Ruolo e funzione della Corte di cassazione:
il punto di vista del giudice d’appello
Che contributo può dare un giudice di appello per aiutare i colleghi della Cassazione civile nel loro lavoro?
Quello che segue, vuole essere solo uno spunto di riflessione sul ruolo e la funzione della Corte suprema dal particolare punto di vista del giudice d’appello, consapevole dell’elevato livello qualitativo e dell’insostenibile livello quantitativo del lavoro dei giudici di legittimità, e che, tuttavia, non rinuncia a segnalare, accanto ad alcuni approcci non condivisibili propri dei giudici del merito, alcune criticità dell’operare della Cassazione, a cominciare dalle modalità della massimazione sino ai rischi delle sentenze manifesto e del lento e silenzioso scivolamento dalla funzione nomofilattica ad una ... “mono”filattica.
1. Una breve premessa
Il titolo di quest’articolo non deve trarre in inganno: quello che segue non è – e non pretende di essere – il punto di vista del giudice d’appello sulla Cassazione, ma, molto più modestamente, una riflessione di un giudice d’appello civile che, dopo oltre sei anni di esperienza come giudice di merito di secondo grado, prova ad offrire al lettore qualche breve considerazione, da questo particolare angolo visuale, sul ruolo e sulla funzione della Cassazione civile. Ben consapevole, peraltro, anche laddove dovessero evidenziarsi note critiche, dell’elevato livello qualitativo e dell’insostenibile livello quantitativo del lavoro svolto dai colleghi della Suprema corte.
2. Le attese dei giudici di merito
La sempre più agevole consultazione delle banche dati di giurisprudenza, a partire dal sistema Italgiure; la diffusione in rete persino del calendario delle udienze delle Sezioni Unite, con le questioni prossime alla decisione; offrono ai giudici di merito un facile e quasi inesauribile accesso alla giurisprudenza di legittimità, inducendoli, talora, ad attribuire efficacia risolutiva di ogni causa alle pronunce (o, per meglio dire, alle massime) della Cassazione, in una spasmodica ricerca di quella idonea a definire la concreta controversia da giudicare.
Quest’approccio – che da giudice di secondo grado mi capita di cogliere spesso nelle sentenze dei colleghi, specie quelli più giovani, di primo grado – è per molti aspetti criticabile.
È criticabile, innanzitutto, perché il compito del giudice di merito, a cominciare da quelli di primo grado, è, soprattutto, quello di ricostruire bene i fatti (potendo, su eventuali errori di diritto, esercitarsi il potere correttivo della Cassazione ex art. 384, ultimo comma, cpc; e potendo la motivazione in diritto attuarsi anche mediante il solo richiamo di precedenti conformi ex art. 118, co. 1, disp. att. cpc). Troppo spesso, invece, capita di leggere sentenze di primo grado ricche, o addirittura sovrabbondanti, di citazioni giurisprudenziali, con tutti i più recenti arresti della Cassazione su un determinato istituto di diritto sostanziale o processuale, a cui non fa seguito (o meglio: che non sono preceduti da) un’approfondita ricostruzione dei fatti di causa (ai quali, non di rado, quelle elaborazioni giurisprudenziali si attagliano poco o male).
Ed è ulteriormente criticabile nella misura in cui si fonda, in modo spesso fideistico, sulle massime giurisprudenziali, quasi si trattasse di “sub regole” di immediata e generalizzata applicazione, senza neanche lo sforzo di verificare, attraverso la lettura delle sentenze per esteso, se quei principi di diritto, riassunti in pochi e, spesso, complessi periodi, siano realmente impiegabili anche nelle vicende oggetto di causa, o se non vi sia, invece, solo una vaga assonanza, idonea a portare fuori strada chi volesse farne un utilizzo non adeguatamente ponderato.
Ma è un approccio sbagliato (al cui diffondersi, probabilmente, non sono estranee le attuali modalità di preparazione al concorso in magistratura e gli stessi criteri selettivi in quella sede seguiti: ma sul punto mi limito a quest’apodittica affermazione, la cui dimostrazione richiederebbe una trattazione a parte), anche perché rinuncia in partenza ad ogni possibile lettura personale dei dati normativi, cercando – forse anche a causa dei carichi di lavoro spesso ingestibili – una soluzione già “pronta”, da trarre da una fonte sicura ed affidabile qual è la Cassazione; o invocando, a conforto delle fisiologiche insicurezze di qualsiasi giudice, una sponda a cui aggrapparsi.
Ovviamente, gli aspetti negativi di quest’atteggiamento che mi pare di aver colto non sono ascrivibili ai giudici di legittimità, ma a quelli di merito. E, tuttavia, io credo che la Cassazione debba esserne consapevole.
3. La massimazione
La Cassazione dovrebbe, a mio avviso, ben considerare questa attenzione spasmodica riposta dai giudici di merito alle sue decisioni, e questa tendenza, sempre più diffusa, ad attingervi in modo non sempre adeguatamente critico, e cercare di fronteggiarla mediante una specificazione, quanto meno nelle massime (come, per la verità, a volte capita di leggere), degli elementi di fatto minimi, idonei a delimitare l’area di applicabilità dei principi di diritto affermati.
Solo così, a mio modo di vedere, si potrebbe scongiurare il rischio di un’applicazione meccanica di enunciati, spesso formulati per fini parzialmente o totalmente diversi da quelli in vista dei quali se ne fa applicazione.
Sotto altro profilo, poi, non sono da sottovalutare i pericoli connessi a quello che, a volte, appare un generale scadimento della qualità della massimazione.
Anche in tal caso, nessun intento denigratorio per i colleghi che svolgono un ruolo davvero delicato e complesso; ma è anche loro interesse, io credo, ricevere segnalazioni di disfunzioni o malfunzionamenti del loro ufficio, o semplicemente di aspetti critici, che possono servire per approntare un servizio migliore.
Ed allora, da utente del servizio, mi chiedo, a volte, quali siano i criteri che sovrintendono alla scelta delle sentenze da massimare: capita, infatti, di leggere massime del tutto scontate e ripetitive, che non introducono nulla di nuovo rispetto a giurisprudenze consolidate negli anni; e, al contrario, di non trovare massime ufficiali di sentenze che, invece, elaborano soluzioni originali o affrontano questioni che non trovano immediato riscontro in altri precedenti[1].
Ancora, la lettura delle massime appare, in alcuni casi, davvero ostica: l’ostinato utilizzo di un periodare complesso, fatto di proposizioni incidentali che si susseguono, o di parentesi che racchiudono frasi a loro volta piene di subordinate, rende poco chiara l’enunciazione del principio di diritto, favorendo malintesi o errate interpretazioni.
Al contrario, è da salutare con favore l’utilizzo del richiamo alla fattispecie concreta (preceduta da: nel caso di specie ..., o espressioni analoghe), che vale a fornire un’utile contestualizzazione della vicenda.
Addirittura, non sono del tutto rari i casi in cui, a fronte di massime ufficiali che dovrebbero riportare il pensiero della Corte suprema sulla questione di diritto, la lettura dell’intera sentenza porta a scoprire che la decisione del Collegio è stata di inammissibilità del ricorso, con la conseguenza di trasformare un’affermazione di carattere processuale in una (involontaria) affermazione di diritto sostanziale (proveniente, a ben vedere, dal giudice del merito).
4. Le pronunce di rinvio
Da giudice di appello, mi è capitato, ovviamente, di confrontarmi con sentenze di rinvio da parte della Corte di cassazione (e, molto probabilmente, la mia Corte, ma in diversa composizione, dovrà ben presto confrontarsi con il rinvio a seguito dell’annullamento di sentenze di cui sono stato estensore). Sarebbe ben difficile provare a tracciare una casistica delle fattispecie di rinvio, e, addirittura, presuntuoso tentare di indicare vizi o difetti delle sentenze di rinvio. E, tuttavia, nella già citata ottica di offrire un contributo in un rapporto dialettico tra giudici di merito e di legittimità, mi pare di dover segnalare un rischio a cui, sovente, sono esposti i giudici di legittimità.
Nella contrapposizione spesso evocata tra lo ius constitutionis e lo ius litigatoris, capita non di rado di cogliere una propensione della Suprema corte verso il primo, quasi che quella fosse la sua più nobile ed alta funzione, rispetto al livello, più basso, della mera contrapposizione tra le parti, e del caso concreto a cui dare una risposta di giustizia.
Da quest’approccio nascono pronunce in cui la Cassazione fatica a “scendere” al livello della lite concreta, a quel mondo di “carne e sangue” in cui la vicenda reale si è dipanata innanzi ai giudici di merito; e, anche quando coglie nei motivi di ricorso profili idonei a determinare l’annullamento della sentenza di merito, pare proprio che la Suprema corte non possa trattenersi dal discettare dei massimi sistemi, dal tentativo di sistematizzare l’intera materia, fino ad “annegare” il principio a cui i giudici del rinvio dovranno attenersi in un’indeterminata summa, fatta di autocitazioni e contrapposizioni a differenti filoni giurisprudenziali[2], in cui il giudice del rinvio faticherà, poi, a ritrovare il bandolo della matassa per adeguare quei principi, enunciati in modo alluvionale, ai fatti concreti. A questa tendenza sono riconducibili anche quei casi – per fortuna, rari – nei quali malgrado l’annullamento della sentenza della Corte d’appello sia dovuto a motivi in rito, i giudici di legittimità non riescono ad astenersi dall’indicare, in modo più o meno manifesto, anche le ragioni di merito che dovrebbero condurre alla decisione della controversia in un senso piuttosto che in un altro.
Come giudice del rinvio, vorrei confrontarmi con pronunce che mostrino, innanzitutto, “comprensione” della precedente decisione di merito: comprensione non soltanto nel senso di compiuto sforzo di individuazione delle ragioni esposte, più o meno bene, dal giudice di appello, ma anche nel senso di una immedesimazione nella fatica della decisione che accompagna il giudice di merito, e che, sovente, non si presta ad una semplicistica divaricazione tra ragioni di fatto, incensurabili in cassazione, e motivi di puro diritto.
Vorrei, poi, non un’asfittica indagine sulle modalità della motivazione, ma una più ariosa ricerca delle “ragioni della decisione”, secondo l’attuale disposto dell’art. 132 cpc.
Vorrei, da ultimo, una puntualizzazione precisa della regola a cui attenersi in sede di rinvio.
5. Le sentenze manifesto
I giudici della nostra Corte di cassazione sono, com’è a tutti noto, oberati da una mole di lavoro che non ha equivalenti nei carichi dei giudici delle Corti supreme di altri Paesi.
È noto, ancora, che proprio questi carichi di lavoro ingestibili stanno alimentando un dibattito all’interno della stessa Corte circa le modalità di redazione dei provvedimenti, ipotizzando, alcuni, effetti di ulteriore aumento di produttività dall’adozione di stili di redazione delle pronunce improntati a maggiore sinteticità.
È, questo, un dibattito tutto interno alla Cassazione, in cui davvero non può entrare chi non si sia confrontato con quel difficile mestiere, se non ricordando che, molto spesso, per essere realmente sintetici (e non superficiali) occorre più tempo.
Ma, a parte tale ricorrente dibattito, da osservatore esterno e da lettore e fruitore delle pronunce della Cassazione non posso fare a meno di notare che anche i giudici della Corte suprema sono spesso vittima di un retaggio culturale, proveniente probabilmente dall’accademia, che induce alla redazione di “sentenze manifesto”, veri e propri saggi dottrinari, in evidente contrasto con quell’auspicata sinteticità. Si tratta di una tendenza che, da tempo, viene osteggiata quando emerge a livello di giudici di merito; ma che, pervicacemente, riaffiora anche (o soprattutto) in Cassazione, proprio per la già citata tentazione di privilegiare lo ius constitutionis. Sono consapevole del fatto che, a volte, specie quando la Cassazione si pronuncia a Sezioni Unite, per definire una linea giurisprudenziale, è quasi impossibile non sorreggere la decisione con un’articolata motivazione, che, nel dar conto degli orientamenti contrastanti sino a quel momento maturati, cerchi di rafforzare il proprio decisum anche attraverso il superamento di ogni possibile obiezione.
E, tuttavia, i giudici della Corte suprema devono essere consapevoli che le loro pronunce, specie a quel massimo livello, devono poter assolvere anche ad una funzione pratica, vorrei dire pedagogica, e devono essere immediatamente “spendibili” nell’utilizzo giurisprudenziale quotidiano. Ma è davvero difficile immaginare un siffatto utilizzo di sentenze che, pure, affrontano e decidono questioni di rilevantissimo rilievo pratico dando mostra di straordinaria cultura giuridica, ma che non riescono a contenere l’ansia ricostruttiva entro termini accettabili, al punto da dover, poi, redigere quasi una conclusiva “guida pratica alla consultazione”, con le istruzioni per l’uso [3]. Retaggio dell’accademia, o narcisismo dell’estensore, sta di fatto che passaggi di fondamentale importanza di pronunce che sono destinate a segnare l’evoluzione giurisprudenziale per i prossimi decenni restano misconosciuti e, praticamente, non utilizzabili.
6. L’instabilità giurisprudenziale (la “mono”filachìa)
Alcuni settori della giurisprudenza civile sono stati (e sono) caratterizzati, negli ultimi anni, da una particolare instabilità, dovuta, in massima parte, all’accelerazione di fenomeni di mutamento della società, rispetto a cui il diritto (quello enunciato nelle leggi, ma anche quello affermato nei tribunali) cerca faticosamente di tenere il passo.
Si tratta di un’affermazione agevolmente verificabile, ad esempio, nell’ambito delle controversie bancarie o in quelle relative a responsabilità medica, in cui l’evoluzione della società ha impresso un mutamento alle interpretazioni giurisprudenziali, passate (come nei movimenti di un pendolo, che si spera possa prima o poi raggiungere, se non un punto di perfetta stabilità, quanto meno ambiti di ragionevole oscillazione) da un atteggiamento assolutamente ostile a rivendicazioni dei clienti o consumatori nei confronti delle banche, ovvero dei pazienti nei confronti delle strutture sanitarie e dei medici, a posizioni spesso diametralmente opposte.
Altrettanto significativa appare l’evoluzione della giurisprudenza in materia di famiglia, nel tentativo di tener dietro al cambiamento del costume sociale.
Ora, a fronte di tali rapidi mutamenti, è naturale che il giudice di merito rivolga lo sguardo alla Corte suprema, per ottenere, quanto prima, indicazioni utili, individuazione di percorsi giurisprudenziali lineari, superamento di contrasti.
Da ciò una prima riflessione: sarebbe necessario che in sede di “spoglio” dei ricorsi in Cassazione vi fosse la sensibilità e l’esperienza (che può venire, a mio avviso, solo dall’aver percorso le tappe della giurisdizione di merito, soprattutto nel grado di appello, e dal provenire, in concreto, da quelle esperienze) per individuare prontamente le questioni che meritano una decisione veloce, in quanto idonee ad influenzare le future decisioni di merito. Si tratterebbe di un modo di procedere in grado anche di svolgere una funzione di economia processuale globalmente intesa, perché è del tutto evidente che affermare quanto prima possibile principi di diritto in materie nuove e controverse nel merito può valere a ridurre anche il numero delle decisioni difformi e, quindi, delle impugnazioni. E potrebbe, persino, ipotizzarsi una sorta di informale (o anche, in qualche modo, formalizzato) collegamento tra le Corti d’appello ed il ruolo della Cassazione, allo scopo di segnalare le questioni per le quali appaia auspicabile un intervento prioritario dei giudici di legittimità.
Ma, a parte ciò, e nel contesto attuale, si ha la sensazione, a volte, che la Suprema corte non solo non sia attrezzata per operare in tal senso, ma che lavori in modo da incentivare l’incertezza giurisprudenziale.
Nessuno può essere tanto ingenuo da stupirsi per contrasti giurisprudenziali, spesso inconsapevoli, in presenza di numeri tanto elevati quali quelli con cui si fronteggia la Cassazione civile. Ciò che, però, a volte lascia stupiti, ad una indagine un po’ più attenta, è il manifestarsi di orientamenti giurisprudenziali che fanno capo a singoli presidenti o, addirittura, a singoli consiglieri, e che sembrano volutamente prescindere dalla giurisprudenza della Corte. Forse anche per effetto del ruolo più pregnante che i singoli consiglieri sono andati assumendo in ragione dell’attività della Sesta sezione, sta di fatto che – sia consentita la battuta – a volte pare di trovarsi in presenza di una “mono”filachia, piuttosto che di una nomofilachia; di uno sforzo, cioè, di affermare e diffondere un proprio (legittimo) punto di vista, piuttosto che garantire l’uniformità del diritto e dell’interpretazione.
7. La rimessione alle Sezioni Unite
Ciò avviene in tutti quei casi in cui, improvvisamente, la Cassazione si distacca da propri orientamenti stabili (che non vuol dire, evidentemente, immuni da possibilità di critiche o revisioni), sotto la spinta (che traspare in controluce per chi sia appena un po’ addentro ai percorsi giurisprudenziali) di singoli consiglieri o singoli presidenti. Si tratta di scelte che, a prescindere dal merito delle soluzioni adottate, generano negli operatori (giudici del merito, ma anche e soprattutto avvocati) sconcerto, nell’incertezza tra l’affidamento in consolidate interpretazioni e l’adesione alla giurisprudenza più recente[4]; scelte, proprio per questo, capaci di generare contenzioso su contenzioso.
Il giudice del merito, al contrario (ma certamente anche l’avvocatura), auspicherebbe che, ove un orientamento più volte affermato nel passato risulti (come è del tutto naturale che possa avvenire) non più appagante, l’eventuale mutamento di giurisprudenza passi attraverso il vaglio delle Sezioni Unite, in modo da offrire una (relativa) stabilità al nuovo corso.
8. Una modesta proposta
Mi pare, a questo punto, evidente che, dal mio punto di vista, sarebbe quanto mai opportuno un confronto, un dialogo, uno scambio sempre più intenso tra giudici di merito e giudici di legittimità (ma anche tra giudici di merito di primo e secondo grado).
Un ruolo importante lo può svolgere, in questo ambito, la formazione, centrale e decentrata: è da vari anni, del resto, che vengono organizzati corsi (una volta, quelli gestiti dal Comitato scientifico del Csm; ora, quelli organizzati dalla Ssm) finalizzati proprio ad esaminare i rapporti tra legittimità e merito.
E, tuttavia, io penso che, per quanto meritorie, tali iniziative siano, alla prova dei fatti, insufficienti: sia in ragione del numero dei partecipanti coinvolti, necessariamente limitato; sia per le modalità stesse in cui tali corsi si svolgono, che non possono prescindere da strutture didattiche che, per quanto nel tempo aggiornate e riviste, finiscono inevitabilmente per risentire di un approccio di tipo, più o meno marcatamente, “scolastico”.
Ciò che è mancato, a mio modo di vedere, sino ad ora, è una vera e propria contaminazione tra i gradi della giurisdizione. Eppure, a tutti i livelli della formazione sono ormai da anni sperimentati, con buoni risultati, stages formativi sul campo, che prevedono, cioè, la fisica presenza del “discente” accanto al “docente” sul luogo di lavoro.
Forse, sarebbe il caso di sperimentare qualche forma di stage anche nei rapporti tra i gradi di giurisdizione: penso che la partecipazione, come meri “uditori”, dei giudici di primo grado ad alcune Camere di consiglio della Corte d’appello, e, più ancora, dei giudici di appello a quelle della Corte di cassazione (come del resto già fanno anche i Mot), offrirebbe spunti di riflessione e occasione di rimeditazione (prima ancora che della propria giurisprudenza) dei propri approcci al lavoro, molto più significativi della mera partecipazione, per quanto dialettica, a corsi di formazione teorici.
Allo stesso modo, sarebbe quanto mai auspicabile che i consiglieri della Corte di cassazione fossero sistematicamente coinvolti dalle strutture territoriali della Ssm in iniziative rivolte ai giudici di merito, da articolare per distretti e per aree tematiche: questo consentirebbe alla Cassazione, complessivamente, di conoscere per tempo il maturare di nuovi orientamenti di merito, di intercettare prontamente sensibilità differenti rispetto agli assetti di legittimità, di offrire “sul campo” un contributo qualificato e di segnalare ai giudici di merito i più ricorrenti errori riscontrati nell’esperienza quotidiana.
[1] Un esempio, tratto dall’esperienza concreta di chi si confronta con il contenzioso bancario, è rappresentato da Cassazione, n. 4518 del 26 febbraio 2014, che affronta e risolve il problema dell’onere della prova della natura solutoria dei versamenti in conto corrente ai fini della decorrenza del termine prescrizionale dell’azione di ripetizione; sentenza che non risulta ufficialmente massimata, pur essendo ampiamente citata dai giudici di merito, e che, forse anche per questo, risulta contraddetta dall’ordinanza della Sesta sezione n. 2308/2017.
[2] Perché non si pensi ad una generica ed indimostrata tirata polemica, si veda, per un caso concretamente capitato al mio ufficio, Cassazione n. 17143/2012 del 9.10.2012.
[3] Si pensi a Cassazione civile, sez. un., 12/12/2014, n. 26242 in tema di rilevabilità delle nullità contrattuali.
[4] In ambito bancario, si pensi alle sentenze della I Sezione civile del 2016, in materia di contratti cd. monofirma (cfr. in particolare 5919/2016); in materia di famiglia, si pensi alla recentissima sentenza, sempre della I Sezione civile, relativa alla determinazione dell’assegno divorzile (Cassazione 10 maggio 2017 n. 11504).