Il nuovo processo civile di cassazione: la secolarizzazione della Corte e la scomparsa del procuratore generale
Lo scritto si propone di evidenziare – attraverso l’esame di alcuni punti problematici della disciplina – gli sfondi culturali e le scelte ideologiche emergenti dalla riforma del rito civile dinnanzi alla Corte di cassazione, oggetto della legge n. 197 del 2016. Il risultato di tale riflessione conduce alla constatazione che la riforma del rito ha accelerato il processo di “secolarizzazione” della Corte di cassazione, ha prodotto un arretramento delle garanzie delle parti nel processo ed ha pressoché sancito l’elisione, nel processo di legittimità, del ruolo del procuratore generale.
1. Licitazione delle tesi
Espresse in termini essenziali, le tesi che di seguito si intendono rappresentare possono così enunciarsi: a) in esito alla riforma della legge n. 197 del 2016, il processo civile di cassazione è divenuto – per obiettivi «di semplificazione, snellimento e deflazione del contenzioso»[1] e, quindi, di economia dei tempi processuali ai fini di abbattimento della pendenza arretrata − un rito tendenzialmente camerale, cartolare ed a sviluppo decisorio essenzialmente monocratico; b) tale esito riformatore ha avuto l’abbrivio e poi il decisivo sviluppo da parte della stessa Corte di cassazione: ispirato e completato, cioè, dalle sue prassi e da suoi atti paranormativi, con un alto grado, dunque, di autoreferenzialità; c) a prescindere dalla congruità del mezzo ai fini perseguiti, la riforma, fortemente voluta ed attuata innanzitutto dalla stessa Corte, ha esibito marcate opzioni ideologiche e leggibili sfondi culturali, che connotano cardini tradizionali del processo, quali natura e misura del contraddittorio processuale e distribuzione di poteri processuali: è dunque una riforma che reca una nuova ideologia del processo in cassazione; d) in tale àmbito, uno degli effetti di tale svolta è stata la marginalizzazione del ruolo del procuratore generale, spinta fino ad un estremo tale da autorizzare la previsione di una sua scomparsa in un futuro assai prossimo
2.Le origini prossime della riforma
Con l’intervento riformatore dell’ottobre del 2016, la Cassazione perviene ad un approdo a lungo agognato: quello di adattare − attraverso modalità decisorie oltremodo agili e sbrigative e con motivazioni standardizzate ed essenziali − il giudizio di legittimità a numeri con esso oggettivamente incompatibili. Ultimo di una lunga e tormentata serie di tentativi[2] (“through trials and errors”, si potrebbe dire con Popper) − finalizzati tutti, sebbene con differenti modalità, a «praticare maltusiane diminuzioni» dei flussi dei ricorsi[3] − la Corte (intendo: la Corte nella sua dimensione interna, di vertice direttivo e di apparato organizzativo ed operativo) ad un certo momento ha ritenuto che, per la propria stessa sopravvivenza, dovesse in qualche modo provare a “fare da sé”; che, cioè, più che attendere fideisticamente risoluti quanto improbabili interventi legislativi di riduzione dei flussi in entrata, occorresse comunque adattare ad essi il procedimento, anche tendendolo al massimo grado. Falliti i miraggi deflattivi perseguiti dai precedenti interventi (“quesito”, “filtro”, “nuovo 360 n. 5”)[4] e sospettando soprattutto che la “variabile indipendente” costituzionale (art. 111, comma 7) risultasse negli ultimi anni, più che garanzia, alibi di pigrizie o insipienze politiche su vere riforme, la Corte ha tracciato la via al legislatore, quasi invitandolo, poi, a percorrerla e ad ampliarla. Il decreto emesso dal Primo presidente il 14 settembre 2016, n. 136, recante: «La motivazione dei provvedimenti civili: in particolare, la motivazione sintetica», è infatti il genoma di immediata ed incontroversa riconoscibilità dell’odierna riforma. Esso, non solo anticipa cronologicamente le disposizioni normative della legge di conversione[5], ma ne costituisce l’abbrivio concettuale, per almeno due aspetti. Innanzitutto, perché – nella prospettata esigenza (definita «indifferibile») di «imprimere un processo di accelerazione a prassi di lavoro più snelle rispetto ai procedimenti che non attingono alla valenza dello ius constitutionis» − ha concepito ed enunciato la summa divisio: tra i provvedimenti a «valenza nomofilattica» e tutti gli altri che ne sono privi. In secondo luogo, perché ha sancito che tale qualità prospettica («valenza nomofilattica del provvedimento») debba essere riconosciuta già nel primo spoglio dei ricorso[6], considerata quindi al momento della deliberazione in camera di consiglio, per poi essere «esplicitata in motivazione e documentata mediante indicazione specifica nello statino/dispositivo e nell’oggetto della intestazione».
In nuce, c’era quindi già tutto: il discrimen tra le diverse tipologie dei ricorsi, idonee a generare una diversa tipologia di provvedimenti decisori e l’investitura della Sesta Sezione dello straordinario e decisivo potere processuale di considerare, in prima battuta, il predetto criterio di cernita ed ai presidenti delle Sezioni semplici di applicarlo. C’era, soprattutto, il “non detto”, ma perfettamente intuibile: vale a dire che, a «valenza nomofilattica» diversa, non dovessero corrispondere soltanto diverse tipologie di motivazione, ma anche diversi registri di partitura processuale.
Il legislatore, nella quasi immediatezza temporale e “sfruttando” l’occasione della conversione del dl. n. 168 del 31 agosto, ha convalidato questa idea di fondo e, naturalmente, fatto il resto: attingendo, in maniera sincretica dai progetti di riforma già elaborati – il progetto Vaccarella e quello della “Commissione degli undici”[7] − e novellando nove disposizioni del rito civile di cassazione (gli artt. 375, 376, 377, 379, 380 bis, 380 ter, 390, 391, 391 bis cpc), con l’aggiunta di altra inedita, l’art. 380 bis.1. E nondimeno, ha restituito alla Corte una procedura ancora priva, anche su taluni snodi essenziali, di stretta precettività: vale a dire, aperta a soluzioni plurime, da affinare e definire per via giurisprudenziale, ben oltre il fisiologico tasso di creatività giurisprudenziale.
Il legislatore ha cioè rimesso tacitamente alla Corte, secondo le esigenze di quest’ultima, il lavorio finale di precisazione normativa e di eterointegrazione, anche di importanti snodi procedurali. Di ciò forniscono prova illuminante molte disposizioni, ma soprattutto i Protocolli d’intesa sull’applicazione del nuovo rito civile successivamente predisposti dalla Corte di cassazione e sottoscritti con la Procura generale (1l 17 novembre 2016), con il Consiglio nazionale forense e con l’Avvocatura generale dello Stato (il 15 dicembre 2016)[8]: inediti atti organizzativi contenenti tuttavia importante normazione processuale secondaria.
3. Il quadro della riforma: il “bicameralismo imperfetto” del rito civile di cassazione
Ne è nato quello che può definirsi il “bicameralismo imperfetto” del rito civile di cassazione. Imperfetto nel duplice senso che il rito camerale, pure costituente ordinaria modalità decisoria dei ricorsi civili, si instaura, oltre che in sedi diverse (Sesta Sezione o Sezione semplice competente per materia), sulla base di differenti presupposti e si svolge con modalità procedurali differenti.
È ampiamente nota la sistematica della riforma sul punto: se ne rammenta pertanto solo qualche punto problematico, funzionale ad uno sguardo d’insieme sulla “filosofia” dell’intervento legislativo.
La “prima camera” è quella che risulta dall’ennesima interpolazione dell’art. 380 bis cpc, che ne ha velocizzato ed amplificato la funzione deflattiva. Il “nuovo” procedimento camerale della Sezione Sesta è tale, rispetto alla precedente disciplina, non per l’oggetto decisorio[9], quanto per il percorso procedurale cui ad essa si perviene e per i poteri (d’impulso e di decisione) che in esso si intravedono. Il precedente percorso è stato «potato nella massima misura[10]» poiché alla «relazione» − nel vecchio sistema, redatta, con motivazione concisa, dal relatore dell’«apposita Sezione», in caso di possibile definizione del giudizio ex art. 375, primo comma, nn. 1 e 5, cpc, notificata alle parti e sottoposta al contraddittorio scritto ed orale di esse – si è sostituita la «proposta», non motivata, sulla base della quale il presidente «fissa (...) l’adunanza della corte», con decreto notificato almeno venti giorni prima alle parti (non al p.g., del tutto estraneo a tutta tale fase), che possono presentare memorie nel termine di cinque giorni.
I dubbi affacciati su questo primo segmento del rito sono stati numerosi. Per rapidi cenni, essi hanno riguardato innanzitutto, nel silenzio della disposizione interpolata, l’ostensione delle ragioni per le quali il ricorso dovrà essere deciso presso «l’apposita Sezione»[11]. L’opzione della novella legislativa è da ritenersi tuttavia netta nel senso dell’assenza di ogni esplicitazione delle ragioni di tale instradamento processuale: e, nondimeno, essa pare alquanto sguarnita di argomenti davvero idonei a giustificarla.
Il primo di essi vorrebbe valorizzare la natura di atti “interni” della proposta e del decreto, come tali non decisori e, dunque, non bisognevoli di motivazione. È tuttavia argomento intriso di formalismo: per quanto interni o ordinatori, tali atti, in realtà, stabiliscono un rito, decretano un percorso processuale rispetto ad un altro, sanciscono la forma di una decisione rispetto ad un’altra. Insomma, sono interna corporis che fanno tuttavia procedura e concedono o limitano diritti processuali. Il problema è allora diverso: precisamente, se atti interni, asseritamente solo di autoorganizzazione, possano ampliare o limitare i diritti delle parti nel processo. Se vera la premessa (atti interni non decisori), l’interrogativo che ne segue è inevitabilmente quello prospettato: ad esso si può anche rispondere affermativamente, a patto di una piena consapevolezza sulle ricadute, cioè sul modello di processo che ne segue. In caso contrario, l’argomento giustificativo diviene solo formalistico. Non senza considerare che se si fosse al cospetto di mere modalità organizzative interne, avrebbe scarsa logica la concessione alle parti di un termine per il deposito di memorie (art. 380 bis, comma 2, ult. inciso): completamente al buio, le parti dovrebbero interloquire su di un “atto interno” e, di più, su ciò che è loro completamente sconosciuto ed oscuro, con un contraddittorio cartolare speso nel tentativo di indovinare ciò su cui dovrebbero interloquire. È sembrato probabilmente troppo alla stessa Corte che, con soluzione attuata per eterointegrazione – attraverso cioè il protocollo stipulato dalla Corte con il Consiglio nazionale forense e l’Avvocatura di Stato (15 dicembre 2016) −, si è assestata al minimo logico possibile: l’enunciazione secca della ipotesi di inammissibilità o improcedibilità ovvero dei motivi di manifesta infondatezza o fondatezza del ricorso[12].
Ma ancor più intensi sono i dubbi di metodo, quelli apicali. Non soltanto quello della piena congruità del mezzo allo scopo – vale a dire, sull’effettivo “risparmio” di tempo e sull’incremento di efficienza quali effetti del decreto rispetto alla preesistente relazione[13] − ma, più in generale, del verso della scelta riformatrice, considerata nel suo complesso. Che è stata quella, netta, dell’assoluta aureferenzialità della Corte (anzi, di una sua Sezione), liquidando davvero come «farragine legislativa»[14] quel che tuttavia rappresentava un piccolo bilanciamento, riconosciuto al pubblico ministero ed alle parti, di un sovrastante potere procedurale della Corte, cioè la relazione ‘opinabile’ quale progetto di decisione aperto ai rilievi delle parti. Eppure, come acutamente sottolineato in tempi non sospetti,[15] proprio in un contesto di grandi numeri (quelli della Sesta Sezione) in cui «il margine di errore si innalza rispetto a quello dei consiglieri delle sezioni ordinarie», appariva «quanto mai opportuno consentire ai difensori di far rilevare possibili errori o inesattezze». Che fossero sporadiche le “ritrattazioni” collegiali sulle osservazioni alla relazione non dimostrava certo che fosse inutile il mezzo, tanto più che, all’opposto, si sosteneva che esso fosse ostacolo all’ “efficientamento” della procedura. Evidente l’aporia dell’argomentazione: una causa che si vuole all’origine di due effetti antitetici evidenzia un ragionamento contraddittorio. Né pare convincente sostenere che la parte processuale dialogante con il relatore − sulla «concisa esposizione (...) dei motivi in fatto e diritto» in base ai quali questi «ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio» − fosse fenomeno distonico al sistema, poiché obbligava il relatore stesso a «comunicare monocraticamente alle parti la sua personale idea relativa ad una possibile decisione», comunque collegiale, e determinava «l’isolamento del relatore rispetto al collegio»[16]. Insomma, che fosse causa preponderante di una deriva monocratica del rito.
Pare esattamente il contrario. È monocratico il rito che, per il tramite della dialettica delle parti, non coinvolga il (resto del) collegio. Contraddire non significa isolare, quanto stimolare una revisione critica di un progetto decisorio di fronte al collegio: sottoporlo alla cernita del dubbio, nella collaborazione dialettica. Il contraddittorio non è mai fatto “interno” all’organo collegiale: senza i sospetti teorici innestati dalle parti con il contra-dicere, il processo sarebbe quasi sempre un gigantesco monocratico (decide chi conosce la causa, cioè chi ne è relatore), formalmente controllato da un giudice che siede in collegio. E, proprio laddove i numeri rendono maggiormente difficoltosa, per gli altri membri del collegio, la conoscenza degli atti, la sensibilizzazione innestata dalla parte diviene garanzia di maggiore coralità decisoria, dunque di una maggiore giustizia della decisione. Viceversa, l’odierna proposta ed il conseguente anonimo decreto di fissazione ex art. 380 bis seguono percorsi sotterranei, insondabili dalle parti e non certo – è da credere – a beneficio della collegialità: chi mai opporrà cosa, nel collegio, alla proposta del relatore?
In conclusione, è difficile intravedere una ratio limpida della riforma sul punto: assai dubbia l’economia di scala realizzata; ambigua la giustificazione dogmatica sottesa ed opinabile la sistematica processuale realizzata[17]; viceversa, emerge la certezza di un arretramento: quello sull’idea del processo come ragionevole equilibrio di contrappesi, congruenza dei poteri di partecipazione delle parti, simmetria del bilanciamento attraverso il contraddittorio. In una parola, un ripiegamento sulle garanzie[18].
La “seconda camera” – quella dinnanzi alla Sezione semplice, ex art. 380 bis.1. cpc – benché partecipata (avviso alle parti quaranta giorni prima dell’adunanza camerale, con termine per memorie fino a dieci giorni, che è di venti giorni per il pubblico ministero), palesa anch’essa talune opacità di garanzia: in particolare, nel segmento iniziale ed in quello finale.
Quella iniziale riguarda la coerenza del sistema di instradamento del ricorso verso la camera di consiglio della Sezione semplice: ad essa infatti si perviene (o non si perviene) attraverso plurimi canali i quali tuttavia paiono condizionati da presupposti diversi, con i consequenziali dubbi sulla piena eguaglianza processuale. Infatti, un primo canale di afflusso del ricorso alla Sezione semplice è quello (art. 380 bis, comma 3) che si attiva allorquando l’“apposita Sezione”, ritenendo che «non ricorrano le ipotesi previste dall'articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5)», all’esito della camera di consiglio «rimette la causa alla pubblica udienza della Sezione semplice»: il rito dinnanzi a quest’ultima sarà allora comunque quello più garantito della pubblica udienza, a prescindere da ogni valutazione circa la «particolare rilevanza della questione» (o la sua “valenza nomofilattica”: v. infra), che diviene irrilevante. Variabile, quest’ultima, che invece diviene decisiva allorquando, con un canale diverso (e, si potrebbe dire, ordinario: artt. 376, comma 1, ult. inciso e 375, comma 2) il ricorso oltrepassi la tagliola dell’«apposita Sezione»: il presidente di quest’ultima, infatti, se «a un sommario esame del ricorso (...) non ravvisa» i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5, omessa ogni formalità, rimette gli atti alla Sezione semplice, dinnanzi alla quale tuttavia il rito sarà comunque Camerale, salvo il rilievo di una «particolare rilevanza della questione» che lo condurrà in udienza pubblica.
Si dirà: è un dettaglio statisticamente insignificante, una bagatella per la distrazione sul coordinamento dei testi normativi. Può darsi: ma è difficile rinvenire una ratio giustificativa di una incoerenza che si riverbera sull’eguaglianza dei diritti processuali delle parti. Più in generale, in realtà, a tale rilievo se ne aggiunge uno ulteriore: che, cioè, la legge di riforma non esplicita formalmente a chi spetti il potere, presso la Sezione semplice, di effettuare la valutazione circa la «particolare rilevanza», statuendo così sul rito (camera partecipata o pubblica udienza). Ovvio che, per logica e sistema, esso debba ricondursi al presidente della Sezione semplice, «il cui ruolo (è) stato incrementato»[19]. Ma anche qui il silenzio delle disposizioni riformatrici sembra non casuale e pare piuttosto saldarsi con i principi di autorganizzazione della Corte: si è al cospetto, cioè, di una pagina bianca legislativa, funzionale ad una eterointegrazione da parte della Corte. Se è infatti formalmente agevole individuare nel presidente della Sezione semplice l’organo deputato ad esercitare la scelta tra la fissazione dell’udienza o dell’adunanza della camera di consiglio (art. 377, comma 1, ult. inciso, invariato in esito alla riforma), è da credere tuttavia che – considerati numero e mole dei ricorsi, nonché la complessità della loro valutazione[20] – tale decisione, nella sostanza, sarà opera, più che di uno dei presidenti non titolari della Sezione semplice, di un consigliere di essa addetto allo spoglio, che ne diverrà relatore e che ne sottoporrà l’esito al presidente, il quale emetterà il relativo decreto. Come acutamente notato, inoltre, mentre in Sesta Sezione l’adunanza viene fissata solo a seguito di una proposta del consigliere relatore ed il decreto di fissazione deve recepire dalla proposta l’indicazione della possibile soluzione (inammissibilità, manifesta fondatezza o manifesta infondatezza del ricorso), nella procedura camerale della Sezione semplice non vi è alcuna proposta e, giocoforza, non sarà palesata alcun tipo di indicazione circa le ragioni dell’istradamento del ricorso verso la camera di consiglio piuttosto che verso l’udienza pubblica. Appunto: “fior da fiore”, come scrive Antonio Briguglio. Si porrà cioè un problema di uniformità, di meta-nomofilachia: occorrerà assicurare la nomofilachia sulla nozione di “valenza nomofilattica della questione”. E, considerando che nessuna disposizione autorizza poi la Sezione semplice a modificare il rito (a rimettere, cioè, la causa in udienza pubblica, eventualmente rilevando la «particolare importanza della questione»[21]) si apprezza la delicatezza del passaggio procedurale.
L’oscurità del segmento finale è rappresentata invece dall’eventuale diritto delle parti di essere sentite nella camera di consiglio, qualora ne facciano richiesta. È vero infatti che «in camera di consiglio la Corte giudica senza l'intervento del pubblico ministero e delle parti» (art. 380 bis.1, ultimo inciso): ma è altrettanto indubbio che esistono cospicui argomenti per ritenere non ostativa la littera legis[22] e soprattutto che la stessa Corte, nella sua più alta espressione, ha già avallato una lettura non preclusiva, sia pure statuendo ciò nella particolare vicenda referendaria[23]. Si tratterà di vedere, nel futuro, quanto peserà l’eccezionalità “politica” di quella species facti: ma darebbe da pensare la concessione ad intermittenza di un diritto al contraddittorio in ragione della importanza “politica” della regiudicanda.
4. Il discrimen tra camera e udienza
Il criterio su cui si fonda la scelta fra regola del rito e sua eccezione (vale a dire: tra decisione camerale ed udienza pubblica) costituisce, poi, un altro indicatore critico della complessiva ideologia della riforma. Esso appare infatti estremamente ambiguo, non solo (come già visto) nella concreta individuazione dell’organo chiamato ad applicarlo, quanto soprattutto nella sua portata oggettiva[24]. L’impressione – come si dirà − è che tale ambiguità, solo in parte necessitata, sia stata una sapiente e precisa intenzione del legislatore storico, concepita per corrispondere ai desiderata della Corte. Infatti, il testo della disposizione (art. 375, comma 2) statuisce una regola di modalità decisoria (la Corte, a Sezione semplice, «pronuncia con ordinanza in camera di consiglio») cui fa seguire un’eccezione alquanto eterea e mobile, sia logicamente che semanticamente. L’eccezione, infatti, riposa su di una impersonale valutazione di opportunità («sia resa opportuna») come tale ispirata a presupposti assai poco cogenti e sollecitata da un presupposto, a sua volta, logicamente lasco («particolare rilevanza della questione di diritto»): in esso, infatti, l’aggettivazione enfatizza ancor di più l’indeterminatezza del presupposto (la “rilevanza”) e dell’universo logico in cui esso stesso si colloca (la “questione di diritto”).
Ne discende una notevole mobilità concettuale dei presupposti idonei a derogare alla regola. Detto in modo diverso: sarà ben difficile (impossibile?) riconoscere lo specimen della forma procedurale eccezionale e, quindi, poter prevedere/pronosticare la forma del rito che assumerà la trattazione di un ricorso, fatti salvi, ovviamente, i casi limite o di scuola.
Sarà la Corte, nel tempo, a realizzare quella sedimentazione di ermeneutica e di prassi necessarie per integrare l’evanescente disposto normativo e dunque sarà rimessa interamente alla Corte – ben al di là del dato letterale della disposizione – la creazione della effettiva norma processuale.
Sotto tale profilo, il rito civile di cassazione appare quindi del tutto autoreferenziale, devolvendosi allo stesso organo destinatario della disposizione normativa la sua completa delineazione. Anche perché non potrà non considerarsi il gioco combinatorio del criterio di legge con quello, ulteriore e paranormativo, costituito dalla “valenza nomofilattica” del provvedimento da emettere, in quanto procedimento che attinge allo ius constitutionis, secondo quanto si legge nel già citato decreto del 14 settembre 2016 del Primo presidente. Se è vero, infatti, che la suddetta caratteristica è apparentemente funzionale solo ad una distinzione in punto di struttura ed ampiezza della motivazione, è giocoforza ritenere – anche sul piano logico – che una prognosi di «valenza nomofilattica del provvedimento» valga ad integrare un’ipotesi di «particolare rilevanza della questione di diritto», anche se – sempre sul piano logico – non appare univoca la reciproca. Per quel che qui interessa, tuttavia, sarà sufficiente osservare che la Corte, con il riferimento alla “valenza nomofilattica” ed all’incidenza sullo ius constitutionis [25], va a dettare una (ulteriore) regola procedurale, perché destinata non solo alla motivazione, ma a refluire sulla scelta del rito. In breve: è da credere che, nella concreta prassi decisoria, la Corte andrà ad elaborare una propria nozione prognostica di “valenza nomofilattica” della decisione (magari combinata, nonostante la non coincidenza, con quella di emergenza di profili attinenti allo ius costitutionis), destinata ad affiancarsi (ed a sostituirsi, nel tempo) a quella “strettamente” (si fa per dire) normativa di «particolare rilevanza della questione di diritto».
Insomma: una nebulosa concettuale, dipanabile solo dall’autodichia della stessa Corte, secondo quanto già segnalato in alcuni primi commenti alla riforma[26].
5. La secolarizzazione della Corte ed il riduzionismo dei principi
È facile prevedere le obiezioni a tali rilievi. Si dirà che è tipico della logica delle Corti Supreme vedersi affidata, dai vari ordinamenti nazionali, l’elaborazione di regole organizzative che inevitabilmente si riverberano sul rito; che, se così non fosse − se, cioè, i meccanismi procedurali fossero interamente imposti ab externo dal legislatore − risulterebbero mortificate le stesse esigenze dell’organo di giurisdizione superiore, unico a conoscere, dall’interno, il proprio apparato, le proprie esigenze e gli effettivi rimedi alle proprie defaillances; che, in breve, è proprio dell’idealtipo degli organi supremi di giurisdizione l’inscindibile commistione di norme di autorganizzazione e di norme sul rito, alle prime unite da un legame covalente. Tutto vero. Oggi, per le supreme giurisdizioni, non è possibile pensare a modelli organizzativi ottruaiati, a protocolli di rito rigidi e “calati” dall’alto, non suscettibili integrazione con norme prodotte a livello secondario: facoltà, questa, che inevitabilmente discende dalla stessa primauté dell’organo in funzione della migliore realizzazione dei propri scopi.
Ma il punto è proprio quest’ultimo: gli scopi o, meglio, il quantum di sacrificio (della tradizione, delle garanzie, delle prospettive della giurisdizione di legittimità) che la loro attuazione richiede.
L’impressione è che, con la riforma del rito civile, la Corte di cassazione porti a compimento il proprio percorso di secolarizzazione: vale a dire, la desacralizzazione della tradizione culturale e dei principi sedimentati nella giurisdizione di legittimità (il ‘disincantamento’ rispetto ad essi, per dirla con Max Weber), sostituiti dall’affermazione di una razionalità strumentale, dispiegata per rispondere alle esigenze immanenti.
È innanzitutto una svolta culturale,[27] un mutamento storico lineare ed irreversibile, quasi filosofico, che ricorda lo sfondo dei fenomeni di secolarizzazione del diritto[28]: quelli, precisamente, ispirati alla figura del giudice “adulto in un mondo adulto”, come tale disposto a sacrificare principi ormai “fuori dalla Storia” a beneficio di una gestione razionale dell’esistente. Come dire che, secondo la filosofia della riforma della cassazione civile, il contraddittorio o il principio di oralità/immediatezza o il contatto tra le parti ed il giudice o la collegialità (e cosi via) non possono che essere principi modulabili, adattabili, di necessità, alla contingenza storica. La Corte – in tale prospettiva − non può farsi apologeta di sacralità astratte, ma, per la stessa sopravvivenza del sistema, è tenuta a razionalizzare i principi, anche a costo della loro forte compressione: ad offrirli, cioè, nell’unica forma possibile, liofilizzata ed essenziale, laica e moderna, priva di orpelli teorici ed antistorici. Tutto ciò, per lo scopo essenziale: fronteggiare mostruosità di arretrato e sopravvenienze; chiudere il circuito della vicenda giudiziaria; pervenire al giudicato.
È tuttavia proprio questa visione culturale, nel suo insieme, ad impensierire.
A turbare, non è tanto l’ingenuità dell’idea che l’ingolfamento della cassazione civile possa essere risolto da camere di consiglio che, con giudici freschi, hanno inizio nelle ore antimeridiane, piuttosto che nelle prime pomeridiane, dopo il “simulacro inutile” dell’udienza pubblica; e neppure l’idea, altrettanto candida e disarmata, secondo cui una camera (eventualmente) partecipata possa addirittura essere il granellino idoneo ad inceppare l’efficienza dell’intero meccanismo. Certo, si tratta di vantaggi indubbi nell’organizzazione del lavoro e di benefici sensibili per i suoi (massacrati) artefici: ma sarà sufficiente, probabilmente, solo qualche anno per constatare che la soluzione globale dei tempi del rito civile in cassazione non passa da questi correttivi di rito, piuttosto essendo condizionata dall’eliminazione strutturale di alcune endemiche zavorre[29].
Ciò che preoccupa è invece che, nel frattempo, la stessa Corte sarà divenuta corifea del riduzionismo dei principi: dell’idea, cioè, che «le forme di tutela apprestate siano commisurate ai mezzi disponibili»[30], ciò che sembra incarnare pienamente la prospettiva weberiana del «potere universale dell’associazione di mercato» che esige «un funzionamento del diritto calcolabile secondo le regole razionali»[31]. L’idea, insomma, che l’assiologia di un ordinamento giuridico ed, alla fine, anche il problema della sua validità rinviino «direttamente alla sua praticabilità, connessa agli scopi reali (economici) di un agire sociale razionale»[32]. Riduzionismo dei principi significa, in conseguenza, affermare che il contraddittorio cartolare (gli stessi atti del giudizio) è del tutto fungibile a quello orale e pieno; che l’interlocuzione sul rito ad opera delle parti è superfetazione estranea alla tradizione; che è sopprimibile senza sussulti la garanzia primigenia di ogni parte processuale di interloquire direttamente con il giudice che va a deliberare sulla res iudicanda, poiché la modalità decisoria ordinaria, funzionale alla modernità, è unicamente la camera non partecipata; che, quindi, una motivazione anche meramente standardizzata ed assertiva può assolvere alla delicata funzione democratica demandata ai giudici dal comma sesto dell’art. 111 Cost.; che, infine, «l’esperienza del giudizio di cassazione dei nostri tempi convalida la scarsa utilità della discussione orale della causa» e che quindi, storicamente, è venuto il tempo di eliminare dal processo civile il «feticcio dell’oralità», poiché il processo civile «è sempre stato e rimane un processo essenzialmente scritto»[33].
Quest’ultima idea riduzionista meriterebbe, in particolare, un adeguato approfondimento, impossibile in questa sede[34].
Ma il problema non è tanto quello di difendere il «feticcio» dell’udienza pubblica, quanto quello di segnalare il sottofondo culturale di tale idea abrogazionista. Di assistere cioè ad una marginalizzazione dell’udienza in ragione della valutazione di una sua “scarsa utilità”, poiché “raramente gli avvocati prendono la parola e, quando lo fanno, finiscono per riportarsi agli scritti depositati”. Come dire che una garanzia (perché tale è innegabilmente l’udienza pubblica, ogni udienza pubblica) è meritevole di essere riconosciuta o no in relazione alla resa del suo esercizio percepita da chi giudica (e che non è certo il destinatario della garanzia stessa) o in relazione all’uso in concreto che una singola parte ritenga di farne. È, questo, un modo singolare di concepire principi e garanzie. Il discrimen diviene la statistica e l’empirìa, irrimediabilmente corrotto da un vizio logico di fondo: invero, dalla circostanza che un fatto è (asserita “scarsa utilità” dell’udienza, nell’universo logico dell’essere) discende che esso, sul piano normativo, debba o non debba essere (eccezionalità dell’udienza, nell’universo logico del dover essere). Platealmente, l’ought è interamente ricavato dall’is, con buona pace della legge di Hume.
Il punto, peraltro, non è neppure quello di una difesa “di principio” dell’udienza pubblica, quanto piuttosto dei bilanciamenti della sua virtuale soppressione: delle alternative di garanzia concepibili rispetto alla sua insindacabile eccezionalità. Si può pure convenire, cioè, su di un modulo processuale diverso (camera di consiglio pressoché interamente sostitutiva dell’udienza), ma alla condizione che comunque si preservi il principio del check and balance, dell’equilibrio dei poteri: se è spinto al massimo quello della Corte di stabilire, pressoché interamente, le modalità decisorie, che quantomeno si riservi alle parti una possibilità di interlocuzione, una forma di contraddittorio alternativo ed eventuale, di minore intensità e frequenza, ma idoneo a salvaguardare una (pallidissima) forma di controllo. Ciò soprattutto considerando che il rischio più serio della Corte di cassazione, nel presente ed ancor più in prospettiva futura, è quello di smarrire ogni forma di collegialità, partorendo un gigantesco rito monocratico e cartolare. Un rito (sia in civile che in penale, dove non mancano altrettante allarmanti avvisaglie) in cui il ricorso è studiato e deciso dal solo consigliere relatore, con il solo avallo del presidente (fino a quando il numero dei ricorsi ne consentirà una conoscenza adeguata) e nella sostanziale estraneità decisoria degli altri componenti del collegio. Ora, in tale prospettiva, l’unico anticorpo innestabile è proprio l’interlocuzione delle parti, in qualunque modo essa possa avvenire: la possibilità, cioè, di un segnale, di un richiamo di attenzione, di un profilo coinvolgente anche il contributo degli altri componenti il collegio. La riforma è andata nel senso decisamente opposto: con la conseguenza, tuttavia, che se l’udienza è il «feticcio dell’oralità», la collegialità rischia di esserlo altrettanto rispetto alla “rappresentazione” del processo. Una scenografia di collegialità, insomma.
Allarma, in conclusione, il pensiero che l’emergenza storica sia divenuta il metronomo dei diritti processuali delle parti e che i futuri e definitivi assetti del rito civile di legittimità riposino, appunto, non su ragionati e ragionevoli valori veicolati da norme e su di una razionale distribuzione dei poteri all’interno del processo (specifica conquista del moderno processo), ma su adattamenti alla contingenza. Appunto: rimaneggiamenti spacciati per principi, sprofondando nei quali la Cassazione si è secolarizzata.
6. Conclusioni. In morte del procuratore generale
In tutto ciò, l’ultimo dei pensieri – è da credere − è stato per il ruolo del procuratore generale nel rito civile di cassazione: al plauso, unanime, per l’inversione dell’ordine degli interventi in udienza pubblica, sono infatti seguite solo rare riflessioni[35].
Eppure, la riforma del rito civile di cassazione pare avere, sul punto, un effetto implosivo: ha trasformato la profetizzata «agonia del pubblico ministero nel processo civile»[36] in un autentico de profundis di tale organo.
La leggibile linea riformatrice in tale àmbito è stata infatti duplice: per un verso, la completa estromissione del procuratore generale dalla fase di instradamento del ricorso presso l’apposita Sezione e dalla adunanza camerale che in essa si svolge (arg. ex art. 380 bis); per altro verso, la facoltatività del suo intervento nella modalità ordinaria decisoria, vale a dire la camera di consiglio presso la Sezione semplice (art. 380 bis.1, comma 1), laddove l’intervento dell’organo rimane obbligatorio solo nell’ipotesi eccezionale dell’udienza pubblica (art. 379, comma 2).
Si è detto che, in tal modo, anche il procuratore generale del rito civile si adegua alla modernità: che è cernita, rarefazione di intervento (solo quando serve), selezione di qualità finalmente liberata dal fardello della quantità e dei numeri, che producevano inutili e standardizzate requisitorie.
Si tratta, tuttavia, di argomentazioni consolatorie, perché assai dubbie quanto a giustificazione teorica: o, per meglio dire, sorrette solo dalla generale coerenza con la complessiva “filosofia” della riforma sopra illustrata. È vero piuttosto che la sistematica della riforma accentua ancor più l’ambiguità della figura del procuratore generale nel processo civile di cassazione, facendone definitivamente smarrire ogni visibile contorno dogmatico. Egli non è più parte (“pubblica”, “imparziale”, ecc.), avendo poteri minori rispetto alle parti e, certamente, non è più neppure amicus curiae, promotore della legalità processuale e della giustizia della decisione in armonia con la funzione di legittimità. Se così fosse – se, cioè, fosse stato considerato soggetto processuale pienamente omologo alla giurisdizione di legittimità – non avrebbe spiegazione la sua completa estraneazione dagli snodi fondamentali del processo di legittimità: da quello della decisione sul modulo processuale presso la Sesta Sezione, a quello della valutazione circa la «particolare rilevanza della questione» e/o della sua «valenza nomofilattica». Un amicus curiae che viene ignorato nelle decisioni più importanti è assai poco amico: è piuttosto un orpello.
Si potrà obiettare che, per il principio di realtà, risultava improbabile e quasi impossibile pretendere un contributo valutativo serio in segmenti di processo in cui giornalmente annaspano alcune centinaia di consiglieri e pertanto idonei inevitabilmente a fagocitare, eo magis, poche diecine di sostituti procuratori generali.
Ma questa è obiezione che riporta a quanto detto sopra: se, cioè, a governare le regole del processo debbano essere esclusivamente i “duri fatti”, secondo il principio monistico già sopra esposto o se occorresse piuttosto uno sforzo ed una resistenza maggiori per difendere la funzione di legittimità nel suo complesso. Dal sistema della riforma perviene invece un segnale preciso: ciò che prima, per il procuratore generale, era facoltativo (possibile interlocuzione sulla relazione “opinata” presso la Sesta Sezione) è ora inesistente e ciò che prima era obbligatorio diviene ora facoltativo, se si considera la “normalità” del rito camerale presso le Sezioni semplici. È, quella del procuratore generale, un’uscita silente dalla scena della legittimità: è da credere che il prossimo intervento riformatore alzerà ulteriormente l’asticella ed il prossimo passo sarà l’intervento solo facoltativo nella sola udienza pubblica. Poi scomparirà.
Né, per lenire, si può affermare che, alla fine, si è pur sempre conservata sotto altra forma la facoltà di intervento del procuratore generale nella camera di consiglio, dislocata addirittura su di un piano più alto e nobile, quale quello della Sezione semplice.
La differenza funzionale delle due adunanze camerali non consente tale assimilazione. Invero, nel passato, l’intervento facoltativo del procuratore generale sul “progetto decisorio” del relatore della Sesta Sezione civile era – come dire – finalizzato al controllo della legalità della stessa, della correttezza circa l’effettiva sussistenza di un’ipotesi di evidenza decisoria del ricorso o di una sua causa di inammissibilità. Niente di tutto ciò si registra nell’odierno di intervento facoltativo presso la camera della Sezione semplice: dove il procuratore generale – assente ogni abbozzo decisorio – deve singolarmente effettuare la cernita dei ricorsi su cui concludere e quindi prospettare la soluzione in diritto.
Ma è proprio l’assetto volontaristico del meccanismo a destare perplessità. Esso si svolge per ricorsi che non palesano «valenza nomofilattica» o «particolare rilevanza della questione», qualificazioni, queste, che riguardano quelli già avviati all’udienza e su cui il procuratore generale non ha alcun potere di interlocuzione. Ovvio, poi, che né la legge né alcun atto di organizzazione interno stabilisca (o possa stabilire) i criteri in base ai quali, nella massa ordinaria di ricorsi che confluiscono alla camera della Sezione semplice, alcuni di essi siano maggiormente importanti o rilevanti di altri e, pertanto, meritevoli delle conclusioni (aggiuntive) di un altro soggetto processuale. A ciò si aggiunga che, per quanto futuri atti di organizzazione interna potranno stabilire criteri orientativi dell’intervento, quest’ultimo sarà comunque deciso dal singolo magistrato dell’ufficio stesso, pena la frizione con il principio dell’art. 101, comma 2, Cost.
Ne viene fuori una logica fuzzy, che ammette cioè, senza contraddizione, che tra più ricorsi sovrapponibili quanto a contenuto o quaestiones iuris solo per uno o per alcuni di essi il procuratore generale rassegni conclusioni.
Quanto ciò inquini la complessiva ragionevolezza del sistema è di tutta evidenza, al pari della decomposizione del ruolo del procuratore generale. Affidare alla buona volontà del singolo, alla sua sensibilità soggettiva, allo spirito di sacrificio individuale lo svolgimento (o meno) di una intera funzione giurisdizionale appare davvero un inedito: le predette variabili quasi sempre caratterizzano (è ben vero) il quomodo dell’esercizio di un ruolo, ma non certo l’an di esso. Così, accanto al “fior da fiore” dei ricorsi che finiscono in udienza pubblica piuttosto che in camera di consiglio, ci sarà, nell’àmbito di questi ultimi, il “fior da fiore” di quelli che vedranno la lieta sorpresa della requisitoria del procuratore generale.
Il dubbio è che, complessivamente, questa cernita di qualità sia affidata, nell’uno e nell’altro caso, a variabili individuali, talmente insondabili da risultare non decifrabili, non oggettive e, dunque, irragionevoli e diseguali.
Non si tratta – è bene precisarlo − di un problema di costituzionalità, ma di buona legislazione.
La Corte di cassazione ha già escluso, sui punti essenziali della riforma, profili di fondatezza di questioni in tal senso sollevate[37]. E, d’altra parte, un esito di caducazione della riforma per contrasto con la Carta fondamentale in punto di manifesta irragionevolezza è da escludersi per elementari considerazioni: a denunciare la questione, quale giudice a quo, dovrebbe essere la stessa Corte di cassazione e, quand’anche, irrealisticamente, ciò accadesse, il Giudice delle leggi ben difficilmente decapiterebbe il sistema della giurisdizione di legittimità. Anche perché, sotto il profilo formale e sistematico, la riforma è ben scritta, la stesura delle sue disposizioni è tecnicamente ineccepibile, senza apparenti spigoli acuti di manifesta irragionevolezza nell’uso della discrezionalità legislativa.
Ma, affinché una riforma processuale sia pregevole, è condizione solo necessaria ma non sufficiente che essa non sia manifestamente irragionevole: tra tali estremi, in mezzo, c’è il mare della accettabile ragionevolezza dei principi attuati, nel quale tuttavia è facile fare naufragio.
[1] Come testualmente indicati in Cass., sez. sesta (terza), 20 dicembre 2016 (dep. 10 gennaio 2017), n. 395, Laviscio contro Fondazione Centro San Raffaele del Monte Tabor.
[2] Per una sintesi di essi, tra i molti, v. G. Costantino, Note sulle «misure urgenti» per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione», in Foro it., 2017, V, pp. 7 e ss.
[3] L’efficace metafora è di G. Verde, Proposte per la Cassazione, in www.judicium.it, 29 aprile 2016.
[4] Così A. Briguglio, Disapplicazione – umanamente comprensibile – dell’ultimissima novella sul giudizio civile di cassazione, in www.judicium.it, 26 aprile 2017 ed ivi ulteriori ed acute considerazioni. Impossibile ovviamente, in questa sede, ogni dettaglio ed approfondimento sul pregresso.
[5] È fin troppo noto, infatti, che i contenuti procedurali della riforma non erano contenuti nel dl. 31 agosto 2016, n. 168, i cui sei articoli del capo I (Misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione e per l'efficienza degli uffici giudiziari) recavano esclusivamente disposizioni di tipo ordinamentale (applicazione dei magistrati addetti all’Ufficio del Massimario alle funzioni giurisdizionali; tirocini formativi, ecc.) e che la riforma del processo civile di cassazione è stata innestata con la legge di conversione del 25 ottobre 2016, n. 197. Su tale specifico profilo, assai critica la dottrina: v. per tutti, B. Sassani, Da Corte a Ufficio di smaltimento: ascesa e declino della “Suprema”, in www.judicium.it, 18 novembre 2016; C. Punzi, La nuova stagione della Corte di cassazione e il tramonto della pubblica udienza, in Riv.dir. proc., 2017, I, pp. 2 e ss.
[6] In tal senso è esplicito il richiamo alla Sesta Sezione, nel suo «ruolo prioritario della funzione ordinamentale di filtro ad essa assegnata».
[7] Ovvero il progetto elaborato dalla Commissione presieduta dal prof. Romano Vaccarella, con la relativa relazione, del 3 dicembre 2013 ed il disegno di legge n. 2953/2015, di iniziativa governativa, redatto dalla Commissione Berruti, presentato alla Camera dei deputati l’11 marzo 2015: «il pedigree della riforma», come li denomina C. Graziosi, La Cassazione «incamerata»: brevi note pratiche, in www.judicium.it, 8 dicembre 2016, cui si rinvia per gli ampi e pregevoli approfondimenti sul punto.
[8] Si vedano in Foro it., 2017, V, rispettivamente col. 64 e 61.
[9] Rimanendo sempre definito dai nn. 1 e 5 dell’art. 375, primo comma, cpc, vale a dire: ricorso inammissibile, manifestamente fondato o manifestamente infondato, cui devono aggiungersi, ragionevolmente, le ipotesi di ricorso improcedibile, di rinuncia o di estinzione, ex art. 391 cpc, ma anche di correzione di errore materiale o di inammissibilità della revocazione ai sensi dell’art. 391 bis cpc.
[10] C. Graziosi, La Cassazione «incamerata», cit., 6.
[11] Per approfondimenti sul punto, E. Campese, Il nuovo giudizio camerale civile di cassazione, in Foro it., 2017, V, p. 17.
[12] Come si legge nel Protocollo citato, la proposta dovrà (potrà?) indicare «quanto alla prognosi di inammissibilità o di improcedibilità, a quale ipotesi si faccia riferimento (tramite menzione del dato normativo, o in alternativa, del precedente, o ancora con breve formula libera); quanto alla prognosi di manifesta fondatezza, quale sia il motivo manifestamente fondato e l’eventuale precedente giurisprudenziale di riferimento; quanto alla prognosi di manifesta infondatezza, quali siano i pertinenti precedenti giurisprudenziali di riferimento e le ragioni del giudizio prognostico di infondatezza dei motivi di ricorso, anche mediante una valutazione sintetica e complessiva degli stessi, ove ne ricorrano i presupposti».
[13] Su cui pure ci si potrebbe a lungo interrogare e ci si è interrogati. Ad esempio, tra i molti possibili: P. Curzio, Il problema Cassazione, in AA.VV., Obiettivo 2. Il punto sul processo civile, in questa Rivista trimestrale, 2015, 4, www.questionegiustizia.it/rivista/2015/4/il-problema-cassazione_289.php, già affermava, prima della riforma, che «la doppia fatica del relatore è relativa, perché nella maggior parte dei casi, se la relazione è centrata, il collegio la condivide e il provvedimento definitivo si limita a ripetere quanto scritto in relazione»; dopo la riforma, pressoché unanime la dottrina nel medesimo senso: secondo G. Costantino, Note sulle «misure urgenti», cit., se la ratio della soppressione della relazione è da individuarsi nell’esigenza di semplificare ed alleggerire il procedimento, allora «appare ragionevole dubitare della congruità del mezzo al fine»; D. Dalfino, Il nuovo volto del procedimento in Cassazione, nell’ultimo intervento normativo e nei protocolli di intesa, in Foro it., 2017, I, c. 2, ritiene che «la misura è destinata a rivelarsi illusoria, poiché ciò che si elimina da una sede si riproduce in un’altra» essendo «evidente, infatti, che sarà il collegio della “apposita Sezione” a dover svolgere il lavoro di approfondimento che, sino ad oggi, spettava al relatore», cosicché «con l’avvento della “proposta” non si risparmia tempo»; fortemente critico sul punto anche B. Sassani, Giudizio sommario di cassazione ed illusione nomofilattica, in Riv. dir. proc., 2017, pp. 35 ss., che difende «la bontà del modello della procedura della camera di consiglio finora adottato [con la relazione, n.d.r.], addirittura più idoneo a tutelare il principio del contraddittorio rispetto alla procedura della pubblica udienza», stigmatizzandosi che è «degradata la vecchia Relazione ad una immotivata Proposta (crocetta su prestampato)»; con varietà di accenti critici v. anche C. Punzi, La nuova stagione della Corte di cassazione e il tramonto della pubblica udienza, in Riv. dir. proc., 2017, pp. 1 ss.; A. Carratta, La cameralizzazione del giudizio in Cassazione e la garanzia del contraddittorio a rischio, in www.processocivileweb.it.; Id. Le più recenti riforme del processo civile, Giappichelli, Torino, 2017, spec. pp. 19 ss.
[14] Secondo la nota espressione con la quale la relazione finale della Commissione Berruti (o “degli undici”) bollava il precedente progetto di riforma Vaccarella.
[15] E da parte di un autorevolissimo membro della Suprema, insospettabile di “astrattezze” dottrinali, P. Curzio, Il problema Cassazione, loc. ult. cit.
[16] L. Lombardo, Il nuovo volto della Cassazione civile, in Questione Giustizia on line, 2 dicembre 2016, www.questionegiustizia.it/articolo/il-nuovo-volto-della-cassazione-civile_02-12-2016.php.
[17] Nota perspicuamente F. S. Damiani, Il nuovo procedimento camerale in Cassazione e l’efficientismo del legislatore, in Foro it., 2017, V, 28 : «(...) una volta generalizzata l’adozione del rito camerale, non pare sensato continuare a destinare tutti i ricorsi di competenza delle Sezioni semplici al controllo preventivo di una sola di esse, onerandola così di un ingentissimo carico di lavoro, col rischio che taluni di essi vengano scrutinati due volte, nel caso in cui il collegio della Sesta Sezione non li definisse in camera di consiglio. In effetti, sarebbe stato più semplice e razionale dotare tutte le Sezioni semplici dei medesimi poteri di controllo spettanti alla Sesta, distribuire a ciascuna di esse i ricorsi in entrata e prevedere un unico procedimento camerale che consentisse alle parti di esercitare appieno il loro diritto di difesa».
[18] Ciò che allora legittima il sospetto, avanzato in dottrina, che si sia proposta una Corte come «gestore di deflusso» dei ricorsi, «dove ricorso sta evidentemente per presunzione di abuso del diritto di impugnazione, sicché tanto vale trattarlo in absentia di avvocati»: così B. Sassani, Giudizio sommario di cassazione, cit., 35.
[19] C. Graziosi, La Cassazione «incamerata», cit., p. 8.
[20] Posto che la valutazione circa la «particolare rilevanza della questione di diritto» involge non solo l’esame del ricorso, ma anche del controricorso ed in generale degli atti del giudizio.
[21] Sul punto diffusamente e perspicuamente, v. C. Graziosi, op. ult. cit. e A. Briguglio, op. ult. cit., il quale critica la “disapplicazione” della riforma sul punto, in esito alla già sopravvenuta decisione di segno contrario ad opera di Cass., ord. 6 marzo 2017, n. 5533.
[22] G. Costantino, Note sulle «misure urgenti», cit., ne espone cinque, tutti persuasivi in punto di sistematica interpretativa.
[23] Il riferimento è a Cass., sez. un., ord. 1 dicembre 2016, n. 24624 (in Foro it., 2017, I, 12, con nota di R. Romboli), ove il vertice di legittimità (spiegando le ragioni per le quali era stata ammessa, in sede camerale, «una breve discussione orale, limitandola a un difensore per i ricorrenti congiuntamente difesi e uno per le amministrazioni resistenti») ha affermato, sia pure riferendosi al comma 3 del novellato art. 380 ter cpc, che «è stato in tal modo adottato un ulteriore correttivo al fine di adeguare il rito camerale alle esigenze costituzionali di rispetto del diritto di difesa».
[24] «Evanescenti e contraddittori (sono) i criteri in base ai quali la scelta [tra procedimento camerale e trattazione all’udienza pubblica, n.d.r.] deve essere compiuta» secondo il documento che l’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile inviò, il 3 ottobre 2016, al Ministro della giustizia ed ai Presidenti della Camere in occasione della discussione parlamentare della riforma poi approvata (in Foro it., 2016, V, 354).
[25] Laddove neppure tra questi ultimi si può parlare di coincidenza strutturale o funzionale, posto che la tradizionale contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris – secondo cui il primo identificherebbe l’«attività nobile» di nomofilachia della cassazione, mentre il secondo, «meno nobile», atterrebbe «alla definizione dei casi concreti nell’interesse delle parti» − è, storicamente, «inesistente» ed è frutto solo di una «storpiatura di significato», come approfonditamente (ed inconfutabilmente) dimostrato da G. Scarselli, Ius constitutionis e ius litigatoris alla luce della nuova riforma del giudizio di cassazione, in Riv. dir. proc., 2017, 2, p. 355, il quale afferma che, in realtà, «è contra ius constitutionis ogni pronuncia del giudice del merito emanata in violazione di legge», mentre «le uniche ipotesi di ius litigatoris sono quelle dell’omissione di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 n. 5 cpc».
[26] Parla di «scelta fior da fiore» della Corte sottolineando il margine di discrezionalità affidatole, A. Briguglio, Disapplicazione, cit., 3, ed ivi acuta esemplificazione delle tipologie dei giudizi che potranno «meritare la serie A della pubblica udienza»; R. Russo, L’ultimo “non rito”, cit., passim, parla invece di «potere di decidere come decidere» in capo alla Corte.
[27] V. significativamente, ad esempio, L. Lombardo, Il nuovo volto della Cassazione civile, in Questione Giustizia on line, www.questionegiustizia.it/articolo/il-nuovo-volto-della-cassazione-civile_02-12-2016.php, passim, ove tra l’altro si legge:«(...) Ne viene fuori un rito flessibile, che si adatta alla rilevanza delle questioni sottoposte col ricorso in funzione nomofilattica. Alla rigidità del rito precedente, che prevedeva sempre la trattazione in pubblica udienza, si sostituisce ora un rito che si adatta all’importanza delle questioni sottoposte e che riserva la trattazione in pubblica udienza ai soli ricorsi che sollecitano alla Corte l’esame di questioni di diritto di rilievo generale ai fini dell’esercizio della funzione di indirizzo della giurisprudenza (...) D’ora in poi avremo non più un rito processuale di cassazione rigido, ingessato, insensibile alla valenza delle questioni di diritto sottoposte; avremo, invece, un rito flessibile, che si adatta al contenuto del ricorso e alla rilevanza delle censure nel quadro della funzione, affidata alla Corte, di indirizzare la futura giurisprudenza».
[28] Per un riferimento teorico e storico d’insieme di queste riflessioni, si rimanda alla ancora attualissima collettanea di studi curata da L. Lombardi Vallauri e P. Dilcher, Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, Giuffrè, Milano, 1981.
[29] Il riferimento è essenzialmente al contenzioso tributario che – secondo l’analisi dello stesso Primo presidente (Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2016, consultabile in www.cortedicassazione.it) «incide per il 38 per cento delle sopravvenienze [oltre 11.000 nel 2016] e per il 47 per cento dell’intera pendenza [oltre 50.000], in capo ad un’unica Sezione tributaria, la quale, nonostante l’intenso lavoro della struttura e l’impiego di risorse supplementari, definisce un numero di procedimenti, molti dei quali pendenti da oltre quattro anni, nemmeno pari alle sopravvenienze». È stato lo stesso vertice della Cassazione a ribadire la necessità «che il legislatore appresti un piano straordinario di abbattimento dell’arretrato, giustificato dall’elevato valore delle poste finanziarie in gioco e imperniato sulla costituzione di una tributaria-bis, col simmetrico aumento di organico dei magistrati e del personale» ed a ritenere «auspicabile il contributo del Mef per avviare a soluzione un problema che, a legislazione invariata, rischia di travolgere l’assetto della Cassazione civile». In altri termini, può ben affermarsi in forza di un semplice giudizio controfattuale, che, in assenza di un contenzioso tributario con questi numeri, il rito civile di cassazione sarebbe pressoché normale per contenimento della pendenza, durata media del procedimento ed indice di ricambio.
[30] Così, icasticamente, L. Lombardo, op. cit.
[31] M. Weber, Economia e società, I, Teoria delle categorie sociologiche, Ed. di Comunità, Milano, 1999, p. 336.
[32] Così, commentando il problema della secolarizzazione/formalizzazione del diritto in Max Weber, A. De Simone, Razionalità e diritto in Max Weber, in B. Accarino - A. De Simone, Diritto, giustizia e logiche del dominio, Morlacchi, Perugia, 2007, p. 103.
[33] Ancora L. Lombardo, loc. ult. cit., il quale esprime con grande schiettezza i fondamenti culturali della riforma.
[34] Proprio sotto il profilo della sua verifica attraverso la storia del giudizio di legittimità e della dialettica tra oralità e scrittura nel processo civile, profili per i quali si rimanda, ex multis, a G. Scarselli, In difesa della pubblica udienza in Cassazione, in Foro it., 2017, V, 30; C. Punzi, La nuova stagione della Corte di cassazione, cit.
[35] Tra le quali si segnalano quelle svolte da R. Fuzio, Il procuratore generale nel giudizio civile di cassazione, in Foro it., 2017, I, c. 41; R. Russo, L’ultimo “non rito” della cassazione civile, cit.; C. Graziosi, La Cassazione «incamerata», cit.
[36] Da F. Cipriani, L’agonia del pubblico ministero nel processo civile, in Foro it., 1993, I, c. 12.
[37] V. la già citata Cass., sez. sesta (terza), 20 dicembre 2016 (dep. 10 gennaio 2017), n. 395; sul punto (e per l’insussistenza di profili di frizione costituzionale), v. G. Amoroso, La cameralizzazione non partecipata del giudizio civile di cassazione: compatibilità costituzionale e conformità alla Cedu, in Foro it., 2017, V, 35.