Magistratura democratica

La Cassazione multifunzionale nella compiuta globalizzazione socio-economica
(diagnosi e prognosi progredienti, al di là del puro anelito di nomofilachia)

di Claudio Consolo

La ricognizione delle criticità dell’attuale processo civile di cassazione viene condotta sulla base del richiamo, anche storico, dei diversi modelli di corti supreme e dell’opzione, infine affermatasi in Italia, per il modello cassatorio solo rescindente e fortemente verticalizzato. All’analisi critica delle innovazioni procedurali introdotte nell’ultimo decennio, in funzione del superamento di quelle criticità, si accompagna la formulazione di alcune proposte: dall’accentramento dei rinvii prosecutori davanti ad un giudice ad hoc, alla razionalizzazione di alcuni termini processuali, alla reintroduzione della pubblica udienza per i regolamenti di giurisdizione, specie quelli internazionalistici, all’abbandono del criterio dell’autosufficienza del ricorso, alla irrilevanza degli errores in procedendo non tradottisi in violazioni del giusto processo.

1. Le origini della scelta per il modello cassatorio e dei suoi contemperamenti

Per adempiere ad una cortese, quanto impegnativa proposta di un report che faccia il punto nautico di mutevole cammino, con dovuta nettezza e concisione e senza una esplicita attenzione ad una dilagante bibliografia, ovviamente tenuta presente e quando occorra echeggiata, iniziamo col dire che entrambe le scelte costituzionali di settanta anni fa si sono rivelate troppo impegnative e troppo strette. Sia quella del modello di un ultimo grado di pura legittimità e (almeno tendenzialmente) solo cassatorio; come pure quella – tanto più discussa e criticata, nata allorché gli avvocati erano troppi da decenni ma forse un settimo di oggi – di garantire l’accesso contro ogni sentenza civile in senso logico-giuridico, relegando codice e legislatore a disciplinare solo il “poi”, cioè le modalità del successivo “pieno” giudizio, eventualmente in modo un poco differenziato. Come sta appunto avvenendo, fra il 2006 e il 2016, sia pure al costo di crescenti complicazioni procedurali (che affaticano forse più i magistrati e i dirigenti degli avvocati). Poiché tutto deve poter entrare, oltre la soglia aperta, in base alla complessa apposizione di marcatori, con un quadruplice switch, avremo i quattro riti-regimi diversi: quello dello spoglio in Sesta per i casi di default (seppur anche per manifesta fondatezza); quello camerale scritto ma muto (anche adducendo che la argomentazione a voce è più adatta alle questioni di fatto, mentre il diritto si pondererebbe meglio in scriptura) nelle varie Sezioni; quello con oralità e repliche al procuratore generale che infine conclude per primo e deve sempre esserci; quello in Sezioni Unite, non mutato (salvo per le repliche orali al pg). Il dibattito sull'art. 111 co. 2 e sui suoi protagonisti lo ricordano bene tutti, e forse fu un po' troppo rapido e reciso, da entrambe le parti (Calamandrei e Leone per intenderci).

Vi fu sul concetto di giudizio finale di legittimità invece illo tempore un amplissimo dibattito postunitario, al cospetto allora della adozione di modelli differenziati nello ordinamento giudiziario degli Stati preunitari (e di una ancora avvertita eco rivoluzionaria in quello francesistico della Cassazione solo rescindente perché “pura” custode della legge e del potere di normazione, benché non assiso sulla sovranità popolare; per converso, il modello delle Corti supreme, quali sedi di un ultimo appello, presentava ascendenze di schietto diritto comune e poco compatibili con la novità del compimento del moto risorgimentale, trovando un modello nel Lombardo-Veneto, e in qualche staterello minore).

Tutto questo è ben noto e, seppur non di recente, ben studiato in dottrina. È una constatazione di fatto che la figura del ricorso per cassazione, specie nel nostro contesto di antichi moreslegali e in un humus socio-economico tanto diverso da quello dei due Paesi nordici in cui il modello della Cassazione/Revision – quest’ultima già meno pura – era giunto a ben radicarsi, difficilmente poteva assumere le funzioni proiettate verso l’attuazione uniforme del diritto oggettivo nazionale e del principio sincronicamente egalitario. Mentre era certo e financo voluto che il modello francese – nato in epoca monarchica, prosperato per effetto della rivoluzione, divenuto in seguito endo-giurisdizionale ma sempre esterno al rapporto processuale – si adattasse metamorfologicamente poco alla (rectius: alle) società della nostra penisola assumendo – salvo proprio nella Napoli, rimasta al modello costituzionale francese del 1807 – curvature nettamente inclini verso il potenziamento dello jus litigatoris (per equivoca e multisignificante che questa espressione così fortunata debba reputarsi: con Whitehead: cerca la semplicità e poi... diffidane). Questo era tanto più vero allorché la pur offerta scelta degli Stati sardi per quel modello (anche perché conservato e sviluppato dalla Restaurazione nella patria di origine) si legò alle varianti moderne post-1837 e si estese, quasi per inerzia, all’Italia intera, con l’appoggio post-risorgimentale di Pisanelli e nonostante le opposizioni, specie lombardo-venete. Si volle il taglio con il passato, ma con un giudizio ormai depurato da ogni valenza meta-giurisdizionale. Donde anche il potenziamento pretorio, via via, del controllo sul vizio motivatorio.

2. La peculiarità del nostro giudizio di ultimo grado rispetto al modello cassatorio puro: la natura fortemente verticalizzata e il ruolo immanente assegnato alla Suprema corte

Nel 1940, in chiave autoritaria avvengono cose importanti nel cpc, all’art. 360, e nel Regio decreto sull’ordinamento giudiziario, al celebre art. 65, sotto l’egida di Calamandrei autorevole ma anche (almeno allora) non poco sensibile al clima autoritario, sull’onda della unificazione romanocentrica di vent’anni prima e se vogliamo del magistero mortariano, ma soprattutto potendosi far forte dei riflessi rafforzativi della qualità dei giudizi quali propiziati dai caratteri di concentrazione e immediatezza del giudizio di primo grado (come tenne a mettere in risalto Andrioli nella introduzione alla ristampa del Trattato sulla Cassazione di Calamandrei, dando conto anche dei dissensi di Segni e soprattutto di Satta). La ritrovata curvatura verso la garanzia di quello che spesso (per approssimazione, ma ci intendiamo) si dice lo Jus Constitutionis non poteva essere più netta nel detto art. 65 ord. giud. e nel singolare non casuale chiasmo che esso, ad attenta osservazione, rivela: non custodia della esatta interpretazione e della uniforme osservanza – espressioni ben compatibili con il consueto compito giurisdizionale della tutela dei diritti applicando la legge –, ma uniforme interpretazione (vana essendo, o ritenendosi, qui la ricerca dell’”esattezza”) e, quasi militarescamente, esatta osservanza. E così ci si mosse in consonanza con la conservazione accentuata della concezione piramidal-gerarchica della magistratura e con il nuovo (tuttora ignoto in Francia e assente nel vecchio cpc) vincolo al principio di diritto già nel primo giudizio di rinvio e, anzi, con la sua sopravvivenza anche alla sua estinzione in ottica “panprocessuale”. Premesse per un più diffuso stare decisis,non più su basi culte (come era per le Corti viste in quest’ottica da Gorla) ma sul terreno dell’autorità costituzionale della Corte di vertice, della interna magistratura. In Francia il giudice di rinvio (e tanto più quello avanti al quale la stessa azione venisse riproposta) può invece da sempre e ancor oggi dialogare a fondo con la Cassazione, almeno in un primo stadio, con piena pariteticità culturale ed esperienziale. E il suo dissenso (non ribellione), mentre giustifica meglio la sopravvivenza di tale fase rescissoria presso le varie Corti di appello distrettuali (anziché in sede accentrata unica, presso la Suprema corte: v. oltre), dà anche luogo a molti, apprezzati, casi in cui le Sezioni Unite, nel secondo ricorso, assegnano la palma della interpretazione più “congrua” proprio al giudice del merito, più vicino alla fattualità clinica della lite di “fondo” anche nei suoi profili giuridici. Nonostante l’importanza di Parigi, “la provincia giuridica francese” – e la sua lunga tradizione di Parlements decentrati e di magistrati giansenisti e giuristi federalisti (specie nel sudovest e in Provenza) – mantiene un rilievo ben maggiore là che nello assertivo Stato sabaudo – romanocentrico, verrebbe da dire; così come in quella Repubblica francese meno si avverte il peso – seppur funditus rimodulato, ma da noi sempre vivo – del legame gerarchico o comunque di una netta scalarità di giochi di ruoli e funzioni di potere (ignoto all’ancien regime che aveva il suo sostrato nella fides feudale e poi limitò la “galleria degli specchi” e delle vanità a Versailles,e che i giacobini non fecero in tempo a contestare stante l'assoluto primato del potere sovrano legislativo delle Convenzioni e la temporaneità dei loro celebri due Comitati). Si noti come, negli altri due grandi ordinamenti adepti del modello cassatorio di fondo, le relative Corti di vertice siano ben meno verticalizzate e, come son solito dire, “immanenti” su tutto il sistema: ignoti vi sono sia il regolamento di competenza che quello (recte: quelli) di giurisdizione, sia la pur limitata (ma nell'ultimo lustro non poco espansasi, nonostante le critiche dottrinali, specie di Riccardo Villata) sindacabilità delle decisioni delle altre, in questo senso tutt'altro che supreme, Corti di vertice, amministrativo e contabile, per tacere del pieno sindacato di legittimità all'esito della giurisdizione tributaria pur speciale. Una Suprema corte di capillare presenza (ben più del prezzemolo cui una volta accennai scherzosamente: Schmerz und Ernst in Recht). Il Consiglio di Stato del resto anche lui si tien stretto il suo ruolo immanente, seppur non supremo, e qui non tanto ed inevitabilmente con i regolamenti di competenza (male del resto ... regolati nel C.p.a.) quanto con il pieno appello, neanche reclamo, su ogni genere di misura cautelare, impensabile nel suo tanto diverso genitore di Parigi.

3. Il coessenziale ruolo della ricostruzione del fatto in vista della funzione di guida coerenziatrice/specificatrice della Corte

Sia come sia, l’art. 111 co. 2 Cost., voluto da Calamandrei e benché le sue idee si videro in Costituente fortemente contrastate (non a caso soprattutto per impulso del partenopeo Leone, come ci ricorda documentariamente Scarselli), ha dato una forte e longeva copertura al modello testé a grandissime linee rievocato. E pochi ricordano come, su questi temi, le migliori indagini storico-comparatistiche, quelle di Gino Gorla, abbiano posto in luce che la lunga e fruttuosa tradizione delle vecchie Corti supreme, ben prima che il modello cassatorio si estendesse fuori del regio Conseil des parties (esso sì solo parigino) e prima che dilagassero nel XIX secolo i nazionalismi incomunicanti, appariva più aperta e capace di garantire un dialogo intenso fra le Corti nella ricerca delle migliori soluzioni (ragionevolmente) omogeneizzatrici, quindi anche al servizio di una proto-idea di eguaglianza dei litiganti a fronte della jurisprudence,formante di potenza inevitabile (benché definita la più detestabile delle creazioni istituzionali del giovane avvocato M. Robespierre, fondatore della moderna stagione della Cassazione nel 1790).

Anche la netta distinzione, oggetto di logomachie infinite e più o meno eleganti e riuscite (come tagliava corto Andrioli nella detta nuova introduzione), fra giudizio di fatto e giudizio di puro diritto – di cui, a varie riprese, e a fisarmonica, la storia del sindacato nel vizio motivatorio sul fatto ridisegna i confini – proprio Gorla dimostrò essere inessenziale se non addirittura nociva, alla estrinsecazione della funzione di guida della giurisprudenza ad opera dei giudici superiori (ignota nei Paesi dove non si affermò la spinta illuministica e, basilarmente, antigiurisprudenziale della Rivoluzione del 1789 – e così in common law, nel vasto mondo ibero-americano, nell’est europeo ... insomma in quasi tutto il mondo! –; quella distinzione rimane appannaggio della nostra fascia centrale dell’Europa e si salda al particolare amore per la “pura” riflessione giuridica che connota – quasi affligge – l’area giuridica italo-franco-germanica).

Di recente fu felicemente rimarcato (Irti, I “cancelli delle parole”, Napoli, 2015, spec. 27) come le norme, incluse quelle di grado più alto e generale ossia le norme-principii, si applicano per sussunzione e quindi per «riconduzione del fatto concreto alla norma ... e sua considerazione come caso di essa..../la norma/...» si piega «verso il fatto, e lo prende dentro di sé a modo di esempio quasi di prova dimostrativa», sullo sfondo udendosi la eco del passo giovanile leibniziano (nella tesi di dottorato a Lipsia, del novembre 1666, De casibus perplexis in iure, II) per cui «casus definietur factum in ordine ad jus»: la nomofilachia è un prodotto clinico, si origina dai casi, esige dunque di prendere le mosse da fatti sì giudicati ma in modo aderente al reale e quindi ricostruiti con motivazioni all'uopo sufficienti, non bastando che esistano, non siano stereotipe ed apparenti ed autocontraddittorie. Se no si farebbe, per altra via, quella che Jhering derideva come clinica giuridica dei «casi fatti per le cappelliere», insomma teste di legno.

Del resto, il divieto assoluto di conoscere del fondo dell’affare, non più pendente in alcun modo, era corollario di quella assoluta distinzione, che faceva della Cassazione all’inizio un organo collaterale del potere legislativo e, poi, un organo quasi più popolato di giuristi che di giudici (non da noi beninteso, dove la tendenza al terzo grado proliferava anteguerra e di nuovo incontrò pochi limiti fra il 1950 e il 2006, specie dopo che nel 1953 l’art. 111 co. 2, Cost. è stato ritenuto self-executive dalla Suprema corte). Meno nel mondo tedesco, fortemente invece in quello franco-italiano fino alle novelle del 1990 (in entrambi i Paesi venne meno dunque giusto 200 anni dopo la istituzione del parigino Tribunal de Cassation), il supremo giudice nazionale di finale pura legittimità doveva ritrarsi incondizionatamente. E ciò non solo rispetto ad ogni esigenza di riapertura istruttoria ma anche rispetto ad ogni accertamento, ad ogni rilevazione di pur già preformati, e ben utilizzabili pur in base al nuovo cassatorio principio di diritto, giudizi meritali sui fatti di causa ed anche rispetto alla rilevazione di fatti notorii, di fatti pacificamente ammessi e, poi, assai più spesso potenzialmente, di fatti non contestati, etc. Solo con il nuovo art. 384 si è aperta la via all’immediato e accentrato giudizio meritale post-cassazione quando, appunto, non occorra svolgere nuovi giudizi di fatto, seppure ex actis, ma solo rilevarne la intatta e conferente preesistenza.

Per incidens,quello che così va verificato – per sincerarsi della applicabilità del nuovo art. 384 – già più non è giudizio di puro diritto ma, anche qui, come per tutti gli errores in procedendo, per altro verso, integrerà una seppur peculiare forma, a sua volta, proprio di giudizio di fatto (e agli inevitabili errori nel compimento di tali delicate valutazioni neppure la avvenuta introduzione, già nel 1986, e il relativo potenziamento, nel 1990 e a seguire, della revocazione di decisioni di ultima istanza è valsa a porre rimedio, anche per una certa inconscia ma costante “asfissia applicativa”, va pur detto).

Così come in certe materie di settore, ad es. in punto di ricorsi contro le decisioni disciplinari, lo stesso giudizio cautelar-inibitorio non è ex se sempre precluso alla Suprema Corte, sì che – se passerà l’idea che la impugnazione per nullità dei lodi rituali si porti direttamente in Cassazione (progetto di riforma delle ADR di quest’anno) – la relativa inibitoria potrà ben attribuirsi direttamente alla Suprema corte, pur se – ad altri fini – l’art. 373 cpc continua a dislocare analoghe funzioni presso i giudici a quibus.

4. Le innovazioni apportate nel decennio 2006-2016: il quesito di diritto e le sue potenzialità, se bene inteso

Veniamo, con ciò, per grandi balzi, all’oggi e alle prospettive evolutive, non più nazionalistiche né verticistiche, che è chiamato ad assumere un rammodernato esercizio, anche in grazia della integrazione Ue, della cd. nomofilachia (altro termine non proprio univoco, ma che riassume lunghi discorsi e che, pur con amore/diffidenza, per la semplicità, ci azzardiamo ad impiegare). Ferme dunque le scelte costituzionali, pur se non ci si deve illudere che almeno a tal riguardo esse, e la loro stessa ubicazione in un contesto reso ancor più rigido dalla riforma costituzionale del “giusto processo” del 1999, fossero e/o continuino a rivelarsi di assoluta felicità e proficuità; fermo altresì, almeno nel medio periodo (diciamo per i prossimi 20 anni), il dato rilevantissimo del numero spropositato di avvocati cassazionisti e la loro non specializzazione (dato sistemologico stridentissimo con gli altri due Paesi caratterizzati dal modello cassatorio di puro diritto); ferma, infine, la impossibilità organica di aggiungere altre nuove sezioni civili alle 5 + 1 attualmente all’opera alacre e/o di ingigantirne ancora la composizione... che si è fatto e che cosa gioverebbe fare ancora? Almeno a titolo di prima concretizzazione esemplificativa. Per queste ragioni la Cassazione civile italiana ricorda un poco un grande elefante, dalla memoria storica lunga, ma di enorme stazza – mentre, più o meno, tutte le altre Corti supreme sono animali di piccola taglia, molto più agili –, sì che solo la sua sensibile proboscide gli assicura movenze più strategiche ed in questo troviamo adatto che le innovazioni vengano, direttamente od indirettamente, concepite ab intrinseco, come nel 2006, 2009, 2012, 2016.

a) Fra queste novità la più soft,eppure più positivamente influente, appariva la prima, quella sull’onere di un pertinente quesito di diritto. Con esso non si vuole abbandonare la fattispecie concreta e spesso una scaturigine intrisa di suggerimenti ermeneutici che solo un giudizio di fatto non superficiale o insufficiente può vivificare nel moto dal concreto alla tipizzazione astratta (secondo il “circolo” gadameriano-esseriano che mal si addice a questioni di puro e liofilizzato diritto, a conferma della prospettiva storica gorliana di ermeneutica di omogeinizzazione della giurisprudenza ma radicata nel fatto ben ricostruito), ma si esige un finale sforzo di astrazione e di allargamento generalizzabile dell’orizzonte di senso applicativo. La interpretazione normativa, e più ampiamente la opera ermeneutica del giurista, appartiene, al pari di quella dei musicisti (Pugliatti, in polemica con Parente, e in common law Franck sospinto dal compositore austriaco emigrato Krenek), al genus performativo di uno o anche molti contemporanei testi: nel dar loro vita e concretezza (una endiadi) attraverso la nomopoiesi, cioè la ricerca-inventiodella norma applicabile al caso, ossia al fatto selezionato che si proietta verso una regola, spesso assai complessa, ogni giudice, Cassazione non esclusa, non può far opera di pura e appartata riflessione giuridica. La garanzia contro l’arbitrio (cui potrebbe condurre sia la guida di vertice sia il sottostante carattere decentrato, processo per processo, della specificazione del dettato normativo, più o meno evidente a seconda degli ordinamenti, ma sempre presente) risiede principalmente nel carattere collettivo e polifonico – sia nel tempo che nello spazio (sincronico e diacronico) – nonché nel conseguente carattere dialogico, dentro e fuori il mondo giurisdizionale, della ricerca del senso giuridico degli enunciati contenuti nel documento legislativo. La partecipazione di tutti i consociati, dei loro consulenti ed avvocati (giuristi proponenti) – oltre e prima che dei giudici (giuristi giudicanti) –, a questo lavorio continuo di espressione concreta dell’ordinamento giuridico, assicura a tutti che la volontà del legislatore, di qualunque legislatore sia legittimato ad operare entro quel dato ordinamento (democratico o meno che esso sia), non venga tradita, o almeno che ciò non possa accadere per il mero arbitrio di uno o più organi giurisdizionali ma solo in base ad un fenomeno partecipativo più o meno ampio. Di questo sforzo collettivo e pluralistico il processo giurisdizionale, e in cima il giudizio di cassazione, è momento saliente. Ma non esclusivo ed inoltre questo ruolo centrale non è giocato dal singolo processo, ma dall’intreccio sincronico e diacronico di tanti dibattiti giudiziari e di tante sentenze e correlate vicende impugnatorie (appelli, cassazioni, rinvii, etc.), nonché degli echi dottrinali che esse provocano e, più ancora, dei riflessi che se ne avranno in successivi processi in cui ricorrano le medesime o analoghe questioni giuridiche, anche attizzando la fantasia degli avvocati. Il processo giurisdizionale solo semplicisticamente è quindi detto mezzo e strumento di attuazione del diritto sostanziale e la Suprema corte quale sua guida; a meglio vedere il moto delle cose nella loro mai dipanabile del tutto e tanto screziata tessitura, il processo e i suoi precedenti rimangono momento per eccellenza (non esclusivo, eppure eminente anche negli ordinamenti che si dicono – di nuovo con una approssimazione – “a diritto scritto legislativo”) del plasmarsi dell’ordinamento giuridico.

Il diritto processuale, poi, regola sì i modi del processo (o meglio: dei vari tipi di processo), ma esso pure non è solo enunciato legislativo o codicistico, bensì la risultante di un proprio precipitato concretizzatore di interpretazione, il quale qui però – per l’oggetto stesso della norma che deve scaturire dalla interpretazione (volta a regolare il processo) – si compie pressoché per intero ad opera di giudici ed avvocati nel processo, e non anche innanzitutto nella società e in via diffusa: una interpretazione, insomma, a polifonia solo ristretta (e un poco corporativa), che può con facilità subire il rischio grave di arbitrii o fossilizzazioni (il cd. Stylus Curiae) che acuiscono particolarmente, nel campo del diritto processuale, lo scarto fra diritto on the bookse diritto in action.Ciò avviene dunque proprio per la ristrettezza del campo degli interpreti che possono interloquire efficacemente al riguardo e, più ancora, a cagione dell’interesse pratico che può accomunare giudici ed avvocati nel discostarsi, eludere – o talora evadere marchianamente – il precetto legislativo.

È stato esattamente notato che «... diversamente dagli altri prodotti umani ... la norma giuridica (una volta che è presente) non è affatto indipendente dal comportamento degli uomini a cui essa si riferisce ... le norme giuridiche non vengono immesse nel flusso della storia come prodotti finiti dello spirito umano». «Il complesso sistema di massime di azione, forme di pensiero, misure di valutazione, decisioni di volontà, utensili spirituali, routine procedurale, che chiamiamo diritto, non è una teoria. È piuttosto una prassi vitale degli uomini ... è sempre ciò che gli uomini, a cui esso si riferisce, fanno di lui» (G. Husserl, Diritto e tempo [tit. orig. Recht und Zeit. Fünf rechtsphilosophische Essays, Frankfurt a.M. 1995], trad. it., Milano 1998, pp.35 ss.). Difficile negarlo.

Se questo è il contesto la nomopoiesi non può avvenire mai, e certo non ben producentemente, in un vacuum di fattualità.

Francamente errato è stato, invece, estendere l’onere del quesito intimamente giuridico anche ai regolamenti di giurisdizione e, più ancora, alle revocazioni, nonché – qui la pecca era già nella norma – di cercare un suo equipollente anche quanto al vizio motivatorio di cui al n. 5.

Ancor più inappropriato, soprattutto, è stato, nel triennio di vigenza del quesito, aver talora preteso che esso potesse assurgere a progetto puntualissimo e impeccabile di futuro principio di diritto, svolgendo non solo la proposta – tipica di un instante – ma anche la risposta e, ovviamente, quella ex post reputata “esatta” da questo o quell’esigentissimo giudicante.

Il quesito andrebbe reintrodotto, direi solo per il n. 3 e, purché non manchi, non a pena di inammissibilità (il suo pregio rileverà tuttavia per la quantificazione delle spese, al pari della famosa concisione).

5. ... e la grave resecazione del controllo motivazionale anche in termini di (minor) effettività della tutela, e i rinnovati ruoli dell’art. 363 cpc

b) La innovazione meno producente, per le ragioni già emerse, direi sia la radicale resecazione – sono crude espressioni della Corte stessa – del n. 5 per rendere il controllo della motivazione in fatto raro e ineffettivo, ridotto in sostanza alle omissioni, evidenti o mascherate, e quindi, fra l’altro, con regola applicativamente distonica rispetto alla pure introdotta esclusione del sindacato ex n. 5 nei casi di doppia statuizione in tutto conforme negli snodi (o non solo nell’esito) della motivazione in fatto. Sia pure con il dovuto restraint, magari quasi a titolo esemplare, la assoluta finalità del giudizio di fatto dei giudici di appello (e la sua percezione ormai diffusa) non giova al sistema e al ruolo pienamente giurisdizionale della stessa Cassazione (come ben nota Irti): la radicale insufficienza deve poter essere attaccata, anche perché le parti di tali “cadute” si avvedono molto bene e non comprendono perché una Corte, comunque elefantiaca, voglia e possa ritrarsene quasi del tutto, rimuovendo un prezioso deterrente e stimolo alla qualità del fact-finding meritale.

Anche un equilibrato n. 5 esprime, dopo tutto, una forma di guida della giurisprudenza, non in apcibus iuris eppur preziosa.

b1) Il sindacato sulla applicazione sia delle clausole generali sia più latamente dei concetti giuridici a fattispecie indeterminata esprime un acquisito[1], ed irrinunciabile, terreno di applicazione di una moderna nomofilachia del concreto, al servizio invero specie delle scelte e comportamenti futuri sia personali sia economici. Una amputazione-resecazione tanto marcata, quanto dopo il 2012 le Sezioni Unite hanno professato, nell'accostarsi ai fatti della causa e alle loro ricostruzioni, priva di retroterra quel sindacato e lo vota al rischio di generica declamatorietà. È vero che un esame del fatto lo si ha, se no a monte del n. 3 andrebbe dedotto un vizio di n. 5, ma se quell'esame ha originato ricostruzioni piatte od evanescenti, come applicare ad esse la ars specificandi et distinguendi di cui la concretizzazione della clausola abbisogna, e da cui la Suprema corte non deve estraniarsi sol per non contaminarsi.

La svolta, da alcuni tanto auspicata, ancora non è stata valutata in tutti i suoi risvolti effettuali, taluni decisamente non augurabili. Si consideri che la Cassazione francese, invece di contrapporre in modo filisteo fatto e diritto, lavora soprattutto nella area di congiunzione, con le varie aperture cassatorie fra cui quella della “manque de base legale” viene considerata pierre de tache dell'intero istituto cassatorio. Miglior cosa è consentire – magari con la formula “grave insufficienza” nel n. 5 – forme di controllo anche da noi più selettivo e non meccanicistico, ma pur sempre capace di evocare quel concreto che è dopo tutto connotato di ogni ben proporzionato jus dicere (non assente infatti, anzi, neppure nella fase in iure della iurisdictio formulare classica in Roma).

La centralità del merito, anche in sede di nomofilachia, ivi quanto meno prospetticamente, a me appare un diretto corollario del canone generale della effettività della tutela e pur la ragionevole durata acquista valore reale se ciò che si attende (non troppo) è una adeguata decisione del merito, anziché sue svariate declinatorie od ablatorie.

c) Non torneremo in questa occasione a considerare né l’operato demandato alla sezione VI (che evoca il modello antico e ricorrente delle “camera delle richieste” di formazione o più strette o juniores) e neppure le adunanze non partecipate che si svolgeranno (grossomodo) per il 75% circa (?) dei residui casi presso le altre cinque sezioni (che pure hanno precedenti nelle proposte di tarpare la loquela degli avvocati e dei procuratori generali avanti la Cassazione di Napoli, che peraltro – essa sì – era coniata e conservata sul modello francesistico–muratiano del 1807, tutto teso allo Jus Constitutionis,a differenza della Cassazione piemontese tarata sul modello parigino del 1837).

d) Quanto all’antico lineamento dell’art. 363, la sua rivitalizzazione normativa, non più recentissima (2006), e quella organizzativa, spronata dalla novità della relativa infrequenza della udienza pubblica (2016), non consentono ancora di valutare quanto grande sarà l’apporto non solo (e qui non tanto) alla uniformazione della giurisprudenza quanto soprattutto alla evoluzione delle soluzioni arretrate o poco soppesate. Prezioso è arare, ad opera del Procuratore generale, il campo “solitario” delle decisioni diverse dalle sentenze e non (o non più) impugnabili, con ricadute utili – del resto – per il caso di specie stesso, almeno tutte le volte che siano decisioni (poi) revocabili (come notavamo, con esemplificazioni, nella introduzione del libro su Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Cedam, 2012). Sì da evitare, almeno in tali casi, il paradosso del giudicato stabile ma esecrato, ed ufficialmente, quale ingiusto, che scuoterebbe la coscienza sociale di molti cittadini e osservatori, posto che l’operato di un organo giurisdizionale si stenta ad ammettere possa avvenire nel solo interesse collettivo futuro (come denota il dibattito acceso dalla statuita non irretroattività di talune decisioni di accoglimento della Consulta, per “bilanciamento sistemico” con altri valori, che quindi non “premiano” neppure il caso originante la rimessione, come invece in tali casi-limite avviene in Austria: il cd. premio di preda).

6. Alcune proposte organizzative: l’utile accentramento per i giudizi di rinvio prosecutori ...

e) I ricorrenti, talora autorevoli (da Monteleone, a Cipriani a Proto Pisani stesso), inviti a riaprire il tema delle Cassazioni macro-regionali – per quanto, a rigore, l’attuale soluzione unitaria accentrata sia frutto di norme transitorie, che riservavano un esame più approfondito a questo antico e sempre un po’ dolente “spigolo politico” – vanno costantemente lasciati cadere. Forse, in un qualche futuro, stante il loro carattere spiccatamente settoriale e largamente indipendente, le sezioni IV (lavoro) e V (tributaria) potrebbero dislocarsi fuori Roma, ad es. rispettivamente a Firenze (ove vi è un bello spazio libero nella vecchia Corte di appello) e a Bologna o Milano. Se non fosse che così probabilmente si rinfocolerebbe la pretesa statutaria – ma assurda – ad una sezione “onnivora” a Palermo, assai meno positivamente simbolica di congruenza distributiva pur sempre ... cum Petro et sub Petro (le Sezioni Unite). E a proposito di sogni: tutte le quattro sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, in palazzi non romani più appartati ... a Torino, ove nacque, o a Firenze ove già fu.

e1) Piuttosto, se il giudizio di rinvio prosecutorio – successivo dunque ad annullamenti con principio di diritto ai sensi del n. 3 (là dove l’art. 384 non sovvenga), e non invece restitutorii indietro – continuerà ad essere totalmente vincolato (e non credo che l’esempio dialogante francese da noi attecchirà), si potrebbe all’uopo allora creare, per le sole liti civili (escluse le sez. IV e V) un organo “di completamento” del giudizio di fatto presso o vicino (in tutti i sensi) la stessa Suprema corte, amerei fosse a Napoli, con un rito speciale e fulmineo per queste poche centinaia di casi annui (magari utilizzando spazi e risorse umane liberate dalle scelte sopra adombrate, nonché da disponibilità ad un opera part-time di magistrati già cassazionisti di recente pensionati o ... pensionandi). Non solo potrebbe riapparire qui, in cauda, qualche curvatura conciliativa, ma certo si stempererebbe così alquanto il rischio di ulteriori cassazioni (ricorsi e talora accoglimenti, magari ancora con rinvio); certissime lesioni dell’art. 6 Cedu per (assai) irragionevole durata; e al contempo tentazioni di utilizzare troppo proattivamente l’art. 384, allorché capiti che qualche ulteriore accertamento di fatto, o brevi messe a punto istruttorie, appaiono davvero meglio confacenti a giustizia e a pienezza del contraddittorio. L'accentramento geografico, per tali fasi rescissorie prosecutorie, va visto con favore perché è coeso con la centralità del giudizio di cassazione (Napoli è a un’ora da Roma, raggiungibile prima e molto più comodamente di vari suoi quartieri).

I rinvii restitutorii sono invece, magari con ampie istruttorie, veri giudizi di appello (talora addirittura di primo grado) che riprendono il loro corso, necessariamente vicino alle parti e alle fonti di prova. La obsoleta e unitaria disciplina degli artt. 392-394, intonsa da ottanta anni, risente di vecchie idee sulla straordinarietà del grado di cassazione, finito il quale si esige quindi una nuova notifica personale ed una riassunzione a pena di diseconomica estinzione dello intero giudizio allorché nei giudizi restitutorii andrebbe ristretta la applicazione del drastico, ma oggi onnicomprensivo, art. 393 attuale (molto diverso dalla soluzione francese). Una ritrovata attenzione per la sottigliezza della scansione di norma liquidata con la doppietta rescindente/rescissorio varrebbe a sdrammatizzare il peso del giudizio di rinvio e quindi le odierne remore ad accedervi.

Diffiderei infatti, pertanto, anche di cassazioni senza rinvio adottate solipsisticamente in camera di consiglio (la revocazione essendosi oltretutto rivelata rimedio utopico e spuntato).

7. ... altre proposte di dettaglio per il buon governo del giudizio di legittimità: termini (ri)unificati e anticipati per memorie; spatium deliberandiper le repliche orali al Procuratore generale; udienza pubblica per i regolamenti di giurisdizione (specie di DIP)

Ulteriormente, e sempre più nel dettaglio:

f) Un piccolo esempio davvero de minimis: il termine per la breve memoria ex art. 378 cpc, nel 2016 sdoppiatosi, andrebbe riunificato (anche per i termini, come per i riti, gioverebbe il rasoio di Guglielmo da Ockham) ma in più anticipata guisa: sempre di 15 giorni, per letture e repliche meno concitate. Personalmente non nutro soverchi rimpianti per il rito camerale cd. opinato (cioè per la sfida a far mutar mente al relatore o a farlo mettere in minoranza: entrambe scalate di sesto grado).

f1) Continuando a “scendere” nel dettaglio, ammetterei che i regolamenti di giurisdizione più complessi – specie quelli internazionalistici, in gergo DIP, da “ricarburare” nella cornice della competitività fra fori – possano giovarsi della pubblica udienza e del dibattito sulle conclusioni del Procuratore generale. Oggi è precluso, eppure questo è il “passaporto” internazionale più visibile della nostra Suprema corte e il regolamento DIP lo pone in più diretto dialogo con le Corti e in genere gli osservatori degli altri Paesi.

f2) Per agevolare, in generale, nei casi “alti”, quella dialettica di nuovo tipo, dando un minimo di agio ai difensori per interloquire con il Procuratore generale, prevederei che i giudizi in udienza vengano chiamati per gruppetti di 4-5 per le relazioni e soprattutto per le conclusioni dei Procuratore generali che parlano finalmente per primi (ma avanti a difensori rimasti fino ad allora “al buio”) , sì che i patroni non vengano presi del tutto alla sprovvista, possano dunque consultare le loro carte, fare rapide scelte collegiali, etc. Ognun vede quanto meglio sarebbe allorché la scelta stessa di “chiamare” una vera udienza, in grazia del riconosciuto rilievo giuridico (e credo possa farlo anche la sezione che reputi alcuni casi inadatti al “rito” camerale e al correlato stile stringato della conclusiva ordinanza), denota la esigenza di un vero dibattito nomofilattico nello stile delle, pur così diverse dalla nostra (e fra loro), Corti supreme europee. Dovrebbe all’uopo finanche consentirsi di parlare da seduti, per meglio giovarsi di (non leggere gli) appunti e documenti. Senza tentazioni oratorie, come in un convegno. Almeno dove ancora residua, alle virtù di una ben educata oralità, dobbiamo (tornare a) credere non solo ad pompam. Benvenute siano anche le domande, specie di presidenti e relatori, agli avvocati (e, seppur di rado, perché no?, ai Procuratori generali: in futuro le loro conclusioni andrebbero registrate e pubblicate con le sentenze). Ed anzi proprio questi possono essere i criteri di selezione per lo switch.

f3) Alla sezione tributaria, per le sue indubbie peculiarità (e non solo quantitative, frutto del retroterra in senso lato “laico” dei giudici di merito) riserverei un apposito discorso, ma in altra sede.

f4) Va anticipata la discesa del numero degli avvocati cassazionisti, e rafforzata la capacità selettiva del nuovo corso-concorso del Cnf.

f5) L'arretrato, pari a più del triplo dell'output decisorio annuo (e delle pari circa sopravvenienze) inquieta molto, ma esso è destinato a calare ed inoltre, secondo una personale esperienza, visti dal di dentro del rapporto con le parti, due terzi dei ricorsi e ricorsi incidentali non presentano, né soggettivamente e spesso neppure oggettivamente, alcuna esigenza di particolare sollecitudine, le motivate istanze di anticipata trattazione sembrano venire agevolmente soddisfatte.

È pur vero che molti difensori, per garbata timidità o altre volte per una sorta di atavica scaramanzia, pur quando il cliente ha davvero interesse alla rapidità, omettono di inoltrare, o talora di ben motivare, quel tipo di istanze ai presidenti titolari. Sovviene una via di uscita, atta anche ad offrire un indice serio del reale bisogno sociale di celerità: la cancelleria centrale, depositati i due o più atti introduttivi, mandi una mail ai difensori costituiti chiedendo loro sia di dare un numero, da 1 a 5, alla reputata complessità del caso, sia un altro numero analogo quanto alla avvertita esigenza di celere definizione. Si constaterà che la regola del first in, first out può essere ragionevolmente e trasparentemente derogata, senza, con la attuale elevata produttività, soverchio affanno delle strutture.

8. Contro l’attuale conformazione dell’autosufficienza (il ricorso come strumento e non oggetto del vaglio della Suprema corte) ed un possibile ripensamento sulla deducibilità degli errores in procedendo. Una cauta, possibile, valorizzazione dell’art. 360-bis n. 2

g) Poco aggiungerò qui quanto alla sinteticità degli atti (su cui v. da ult. il lassez fairerispetto ai rigorismi misuratorii del Consiglio di Stato adottato, credo per fini didascalici, affinché ... suocera intenda, da Cass. sez. un. n. 964 del 17 gennaio 2017, pres. Rordorf, rel. Ragonesi) e alla invenzione opportunistica – che mortifica la dignità di difensori che si vorrebbero di élite, e a ben vedere mortifica anche quella dei giudici come nessuno ha notato ma on reflection non tarda a palesarsi – della cd. autosufficienza delle trascrizioni di mole di documenti e atti processuali, da acquisire invece non con questo infido mezzuccio ma infine in presa diretta ad opera di efficienti cancellerie e stagisti, sentenze di primo grado non escluse (per le ragioni di sì drastiche conclusioni, sulla linea indimenticabile di Edoardo Ricci, v. Consolo Il ricorso per cassazione tra sinteticità e completezza – il protocollo redazionale Cnf-Cassazione: glosse a un caso di scuola di soft law (... a rischio di essere riponderato quale hard black letter rule); un po' diversamente Frasca, Il ricorso per cassazione tra sinteticità e completezza – intorno al protocollo fra corte di Cassazione e Cnf sui ricorsi civili; elegantemente Pagni, Il ricorso per cassazione tra sinteticità e completezza – chiarezza e sinteticità negli atti giudiziali: il protocollo d’intesa tra cassazione e Cnf, tutti nello speciale di Giur. it. n. 12/2016); ebbene, aggiungiamo qui solo che ben raramente potrà e dovrà dichiararsi per tali ragioni la inammissibilità.

La Corte sarà certo più giudice delle sentenze che delle cause, ma certo mai è stata pensata o può atteggiarsi quale giudice della ottimale fattura dei ricorsi. Il ricorso deve essere sì valutato ma solo come veicolo ragionevolmente idoneo a far conoscere della legittimità della decisione impugnata, seppur sempre entro il (e come ultimo grado del) rapporto processuale (mentre è sempre “esterna” – e in questo senso impugnazione, cd. straordinaria ex art. 324 cpc – la revocazione per qualunque motivo).

h) Last but not least: il rapporto fra la Suprema corte, la nomofilachia e gli errores in procedendo(ove essa è pacificamente anche giudice del fatto, benché solo di quello endoprocessuale). Su poche, o non molte, delle cose anzidette vengo riferendo di mie incrollabili certezze (esse non sono granché cresciute di numero da quando nel 1986, iniziai a discutere au Palais, avendo però scritto il primo ricorso nell’estate del 1978: gli avvocati e le facoltà giuridiche, a Roma da una siamo oggi a quindici, molte davvero incredibili, erano un terzo che nella odierna cairota plaga). Quest’ultimo argomento è comunque quello su cui ne ho distillate meno che su ogni altro. E non solo perché l’art. 360-bis,n. 2, è (e forse fu voluto, nel 2009) singolarmente criptico. Di nuovo si avverte che il nostro antico elefante, con la sua lunga memoria, non ha dimenticato che né l’organo (di ancien Regime, rivoluzionario, della restaurazione, della ricezione a Torino o a Napoli ...) né la funzione, più o meno da esso scollata, sono concepiti e vivono in ragione della salvaguardia del corretto ordo procedendi delle cause civili. Certo anche le violazioni processuali alimentano vizi (e motivi) di legittimità, sia pure con cognizione estesa al fatto (del resto ciò vale anche per le violazioni processuali che, nessuno è perfetto in condotta, compisse la stessa Suprema corte: tema su cui, mezzo secolo fa, rifletteva in Giur.it. Giovanni Conso, potendo rinvenire pochi rimedi: qualcuno di più lo esibisce la osservazione della prassi autotutoria della Cassation parigina). Calamandrei insistette molto (anche su ciò richiamando importanti, ma tradizionaliste, critiche di Segni, Finzi, Satta, Mazzarella) sul fatto che tale tipo di sindacato è stato, in sintesi, un di più, non essenziale, e talora anzi dispersivo, rispetto alla missione dell’istituto, come lui la vedeva e un poco anche come era razionale svilupparla seppur più accorta alla tutela dei diritti soggettivi.

È un fatto comunque che l’art. 111 non distingue quanto alla fonte giuridica degli errores ma è altresì vero che vi è qualcosa di sproporzionato nella realtà da tanti lustri invalsa: la Suprema corte dedica almeno metà del suo tempo e del suo prodotto a sindacare veri o affermati vizi di procedura, opera massicciamente quale arbitro minuto del rispetto delle regole del gioco processuale, disperde spesso in tale giungla di accadimenti (e nel seguire il gioco di somme, o di elisioni nei casi fortunati, di falli e di errori di tutti i protagonisti) la propria concentrazione nomofilattica, là dove non è in gioco il nucleo essenziale dell’azione, difesa e giusto processo. A nessuna altra Corte suprema accade alcunché di lontanamente simile (a quella di Londra, ovviamente, meno che a tutte: il last resort per le rules of procedure è la Court of appeal; anche in Francia mi pare crescere una inclinazione in tal senso, lì dunque decentrata, come ora per gli antichi Parlements... veri covi di acuti proceduristi).

Per conseguenza, in materia procedurale i contrasti – quelli sincronici, si badi bene – sono ancor più frequenti, instabili, movimentati, soggettivisticamente talora atteggiati. E su questi temi le stesse Sezioni Unite (talvolta) brillano ma non sporadicamente vedono durare lo spazio di un mattino (due o tre anni) il vigore, al proprio stesso interno, di sofferti ed ampli pronunciamenti (e.g. si ricordano le vicende dell’omessa sottoscrizione, della doppia data, dell’ordine delle questioni, delle prove indispensabili ex art. 345 e 437, della individuazione delle eccezioni in senso stretto – qui però con un certo serissimo gradiente sostanziale –, del ricorso incidentale condizionato, del campo devolutivo dell’art. 346, di quello sospensivo dell’art. 337, co. 2, del rapporto fra regolamento di giurisdizione e litispendenza transnazionale, del mobile e minaccioso perimetro del divieto di frazionamento della domanda, e via riempiendo riviste e commentari ... alla ricerca del modus procedendi più impeccabile).

È un dato sistemologico per molti versi immutabile – specie a fronte di una “grossa” Suprema corte e di questioni trasversali a quasi tutte le sue sezioni senza alcuna specializzazione (come invece avviene in capo alla seconda chambre civil della Cassation francese) –, ma su di esso può pensarsi a qualche modesto morigerante correttivo, anche riscoprendo un senso all’elusivo (fin qui ignorato, salvo in una sola pronuncia) ma potenzialmente austero e grandemente riformatore n. 2 dell’art. 360-bis? Anche “inclusivamente” beninteso (cioè, rendendo deducibili violazioni del giusto processo non normativizzate nel cpc: ad es. in materia di imparzialità non deducibili con l'art. 51 cpc, notoriamente non un guanto su misura).

Potremmo per i “meri” errores in procedendo pur sempre parlare di nomofilachia, ma sotto radice quadrata specie per gli errori di attività pura, di questa o di quella parte o giudice, rimanendo più sostanzioso – e meno aperto al gioco della elisione – il caso degli errores (in udicando de iure) procedendi in cui si deduca essere incorso il giudice di appello. In questo senso si può azzardare la congettura che il n. 2 dell’art. 360-bis, questo sì certo condizione di ammissibilità e non di fondatezza, operi anche una cesura verso il basso: in sostanza, salvo allorché si tratti di errori di attività gravi ed atti a incrinare lo stesso “giusto” processo sotto un qualche suo profilo, possa consentire di non trascinare fino in Cassazione le questioni di rito nate in primo grado e già riviste in appello, imponendo allo scontento di appagarsi di un solo grado di riesame sui vizi di ordine minore. Naturalmente sono prospettive non ben mature e tratteggiare un confine non è agevole e alle questioni che integrano violazione del fair trial per rispetto al principio di uguaglianza si dovrebbero aggiungere, nel lasciare in vita il sindacato, quelle deviazioni gravi e ripetute che rischiano di creare riti localistici (“protocollari” o meno) e accomodamenti bisognosi, pure essi, di verifica nomofilattica (ma magari anche ex art. 363 cpc). Quanto alle Sezioni Unite, sulle residue questioni processuali, crederei vadano accentuate le esplicazioni della totale collegialità, dunque anche redazionale e, con vari accorgimenti compositivi, escluse soluzioni di stretta maggioranza, ammettendo financo nuove udienze a composizione ulteriormente allargata (quello del superamento del numero fisso a priori è carattere affascinante e forse promettente del processo inglese).

Un uso avvertito della proboscide, graduale ma deciso, può quindi nutrire e dissetare il nostro amato elefante e i suoi, oggi si direbbe, non realmente conflittuali stakeholders (giudici della Suprema corte, parti di quei giudizi, giudici di merito, parti di quei giudizi o amplius consulenti pro futuro), sì da propiziare soluzioni win-win entro una corrente di mutua (ritrovata) calda simpatia, che allora potremo, se piacerà, anche chiamare di cooperazione nomofilattica. Che dia a Cesare, cioè all'esame, penetrante seppur estrinseco e non più frontale, della congruenza costruttiva dei già compiuti giudizi sul fatto, quel che è di codesto terreno immanente Cesare, e al Diritto superno ciò che realisticamente esso consente di ricevere dai suoi smaliziati fedeli.

[1] Le doglianze rivolte verso la specificazione, compiuta dal giudice del merito in relazione al caso di specie dei cd. concetti giuridici indeterminati, o “concetti elastici” di adattamento continuo del diritto al variabile sentire sociale, concretano infatti errori di diritto in iudicando. Questa idea muove da un riflessione, ormai risalente nel tempo, sugli standard valutativi, cioè su quei contenuti di valore della norma giuridica che emergono proprio attraverso l’operazione valutativa della giurisprudenza. Si attua in sostanza una sorta di integrazione normativa, la quale trova alimento in una pluralità di fonti, che solo per comodità descrittiva potremmo definire di rilevanza sociologica, ma che sono il vero veicolo di flessibilità dei precetti elastici. Queste proposizioni recano con sé tre ordini di questioni: un interrogativo ordinamentale, posto dalla natura non politica del giudice nel nostro sistema costituzionale (art. 101, co. 2, Cost.), con l’inevitabile ritrosia verso interpretazioni della norma che favoriscano lo sconfinamento dell’organo giudiziario nel campo della discrezionalità propria del legislatore; un problema di diritto sostanziale, costituito dall’individuazione delle fonti di emersione dei valori anzidetti; il dubbio di carattere processuale relativo alla configurabilità del sindacato di legittimità della Corte di cassazione sull’interpretazione data dal giudice del merito. La dottrina predica senza riserve l’esistenza di questo sindacato, ascrivendolo al controllo sulla violazione di legge ai sensi dell’art. 360, n. 3, e non già, invece, al mero scrutinio della coerenza e congruità della motivazione ex n. 5. Tuttavia la giurisprudenza non è altrettanto spigliata: frequente, ad esempio, è l’affermazione che il giudizio circa la gravità delle infrazioni addotte come giusta causa di licenziamento, nonché l’accertamento della sussistenza di quest’ultima, implicano un accertamento e una valutazione di fatto demandati al giudice di merito, e, pertanto, incensurabili in sede di legittimità se immuni da errori logici o giuridici. Da alcuni anni, tuttavia, sta maturando in seno alla giurisprudenza il diverso orientamento di cui si è detto, che, con corretta distinzione, ritiene che le specificazioni del parametro normativo richieste dalla disposizione normativa – che sia formulata mediante clausole generali – hanno appunto natura giuridica. La loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità, come violazione di legge. Invece, secondo questo filone giurisprudenziale, l’accertamento in concreto della sussistenza degli elementi di fatto che integrano e preparano le suddette specificazioni spetta in una seconda fase al giudice del merito, sicché i noti limiti di sindacabilità sarebbero circoscritti solo a questa seconda operazione. In Cassazione, sotto il profilo del n. 3, sarebbe quindi da riconsiderare il metodo seguito nell’applicazione della clausola generale e il rispetto dei criteri e principi desumibili dall’ordinamento in generale, a cominciare dai principi costituzionali e dal sentire particolare (di matrice collettiva) in cui la concreta fattispecie si colloca. In questa forbice tra la prospettata verifica di legittimità e la critica della motivazione dell’accertamento in fatto trova con ogni probabilità posto ogni aspirazione a un controllo, necessariamente con caratteri peculiari, dell’applicazione delle clausole generali. Non si tratta qui, dunque, di una semplice verifica della sufficienza o non contraddittorietà della motivazione su questioni di fatto, cioè di un sindacato solo motivatorio. Viene in rilievo invece – una volta ricostruito un certo fatto storico della causa – un peculiare tipo di giudizio giuridico.