Brevi note sul rapporto tra la funzione nomofilattica e il diritto di difesa
La funzione nomofilattica, affidata al giudice di legittimità, ha connotazioni peculiari in una sistema normativo multilivello caratterizzato dalla sempre più pregnante partecipazione del giudice alla formazione stessa della norma. Al fine di evitare i possibili eccessi, contrastanti con il principio di separazione dei poteri, è indispensabile l’apporto dialettico della difesa nel processo. La nomofilachia va intesa come prevedibilità della decisione e quindi certezza del diritto, sia pure senza rinunciare alla capacità innovativa del diritto stesso, nonché come chiarezza e comprensibilità delle regole cui debbono attenersi non solo i cittadini ma anche i residenti che appartengano ad altre etnie o culture.
Il tema della nomofilachia, del suo significato e delle sue implicazioni giuridiche e sociali, è tema ampiamente arato e noto, meno forse ci si è soffermati sul rapporto tra nomofilachia e diritto alla difesa.
Ci si può allora domandare quale sia il rapporto tra nomofilachia e difesa, e se, per chi esercita tale diritto, la nomofilachia sia un valore, un concetto virtuoso, o meno.
Si tratta di quesiti che ruotano intorno alla interpretazione del ruolo dell’avvocato nella giurisdizione, ma anche intorno a quello sociale, e ancora c’è da domandarsi quanto una corretta interpretazione del ruolo dell’avvocato sia necessaria ad assicurare la tenuta del sistema ordinamentale ed il rispetto dell’equilibrio tra i diversi Poteri, secondo il dettato costituzionale.
L’avvocato è l’interprete del diritto alla difesa, assicurato, nelle forme del giusto processo, dalla nostra Carta costituzionale. Secondo la legge 247/12, per assicurare l’effettività di tale diritto costituzionale, all’avvocato deve essere garantita autonomia ed indipendenza, ovvero l’avvocato, ovviamente soggetto alla legge e al codice deontologico, deve essere autonomo ed indipendente, tra l’altro, dal potere giudiziario, così come da quello politico-legislativo-esecutivo.
Va però precisato che l’autonomia e l’indipendenza dell’avvocato deve coniugarsi con un altro aspetto, ovvero, egli è si autonomo dal potere giudiziario, ma è parte della giurisdizione assieme a tale Potere.
È una costruzione molto attenta della giurisdizione, quella voluta dalla nostra Costituzione, laddove il giudice è indipendente, fra l’altro persino dal popolo, e decide, nei limiti della separazione dei poteri, indipendentemente da qualsivoglia altra volontà, compresa appunto quella popolare, e dunque non può “subire” soggetti equilibratori con forza impositiva esterni alla giurisdizione, in quanto ne verrebbe compromessa l’autonomia e la indipendenza e violato il principio di separazione dei Poteri, ma neppure potrebbe “subire” un soggetto equilibratore impositivo all’interno della giurisdizione.
Da qui il ruolo dell’avvocato, chiamato a garantire autonomia ed indipendenza alla giurisdizione attraverso lo svolgimento della attività difensiva, che è anche strumento funzionale al bilanciamento della autonomia del giudice, secondo le regole, comuni a giudici ed avvocati, del giusto processo.
Questa la costruzione del nostro sistema di funzionamento della giurisdizione, sistema che ha visto sempre più sbiadire la struttura di civil law, per accostarsi a quella di ispirazione di common law.
Siamo così al tema del valore e del significato nel nostro sistema attuale del termine nomofilachia.
Nel senso più specifico la nomofilachia è soprattutto compito della Corte di cassazione che, secondo l’art. 65 dell’ordinamento giudiziario, deve assicurare l’esatta osservanza della legge, la sua uniforme interpretazione e l’unità del diritto oggettivo nazionale.
La certezza del diritto è senza dubbio alcuno un paradigma imprescindibile per garantire la legalità dell’Ordinamento, il rispetto del principio di uguaglianza, e quindi l’affidabilità democratica.
Certezza del diritto come naturale aspettativa del cittadino di poter disporre, da un lato, di norme chiare e precise, da altro lato di una prevedibile interpretazione delle stesse, per consentire un’uniforme applicazione nella dimensione giudiziale.
Tutto ciò permetterà al cittadino di poter conformare i propri comportamenti in modo coerente e armonico, nell’ambito dell’intero territorio nazionale.
Il cittadino, insomma, ha il diritto/dovere di conoscere le regole e la loro interpretazione, così da poter fondare una corretta previsione degli effetti dei propri comportamenti.
A fronte di questa esigenza, lo scenario attuale mostra quel che possiamo definire un parziale discostamento dal modello di civil law, il giudice si muove oggi in un sistema normativo multilivello a carattere circolare, che supera la tradizionale gerarchia delle fonti, connotato dalla trasformazione del ruolo partecipativo della giurisprudenza alla formazione della norma.
Cause di quanto sopra, da un lato le modificazioni negli assetti complessivi ordinamentali, che hanno sancito il riconoscimento di fonti di diritto sovranazionali e, da altro lato, la iperproduzione normativa, che esprime oggi un numero improponibile di leggi, e ancora il fenomeno della legislazione a singhiozzo, con interventi ripetuti su testi normativi senza adeguata coordinazione sistematica, il fenomeno delle leggi di emergenza, utili spesso solo a saziare aspettative emotive della popolazione, il ricorso sempre più frequente alle deleghe, ovvero a fonti di secondo livello, lasciando alla sede giudiziaria il compito spesso improbo di trovare il corretto coordinamento fra fonti di livello diverso.
Per queste ed altre cause “storico-sociali”, il ruolo del giudice è andato via via mutando, assumendo su di sé strumenti tipici del diritto giurisprudenziale, modificando la propria veste da solo controllore delle leggi, e del potere legislativo, a creatore effettivo di diritto.
Naturalmente questo sistema porta alle volte ad esiti virtuosi, per cui l’interprete in sede giudiziale riesce a dare stabilità ad un istituto giuridico, altre volte ad eccessi creativi, altre volte ancora si inverte l’ordine di sistema, per cui il legislatore finisce con il formalizzare in norma una fattispecie avente fonte giurisprudenziale.
I tempi e le spinte culturali hanno sempre più portato la magistratura ad una attività ermeneutica dinamica, piuttosto che conservatrice, laddove i pregi di interpretazioni giurisprudenziali innovative, necessitate dal mutare dei tempi e dei costumi, si sono alle volte confusi con i difetti di interpretazioni motivate da necessità socio politiche, o come antidoto alla crisi e alle deficienze della politica.
A questo punto ci troviamo in un sistema caratterizzato da ipertrofia legislativa, mista a contrasti interpretativi, dunque dobbiamo prendere atto della “crisi” del modello di civil law puro in favore di un ampliamento delle fonti del diritto alla giurisprudenza, nei termini ora richiamati.
Diventa allora più che mai centrale un’altra considerazione, e cioè quella per cui la legittimazione del potere giudiziario passa anche per il criterio dell’accettabilità delle decisioni da parte del cittadino. In altre parole tanto sarà accettabile la risposta di giustizia da parte dello Stato, quanto più il cittadino sarà in grado di comprendere. A sua volta, come già accennato, quando si parla di comprensibilità della decisione, non necessariamente si parla di “condivisibilità popolare” della decisione stessa. La decisione deve essere chiara nei principi enunciati e nella fonte su cui si fonda, ma non nella disponibilità del Popolo, diversamente dovremmo aderire al sistema nord americano delle giurie popolari e della magistratura elettiva.
La certezza del diritto, intesa come prevedibilità applicativa, ritorna dunque come fondamentale requisito per concorrere a dare non solo credibilità, ma legittimazione all’intero Ordinamento.
Se vogliamo rifissare le immagini e riassumere lo stato dell’arte, ci stiamo muovendo in un sistema di civil law, che non è più del tutto tale, e ci stiamo muovendo in un sistema di tendenza al common law, che però non è proprio tale.
Un primo momento di chiarezza sarebbe dato da una produzione normativa minima, dal linguaggio comprensibile, coerente; invece la produzione è ipertrofica, resa con tecnica legislativa non di rado carente, non sempre coerente con i principi assunti alla base del testo, anzi alle volte incoerente non solo dal punto di vista sistematico generale, ma tra un comma e l’altro dello stesso articolo di legge.
Quanto sopra conduce, come affermato da Luigi Ferrajoli, in un mondo dove la verità giuridica è indecidibile per totale indeterminatezza della lingua legale, lo spazio dell’argomentazione è amplissimo, con conseguente ampliamento del potere giudiziario in potere creativo di diritto.
Se si evitano gli eccessi paventati da Ferrajoli, certamente il ruolo assunto dalla giurisprudenza può essere acquisito come dato virtuoso, sarà però necessario che tale ruolo trovi degli equilibri e dei confini tali da garantire un corretto rapporto tra i poteri dello Stato, ma non solo, dovrà anche garantire al cittadino di poter assumere tranquillamente un determinato atteggiamento commissivo od ommissivo, in quanto ne sia prevedibile la valutazione positiva da parte del giudice.
Insomma, se si accetta che la giurisprudenza assuma in sé questa nuova tipicità, bisognerà assicurare una meccanica a garanzia degli equilibri democratici, ad evitare che il controllo sul giudice possa essere esercitato non dall’interno della giurisdizione, mediante uno strumento dialettico, ma dall’esterno.
Se dunque deve ritenersi che il libero convincimento del giudice non debba equivalere al convincimento libero, e se si vogliono evitare le criticità, e valorizzare gli aspetti virtuosi di una giurisprudenza anche fonte di diritto, l’avvocato si pone come l’unica possibile forza in grado di bilanciare questi potenziali elementi di pericolo, garantendo, attraverso il dialogo all’interno della giurisdizione, il corretto equilibrio tra i poteri dello Stato, che non dovranno quindi avvertire alcuna necessità di uscire dai propri ambiti costituzionali.
In sintesi la scommessa è che la giurisdizione possa arare in maniera virtuosa e dinamica il campo del legislatore, e che il legislatore nulla abbia da temere, a livello di tenuta del sistema, da questa attività correttamente creativa.
È altresì necessario che si realizzi tutti, avvocati e magistrati, come la nomofilachia sia un valore e una garanzia non rinunciabile, se intesa come prevedibilità della decisione e quindi certezza del diritto.
Nomofilachia che, peraltro, deve essere favorita da regole che promuovano quel valore dato dalla forza e dalla capacità innovativa del diritto attraverso l’opera degli interpreti.
A mio avviso, quanto finora detto sull’importanza della certezza del diritto, non solo riguarda la tenuta di un ordinamento democratico, ma più che mai è destinato ad investire il tema della integrazione tra Popoli e culture, anche giuridiche, diverse od addirittura molto diverse.
Non vi è chi non veda come la sfida dell’integrazione passi necessariamente attraverso la comprensione delle nostre regole da parte di chi, appartenente ad altre etnie, intenda stabilirsi nel nostro Paese.
Se dunque comprendere, e poter prevedere, la decisione del giudice, è così necessario per il cittadino con radici culturali proprie della nostra storia, ancor più si rivela importante per chi, proveniente da culture diverse, deve “capire” le nostre regole ed integrarsi con e a mezzo di esse.
Ne consegue la considerazione per cui la nomofilachia debba attuarsi anche attraverso l’uso di un linguaggio in sentenza chiaro, in un certo senso disciplinato, mirato a diffondere la conoscenza dello ius costitutionis applicato, linguaggio che sempre più deve adeguarsi a forme di sviluppo interculturale del diritto.
Se poi il ruolo dell’avvocato va inteso come più sopra, ne deriva che anche la forma delle impugnazioni dovrà sempre più riflettere una assoluta specifica professionalità, mirata a garantire una difesa efficace, non dispersiva e assolutamente utile al cliente, e, conseguentemente, anche ad una virtuosa interpretazione del concetto di nomofilachia.
Va peraltro ricordato come l’ordinamento professionale indichi la strada ad un avvocato qualificato in maniera specifica per il patrocinio di fronte alle giurisdizioni superiori, esigenza rafforzata dal codice deontologico in tema di formazione e aggiornamento.
Del resto, i protocolli siglati tra la Corte di cassazione ed il Consiglio nazionale forense vanno esattamente nella direzione di valorizzare la funzione nomofilattica, senza pregiudicare quella difensiva.
In conclusione, l’avvocatura deve sempre più essere consapevole che il diritto alla difesa è garantito da un sistema che favorisca la certezza del diritto, la magistratura che la autonomia di una giurisdizione moderna, anche fonte di diritto, è protetta dal responsabile e non compromettibile esercizio del diritto difesa.