprese, rielaborato, associato o ridiffuso, che risulta a ben vedere lesivo del diritto al rispetto della vita privata», con la conseguenza che l’istanza di tutela dovrebbe volgersi non «certo verso il conservatore del registro, ma tutt’al più verso le agenzie d’informazioni commerciali». Sull’opportunità di una diversa disciplina del “riuso” sembra convenire anche A. Mantelero, Diritto all’oblio e pubblicità nel registro delle imprese, in Giur. it., 2015, p. 2651, pp. 2660 ss. (arg. anche ex Garante per la protezione dei dati personali, provv. n. 511 del 1° dicembre 2016). Nondimeno, per le ragioni che saranno sviluppate nel testo, l’idea di una disponibilità alla fonte che viene poi contingentata a livello di utilizzazione appare poco convincente, se non malaccorta. V., comunque, per ulteriori approfondimenti, F.J. Zuiderveen Borgesius, J. Gray e M. van Eechoud, Open Data, Privacy, and Fair InformationPrinciples: Towards a Balancing Framework, 30 Berkeley Technology L. J., p. 2073, (2015).
[8] Ma v., in senso affatto contrario, Trib. Milano 28 settembre 2016, Foro it., 2016, I, p. 3594, a cui avviso i motori di ricerca forniscono «informazioni diverse ed assai più invasive rispetto a quelle fornite dai siti sorgente» (il che, a rigore, non risponde al vero: ma l’affermazione mira, per traslato, ad evocare un’idea di amplificazione da disponibilità allargata).
[9] Ciò che una siffatta affermazione lascia nell’incertezza assoluta è perché un effetto di tal genere dovrebbe prodursi nei soli confronti della versione “googlizzata” della notizia, senza valere per la sua epifania originale.
[10] Corte giust. 13 maggio 2014, causa C-131/12, cit., § 97.
[11] Declinato, si direbbe, sul solo versante soggettivo. Che dire, allora, delle circostanze in cui il rilievo pubblico non dipende dalla particolare qualifica dell’interessato, ma si connette a circostanze oggettive? V., sul punto, le considerazioni sul “diritto alla storia” di M. Rizzuti, Il diritto all’oblio, in Corriere giur., 2016, p. 1077, p. 1080 ss.
[12] Corte giust. 13 maggio 2014, causa C-131/12, cit., § 97.
[13] Non a caso, si è per tempo articolato, a livello di Article 29 Data protection Working Party, il tentativo di meglio definire i limiti di un diritto all’oblio formulato in modo in modo sin troppo assolutizzante: v. infatti le Guidelines adottate il 26 novembre 2014 dalle autorità europee preposte alla protezione dei dati personali.
[14] Così la definisce F. Pizzetti, Privacy e il diritto europeo alla protezione dei dati. Il regolamento europeo 2016/679, Torino, 2016, II, p. 10.
[15] Sul fronte della de-listing policy adottata da Google (che si è trovata a vagliare centinaia di migliaia di ricorsi), la novità dell’ultim’ora è rappresentata dalla decisione, a seguito delle pressioni delle autorità nazionali di settore – quella francese in testa – , di estendere la preclusione degli Uri, decisa a seguito dell’accoglimento dell’istanza dell’interessato, ai domini esteri (incluso .com) laddove la richiesta di accesso avvenga da un IP del Paese dal quale è provenuta l’istamza.nNon, dunque, la neutralizzazione assoluta, ma un passo rilevante in quella direzione.
[16] Per le prime ricadute giudiziali fuori dai confini nazionali, v., in Spagna, Sala de lo Contencioso-administrativo de la Audiencia Nacional, 29 dicembre 2014 (18 sentenze), www.poderjudicial.es; in Francia, Trib. Grande instance Paris, ord. 19 dicembre e 24 novembre 2014, in Dir. informazione e informatica, 2015, 540, con nota di G. Giannone Codiglione, La deindicizzazione dei contenuti in Francia, nonché Trib. Grande instance Toulose, ord. 21 gennaio 2015, Franck J. c. Google France e Google Inc.; nei Paesi Bassi, Rechtbank Amsterdam 11 marzo 2015, C/13/563401; in Belgio, Cour de cassation, 29 aprile 2016, C. 15.0052.F (dove, però, la sentenza Google Spain resta sullo sfondo, mentre viene valorizzato l’art. 10 Cedu).
[17] Trib. Roma 3 dicembre 2015, Foro it., 2016, I, 1040, con nota di P. Pardolesi, nonché in Danno e resp., 2016, p. 299, con nota di F. Russo; in Resp. civ. prev., 2016, p. 583, con nota di G. Citarella.
[18] Cass. 20 maggio 2015, n. 10280, Foro it., Rep. 2015, voce Persona fisica, n. 91, in motivazione, § 8.1.
[19] Trib. Milano,28 settembre 2016, Foro it., 2016, I, p. 3594.
[20] Per es., Cass. 24 giugno 2016, n. 13161, Foro it., 2016, I, p. 2729 (ma si tratta, davvero, di una citazione di margine, posto che la sentenza non tocca il problema del de-listing).
[21] Sidis v. F-R Publishing Corp., 113 F 2d 806 (2d Cir., 1940).
[22] All’accenno, relativamente soft, di P. Rescigno, Il diritto di essere lasciati soli, in Synteleia Vincenzo Arangio-Ruiz, vol. IV, Napoli, 1964, p. 494, p. 498, possono essere contrapposte le ruvide pagine di Robert M. Pirsig, Lila, trad. it., Milano, 1995.
[23] Un esempio assai alto è fornito da BGH 8 maggio 2012, VI ZR 217/08, che si pronuncia meditatamente «[z]ur Zulässigkeit des Bereithaltens nicht mehr aktueller Beiträge in dem für Altmeldungen vorgesehenen Teil eines Internetportals (Online-Archiv), in denen ein verurteilter Straftäter namentlich genannt wird» (riguardo alla richiesta di uno dei soggetti condannati per l’efferata esecuzione – a martellate! – del noto attore Walter Sedlmayr).
[24] A margine di questa riflessione si potrebbe aprire – ma in queste note si eviterà di farlo – il fronte della legal forgiveness in campo penalistico: versante sul quale si è cimentata anche la Corte costituzionale (cfr., comunque, sent. 8 ottobre 2010, n. 287, in Giur. costit., 2011, p. 1985, con nota di Z. Secchi.
[25] Foro it., 1996, I, p. 2566 (altre avvisaglie, a livello di tutela cautelare urgente, in Trib. Roma, ord. 21 novembre 1996, in Dir. informazione e informatica, 1997, p. 335: «La riproduzione di vicende attinenti alla vita privata del condannato è suscettibile di produrre un danno ingiusto al diritto all’oblio dei familiari in difetto di un interesse pubblico attuale alla conoscenza di tali vicende»). Ma, come rileva M. G. Daga, Diritto all’oblio: tra diritto alla riservatezza e diritto all’identità personale, in Danno e resp., 2014, p. 274, i prodromi dell’inclinazione a favorire il riscatto del reo si rinvengono in pronunzie decisamente più datate: v., ad es., Cass. 13 maggio 1958 n. 1563, id., 1958, I, p. 1116, dove si discute, sia pure per negarne la ricorrenza nella fattispecie, di un «diritto al segreto del disonore».
[26] Foro it., 1998, I, 1834, con nota di P. Laghezza, Il diritto all’oblio esiste (e si vede).
[27] Da ultimo, riassuntivamente, G. E. Vigevani, Diritto all’informazione e privacy nell’ordinamento italiano: regole ed eccezioni, in Dir. informazione e informatica, 2016, p. 473.
[28] La chiave della “riattualizzazione” sembra emergere, ad es., nel Provv. 21 aprile 2016, n. 186, del Garante per la protezione dei dati personali.
[29] Ne dà meditata testimonianza Cass. 26 giugno 2013, n. 16111, Foro it., 2013, I, p. 2442, che, dopo aver intimato che «[l]a rievocazione di vicende personali ormai dimenticate dal pubblico trova giustificazione nel diritto di cronaca soltanto se siano recentemente accaduti fatti che trovino diretto collegamento con quelle vicende, rinnovandone l’attualità», ha confermato la pronuncia di merito con cui, in ragione della ritenuta arbitrarietà dell’accostamento, era stata considerata illecita la divulgazione, in alcuni articoli pubblicati su un quotidiano, di notizie riferite all’appartenenza a un gruppo terroristico di una persona che vi aveva militato molti anni prima, in concomitanza con il ritrovamento di un arsenale di armi nella zona di residenza dell’ex terrorista. V. altresì Cass. pen., 7 luglio 2016-22 settembre 2016, n. 39452, ibid., II, 621; e Trib. Napoli Nord (Aversa), ord. 10 agosto 2016, cit. («una volta che del fatto il pubblico sia stato informato con completezza, cessa l’interesse pubblico in quanto la collettività ha ormai acquisito il fatto. Non vi è più una notizia. Riproporre l’accadimento sarebbe inutile, poiché non vi sarebbe più un reale interesse della collettività da soddisfare. Non solo inutile per la collettività, ma anche dannoso per i protagonisti in negativo della vicenda. Il diritto all’oblio è quindi la naturale conseguenza di una corretta e logica applicazione dei principi generali del diritto di cronaca. Come non va diffuso il fatto la cui diffusione (lesiva) non risponda ad un reale interesse pubblico, così non va riproposta la vecchia notizia (lesiva) quando ciò non sia più rispondente ad una attuale esigenza informativa»).
[30] Foro it., 2016, I, p. 2734, con nota di chi scrive.
[31] Da notare, per converso, come un lasso di tempo di quattro anni dalla definizione della vicenda giudiziaria (esitata in condanna su richiesta per reati gravi in danno della sanità regionale) e di un decennio dai fatti oggetto di cronaca sia parso “breve”, e perciò inidoneo a supportare la richiesta di de-listing rispetto a contenuti giornalistici pubblicati su importanti organi di stampa e su un sito istituzionale, al Garante per protezione dati personali nel provv. 6 ottobre 2016, n. 400.
[32] Foro it., 2013, I, 205, con nota di E. Tucci.
[33] Rapidamente assurte a classico della materia: si veda, a mo’ di riscontro esemplare, il caso del chirurgo plastico spagnolo – Hugo Guidotti Russo, di cui si diceva alla nt. 1 – che (nello stesso torno di tempo in cui l’avv. Corteja si lagnava del collegamento del suo nome, quando digitato in Google, con le pagine del (sito del) giornale catalano La Vanguardia dove si annunciava la vendita all’incanto di suoi beni per il mancato pagamento di contributi dovuti) denunciava l’emersione, in rete, della notizia di un procedimento di malpractice a suo carico, senza riferimento alcuno alla successiva assoluzione.
[34] Amplius, sul punto, F. Di Ciommo e R. Pardolesi, Trattamento dei dati personali e archivi storici in rete: dal diritto all’oblio in Internet alla tutela dell’identità dinamica - è la rete, bellezza!, in Danno e resp., 2012, p. 701. Per un caso in cui l’editore resistente aveva provveduto ad inserire, in calce agli articoli oggetto di ricorso, una nota relativa all’intervenuta archiviazione, ma con modalità ritenute inidonee a rendere immediatamente percepibile, già in sede di anteprima, l’aggiornamento sugli sviluppi della vicenda, v. Garante protezione dati personali, provv. 20 ottobre 2016, n. 430.
[35] Sul Registro delle imprese e dintorni cfr., riassuntivamente, C. Ibba, Profili della pubblicità legale delle imprese (l’apporto di Antonio Pavone La Rosa), in Riv. dir. comm., 2016, p. 259; ‘M. Cian, Registro delle imprese ed altri strumenti pubblicitari, in Nuova giur. civ., 2016, p. 793, e S. Luoni e M. Cavanna, Il registro delle imprese, vent’anni dopo. Un panorama dottrinario, in Giur. it., 2015, p. 1016.
[36] La cifra caratterizzante il dibattito europeo (e non solo) sta, infatti nella relazione/giustapposizione tra privacy e libertà di manifestazione del pensiero: cfr., esemplificativamente, S. Kulk e F.J. Zuiderveen Borgesius, Privacy, freedom of expression, and the right to be forgotten in Europe, (2017), www.ssrn.com.
[37] Così Carraro, cit., p. 637, che evoca il refrain Cedu, atto a paralizzare l’anelito di privacy, di «besoin social impérieux».
[38] «È del resto impensabile», chiosa Carraro, cit., p. 639, «che il fallimento di una società, fatto giuridico che genera conseguenze radicali sulla capacità patrimoniale e sui rapporti obbligatori coi terzi e che tendenzialmente conduce all’estinzione della persona giuridica …, non sia d’interesse per il benessere economico della collettività: un interesse invero perenne, così come perenne è l’interesse alla ricostruzione dello stato civile delle persone fisiche, per quanto defunte»).
[39] Di vero e proprio iato motivazionale parla Mantelero, Right to be forgotten cit., pp. 76 ss., rilevando come la Cassazione, palesemente contraria all’idea di cancellazione/blocco dei dati si mostri assai più aperta alla possibilità di interventi incidenti sulla loro ostensibilità.
[40] ECLI:EU:C:2017:197.