L’estremismo violento e le contraddizioni delle “nostre” libertà
La crescita esponenziale delle vittime di estremismo e terrorismo in Africa costituisce un fenomeno terribile in sè e una realtà preoccupante anche sul piano degli equilibri internazionali. Questo non può far passare sotto silenzio l’aumento dei crimini violenti e di odio all’interno del mondo occidentale e, in particolare, degli Stati Uniti. Le politiche della nuova Amministrazione statunitense sono oggi messe sotto stress da episodi ripetuti di intolleranza e dalle loro conseguenze in termini di vite umane e di deriva culturale. Il tema della violenza estremista ha assunto da tempo una rilevanza universale e chiama la comunita’ internazionale a cercare risposte nuove. A sua volta, il dibattito apertosi dopo i fatti di Charlottesville chiama in causa valori fondanti della civiltà americana e della sua Costituzione e fa emergere l’esigenza di un loro “aggiornamento”.
1. Nell’anno 2000 gli atti di violenza connessi a estremismo o riconducibili a ragioni di lotta politica in tutto il continente africano erano limitati nel numero e concentrati in particolare nell’area algerina. Negli anni che hanno preceduto le “rivoluzioni” del 2011 e i fatti di Libia essi sono cresciuti progressivamente, pur rimanendo un fenomeno ancora limitato geograficamente. Nel complesso gli “attacchi” commessi nel periodo dal 2000 al 2010 sono stati 1.699 e hanno provocato 8.900 decessi e 6.605 ferimenti. Assai più preoccupante quanto avvenuto negli anni 2011-2016 (i dati si fermano al mese di febbraio), coinvolgendo la Libia, altre aree mediterranee nonché ampi settori dell’Africa centrale, del Sahel, del Corno d’Africa: 5.745 attacchi, con 33.300 morti e 10.790 feriti. L’anno terribile è stato il 2015, quando con oltre 8.000 morti la regione dell’Africa sub-sahariana è divenuta quella più colpita nel mondo dopo la regione Mena (Medio Oriente e Nord Africa)[1].
Questi dati, raccolti nell’ambito di una complessa ricerca condotta dal bureau regionale africano di United nations development program (Undp)[2], devono far riflettere per la loro rilevanza obiettiva in un continente la cui popolazione è in crescita esponenziale e rappresenta a livello globale la quota di gran lunga maggiore delle persone sotto i 30 anni di età. Ma devono far riflettere anche per l’inevitabile confronto con i dati e con le analisi che abbiamo letto riguardo alla realtà europea e in senso lato occidentale, aree in cui il numero di attentati e di vittime per atti di terrorismo si presenta enormemente inferiore e in cui i contesti sociali e istituzionali manifestano una ben diversa solidità.
2. La ricerca Undp ha richiesto oltre due anni di lavoro e ha cercato di andare alle radici di questa impressionante esplosione di violenza, che per oltre il 70% dei casi va ricondotta a gruppi che vantano riferimenti a una matrice religiosa. Una parte consistente del lavoro si è concentrata sull’esame delle testimonianze di oltre 700 persone che erano state protagoniste di atti di violenza o avevano partecipato alla vita dei gruppi estremisti. Un campione significativo, se paragonato ad altre ricerche simili in grado di intervistare poche decine di persone. Interessante notare che, nonostante una così rilevante differenza numerica del campione, non si ravvisano grandi contrasti fra le diverse analisi e le differenze registrate sembrano in gran parte attribuibili alle diversità strutturali esistenti fra le regioni africane, da un lato, e le aree mediorientali e europee, dall’altro.
I risultati dell’indagine circa le caratteristiche e le motivazioni delle persone che hanno aderito nell’Africa sub sahariana a gruppi estremisti e violenti meritano una lettura puntuale e non consentono semplificazioni. Ma voglio qui provare a evidenziare alcuni dati essenziali.
Quanto alle caratteristiche personali, circa il 70% dei 718 ex aderenti a gruppi estremisti che sono stati intervistati hanno un’età compresa fra 17 e 26 anni; per la gran parte provengono da aree di confine o zone periferiche; molti appartengono a minoranze etniche; in genere hanno basso o bassissimo livello di educazione e un altrettanto basso livello di cultura religiosa; l’assoluta maggioranza al momento dell’adesione al gruppo estremista era priva di lavoro o sotto occupata.
Quanto alle fonti del contatto con l’estremismo, una percentuale minima riferisce della rilevanza di internet e dei mass-media, mentre ben il 50% parla dell’importanza dell’ambiente circostante (amici) e dei leader religiosi (17%). Il reclutamento è quasi sempre veloce: addirittura meno di un mese per il 48% degli intervistati e meno di un anno per un altro 32 %. Infine, il 78% degli intervistati ha espresso una profonda sfiducia nelle istituzioni locali e nazionali e ben il 71% ha indicato come spinta finale verso l’adesione al gruppo estremista proprio le (cattive) azioni delle autorità.
3. Come accennavo, le diverse ricerche compiute su persone reduci da azioni violente o dalla semplice adesione ai gruppi terroristici attivi in Medio Oriente (in particolare Isil) hanno potuto avvalersi di un campione più ridotto, ma non per questo risultano meno significative[3]. Esse hanno riguardato ex combattenti o ex aderenti ai gruppi terroristici, persone che provenivano dall’Europa e dal Nord Africa. Ne emerge un quadro che evidenzia l’esistenza di alcuni punti comuni con la ricerca di Undp ora ricordata e un importante elemento di distinzione. Quanto ai punti di convergenza, ne segnalo tre: giovane età, bassa scolarità (seppure il livello medio d’istruzione dei giovani provenienti dall’Europa sia più alto rispetto ai giovani africani), modesta cultura religiosa[4]. C’è un altro punto in comune: la provenienza da aree di marginalità. Tuttavia, mentre questo in Africa significa provenienza dalle estreme periferie del Paese oppure appartenenza a etnie assolutamente minoritarie, in Europa la marginalità assume il carattere dell’emarginazione sociale in un tessuto integrato e, dunque, quello della provenienza dalle periferie urbane e dalle relative aree di disoccupazione-sotto occupazione.
L’elemento di distinzione cui accennavo è rappresentato dal ruolo dei mass media e di internet, che nei paesi occidentali e nord africani hanno dimostrato ben altra rilevanza. Sappiamo tutti quanto in tali contesti la propaganda estremista e quella terrorista abbiano tratto vantaggio dalle potenzialità dei nuovi strumenti di comunicazione.
4. Abbiamo ricordato in apertura il numero impressionante di atti di violenza che nel continente africano trovano ragione in una cultura di estremismo e di vero e proprio terrorismo. Le conseguenze negative di tale violenza sullo sviluppo di vaste aree del continente sono riconosciute da tutti. A rendere tali conseguenze particolarmente gravi e perfino drammatiche concorrono molti fattori. Anche prescindendo dalla debolezza delle istituzioni di una fetta consistente della nazioni africane, possiamo qui ricordare le caratteristiche geografiche e sociali del continente, la porosità dei confini nazionali, che in molti casi può essere qualificata come vera e propria inesistenza, la divisione in gruppi tribali e la scarsità di reti connettive e di comunicazioni, le grandi distanze fra i centri abitati. Tutto questo comporta fenomeni non conosciuti per modalità e dimensioni in altre aree geografiche.
5. Ma sarebbe errato guardare ad Africa e Medio Oriente come realtà lontane e non raffrontabili con le nostre. Proviamo, infatti, a prendere in esame le statistiche degli atti di violenza che riguardano gli Stati Uniti, cominciando da quelle concernenti le persone morte o ferite per violenze commesse con arma da fuoco. Negli anni dal 2001 al 2014 le vittime sono state 440.095 (di cui 29.573 nel 2001 e 33.599 nel 2014) mentre nel 2017 (dati aggiornati al 10 settembre) le statistiche registrano 43.027 “incidenti”, di cui 249 «mass shooting», con un esito di 10.302 decessi e 21.534 ferimenti.
È in questo contesto che possiamo provare a collocare i crimini motivati da cultura e ideologia estremista e, più in generale, quelli che qui vengono chiamati «hate crimes», concetto che l’Fbi definisce come «criminal offense against a person or property motivated in whole or in part by an offender’s bias against a race, religion, disability, sexual orientation, ethnicity, gender, or gender identity.» L’Fbi chiarisce che quello che abbiamo chiamato “odio” non costituisce un crimine in sé e deve essere affrontato tenendo conto della esigenza di tutelare la libertà di pensiero e di parola e le altre libertà civili.
Proviamo allora a leggere le statistiche sui reati di odio commessi negli Stati Uniti. Data la delicatezza della definizione e la non concordanza dei criteri utilizzati dai diversi osservatori, mi limito qui a riportare i dati relativi agli ultimi tre anni resi disponibili dalle statistiche ufficiali di Fbi.
Nel 2013 gli episodi sono stati 5.928, con 7.242 vittime. Di questi episodi il 48,5% è risultato motivato da odio legato a razza o appartenenza etnica, il 20,8% all’orientamento sessuale e il 17,4% a motivi religiosi.
Nel 2014 gli episodi sono stati 5.477 con 6.727 vittime. Gli episodi sono stati motivati per il 47% da razza/etnia, il 18,6% da orientamento sessuale e il 18,6% da motivi religiosi.
Nel 2015 gli episodi sono stati 5.850, con 7.173 vittime. Interessante vedere come gli episodi su base razziale/etnica sono saliti al 56,9%, quelli su base religiosa sono saliti al 21,4%, mentre quelli legati all’orientamento sessuale sono rimasti attorno al 18,1%.
Le statistiche non ufficiali concordano nel segnalare un incremento delle violenze basate su ragioni di odio nel 2016 e 2017, con un picco collocato nelle settimane precedenti le elezioni del novembre 2016 e con una preoccupante tendenza ancora nel 2017.
6. Sabato 12 agosto 2017 gruppi suprematisti bianchi e altri gruppi vicini alle loro posizioni si sono dati appuntamento a Charlottesville (Virginia) per dimostrare contro la decisione dell’amministrazione locale di rimuovere la statua del generale Robert E. Lee, che fu alla testa dell’esercito confederato durante la guerra civile. La riunione di tali gruppi, ampiamente pubblicizzata, ha attirato in città gruppi di contro-manifestanti e nel corso del confronto fra gli opposti schieramenti uno dei suprematisti, un giovane di 20 anni, ha investito intenzialmente gli avversari con la propria auto, provocando la morte della trentaduenne Heather Heyer e il ferimento di diciannove persone.
Qualche giorno dopo i fatti di Charlottesville i clienti di Uber hanno ricevuto sul proprio telefono un messaggio di condanna delle violenze e delle posizioni dei suprematisti bianchi, con impegno a evitare che ogni forma di adesione a quelle posizioni possa essere veicolata attraverso il sito e le “app” della compagnia. Si tratta di un fatto nuovo, che evidenzia quanto in profondità quegli avvenimenti e il clamore da essi suscitato abbiano inciso sull’opinione pubblica americana, divenendo occasione per un dibattito che ha coinvolto ampi settori della vita politica e sociale del Paese.
Peraltro, la reazione dei “provider” di servizi internet e di social media aveva in qualche modo preceduto gli incidenti: due giorni prima delle manifestazioni Facebook aveva chiuso la pagina United the Right, utilizzata per organizzare la riunione dei suprematisti, costringendo gli organizzatori a fare ricorso ad altre piattaforme. A sua volta, Airbnb, nei giorni precedenti il raduno di Charlottesville aveva rimosso dal proprio sito gli account di una serie di persone e diffuso un comunicato in cui si afferma che il linguaggio e i metodi dei gruppi neo-fascisti e suprematisti «non dovrebbero trovare spazio in questo mondo».
Successivamente agli incidenti la stessa Facebook ha chiuso altre pagine dai nomi significativi, fra tutti Right Wing Death Squad. Altri provider hanno fatto lo stesso, ad esempio chiudendo la pagina Physical Removal, che ha qualificato come «azione moralmente giustificata» l’investimento dei contromanifestanti e la conseguente morte di una di loro. A sua volta, Twitter ha sospeso numerosi utenti, individuali e collettivi.
Anche i provider di domini e servizi internet hanno reagito con decisione, ad esempio non offrendo più domini al sito The Daily Stormer, qualificato da molti come neo-nazista e certamente uno dei siti più importanti di quest’area culturale. La stessa PayPall ha rifiutato i propri servizi a una nota organizzazione suprematista. Per finire, Spotify ha deciso di espungere dal proprio sito la musica «suprematista bianca».
Ma non si pensi di essere davanti a reazioni episodiche legate alla particolarità del momento. I grandi provider da alcuni anni investono moltissimo nel settore del controllo sull’utilizzo dei propri servizi da parte degli utenti con finalità e modalità illegali. A partire dalla crescita dei reati legati alla pornografia minorile e alle frodi telematiche, passando per quelli legati ai flussi finanziari illeciti e al crimine organizzato, i provider si sono dotati di strutture interne che monitoriano i propri servizi. Tale attività è indubbiamente cresciuta ancora con l’emergenza derivante dal terrorismo internazionale. In un recente seminario ristretto svoltosi a New York, la rappresentante di Facebook ha spiegato come vengono utilizzate le 150 persone dedicate alla sola prevenzione dell’abuso dei servizi da parte dei gruppi estremisti e terroristi. Si tratta di ingegneri, sociologi, esperti di comunicazione, linguisti e altre professionalità che lavorano in maniera coordinata su base globale e che si collegano alle reti locali e alle forze di polizia nelle diverse aree geografiche.
7. Questa risposta dei provider lascia pochi dubbi circa l’evoluzione del pensiero politico e dell’approccio giuridico agli strumenti di comunicazione di massa e all’idea di libertà che di questi costituisce la ragione d’essere. Solo un paio di anni fa gli stessi provider avrebbero fatto valere la propria estraneità ai contenuti veicolati attraverso i servizi forniti, mentre a tutela dei propri clienti avrebbero invocato la primazia della libertà di espressione. Si è oggi in presenza di una realtà in parte nuova, che rende maggiormente evidenti una serie di contraddizioni e di problemi di grande momento, come emerge dal disagio manifestato ai media dall’amministratore della piattaforma che, sotto una fortissima pressione pubblica, ha chiuso il sito The Daily Stormer.
A questo proposito va ricordato che i gestori delle piattaforme di comunicazione sociale oscillano tra una visione contrattualistica, fondata sul legame con il singolo utente (definito spesso «membro della comunità»), e un’idea di responsabilità verso la collettività che si fonda sull’ormai evidente rilevanza della piattaforma quale strumento che rende effettive libertà di grande importanza sociale e che assume un oggettivo rilievo anche sul terreno della politica. Le due diverse ragioni d’essere conoscono un difficile bilanciamento e gli stessi gestori utilizzano spesso tali “vocazioni” in maniera non coerente a seconda dei problemi sorti e a seconda del risultato che intendono ottenere.
Sotto un diverso profilo, non possiamo dimenticare che il bilanciamento fra le due vocazioni dei social media e della rete assume connotazioni e conseguenze assai diverse a seconda che la piattaforma operi in sistemi di democrazia avanzata oppure in sistemi autarchici o comunque caratterizzati da ridotti spazi di libertà politica. Evidenti sono, infatti, i rischi legati alla labilità dei confini esitenti, da un lato, tra estremismo e opposizione politica e, dall’altro, tra libera manifestazione del pensiero e incitamento alla lotta politica violenta[5]. Ma si tratta di discorso che non possiamo affrontare in questa sede.
Credo, infine, non vi siano dubbi sul fatto che l’evoluzione del pensiero politico e delle regole che operano nel mondo dei mass media abbia conosciuto una spinta decisiva con la crescita del terrorismo internazionale e, in particolare, con l’uso che Isil ha fatto e sta facendo di internet e delle altre forme di comunicazione di massa. Il collegamento sempre più stretto fra terrorismo ed estremismo violento ha allargato i confini del dibattito e coinvolto in forme nuove il senso di responsabilità e le scelte dei provider e delle istituzioni pubbliche[6], muovendo verso forme più avanzate nel delicato equilibrio fra libertà di manifestazione del pensiero e limitazione delle espressioni che trascendono il limite dell’incitamento alla violenza.
Da anni gli organismi Onu e molte realtà internazionali sviluppano analisi e iniziative volte a rafforzare la cooperazione fra settore pubblico e privato al fine di rispondere agli illeciti commessi attraversi i social media e la rete. Come si accennava poco sopra parlando dell’esperienza di Facebook, non vi è dubbio che i crimini e le reti legati al terrorismo internazionale hanno costituito una forte ragione di superamento delle posizioni tradizionali. In questo contesto, i governi di Francia, Italia e Regno Unito hanno organizzato il 20 settembre 2017 un incontro a lato della cerimonia di apertura della 72^ Assemblea generale per presentare un documento redatto congiuntamente, coinvolgendo i più importanti provider. Tale documento rende urgente per le parti pubbliche e private adottare condotte coerenti e contiene un invito agli altri attori nazionali e internazionali affinché la risposta alla minaccia terroristica e all’abuso di internet e dei social media sia coerente e coesa[7].
8. Tornando alle vicende statunitensi, va ricordato un fatto tanto importante sul piano politico quanto imprevisto. Con iniziativa bipartisan, avviata da parlamentari dello Stato di Virginia, nei giorni 11 e 12 settembre scorsi i due rami del Parlamento hanno approvato all’unanimità una mozione, tecnicamente non vincolante, che impegna il Presidente Trump e il Procuratore generale/Ministro della giustizia, Jeff Sessions, ad adottare iniziative che diano risposta ai fatti di Charlottesville. Al Presidente viene chiesto di esprimere una chiara condanna nei confronti di «nazionalisti bianchi, suprematisti bianchi, Ku Klux Klan, gruppi neo-nazisti e gli altri gruppi fondati sull’odio» e di fare ricorso a tutte le risorse a sua disposizione per «affrontare la crescente prevalenza dei gruppi fondati sull’odio negli Stati Uniti». È interessante notare che il testo non contiene alcun riferimento a coloro che a Charlottesville si opposero alla manifestazione suprematista. Tale mozione è adesso in attesa della firma del Presidente. Per altro verso, essa sollecita il Procuratore generale session a «investigare su tutti gli atti di violenza, intimidazione e terrorismo interno[8]» commessi dai gruppi sopra ricordati. Lo sollecita, altresì, a migliorare e incrementare la segnalazione di tali fatti a Fbi. Va detto che il Presidente Trump non sembra proprio raccogliere il senso dell’iniziativa parlamentare: il successivo 14 settembre egli ha ribadito pubblicamente che le colpe si collocano da entrambi i lati e che anche tra i contro-manifestanti vi sono «cattivi ragazzi».
9. Tale insistenza del Presidente nel porre sullo stesso piano le diverse posizioni assume un significato molto chiaro se si considera che i fatti di Charlottesvilles e i commenti presidenziali hanno chiamato in causa il tema della rimozione delle statue erette in onore di rappresentanti della politica e dell’esercito confederato durante la guerra civile. Ne è derivato un dibattito che ha interessato il ruolo e le politiche di alcuni dei più stretti collaboratori del Presidente, fino a giungere al “licenziamento” di Steve Bannon, considerato il portavoce dei gruppi suprematisti all’interno dell’amministrazione presidenziale.
Il confronto apertosi sulla rimozione delle statue degli eroi confederati è stato semplicisticamente affrontato dal Presidente con parole che hanno messo sullo stesso piano le posizioni confederate e quelle unioniste e che si sono concluse con la domanda su quale sarà il prossimo personaggio storico di diversa impostazione sui cui si abbatterà la rimozione dai luoghi pubblici. Domanda in sé legittima, se si pensa che a fine agosto e inizi di settembre sono state danneggiate o messe in discussione perfino le statue di Cristoforo Colombo, ma del tutto infelicemente posta, dimenticando sia le ragioni che sostenevano le posizioni confederate (in una parola, la difesa dello schiavismo) sia l’epoca di costruzione di quelle statue, per la gran parte erette simbolicamente negli Stati meridionali nel corso degli anni ’50 e ’60, in pieno confronto sociale sulla segregazione e discriminazione delle persone di colore.
Non è facile per noi comprendere il significato che a tali statue si ricollega. Può aiutarci la lucida e profonda lettura che del tema razziale ha fatto James Baldwin negli anni ’60. Brillante studente e poi docente e commentatore di colore, Baldwin ha scritto pagine efficacissime che conservano una grande attualità[9]. Tra le sue opere va ricordato un piccolo saggio del 1962, intitolato «The fire next time»[10]. Scritto nel centesimo anniversario della dichiarazione di Emancipazione sotto forma di lettera al nipote James, il saggio affronta il coacervo di storia, cultura, religione e politica che ha segnato la storia dei neri d’America, la loro condizione di minoranza e la loro esclusione da ogni luogo decisionale della vita della Paese. Fra le tante pagine che aiutano a capire la violenza che ancora oggi, 55 anni dopo, attraversa il Paese, merita di essere ricordata quella dedicata al ruolo rivestito negli anni ’60 dal gruppo politico «Nazione dell’Islam» (Noi) e dalla sua manifesta connotazione religiosa. Baldwin è cristiano ed ha frequentato assiduamente le chiese, anche come predicatore, per poi allontanarsene. Si legge a pag.50: «Elijah Muhammad[11] è stato capace di fare quello che generazioni di lavoratori benestanti e comitati e risoluzioni e rapporti e progetti di edilizia popolare e campi giochi non sono riusciti a fare: salvare e redimere ubriaconi e drogati, convertire persone uscite di prigione e aiutarle a non rientrarvi, rendere gli uomini casti e le donne virtuose, e donare a uomini e donne un orgoglio e una serenità che li circondano come una vera luce. Egli è riuscito a fare tutto quello che la Chiesa di Cristo ha spettacolarmente fallito di fare.» E poche pagine dopo aggiunge: «se tutto quello che il Dio dei bianchi è riuscito a fare è quello che vediamo, allora ne consegue che hanno buone ragioni coloro che proclamano che “... Dio è nero. Tutti gli uomini neri appartengono all’Islam; loro sono stati prescelti. E l’Islam governerà il mondo.”» E dunque Baldwin può commentare che «Il sogno, il sentimento è vecchio; solo il colore è nuovo. Ed è questo sogno, questa dolce possibilità, che migliaia di donne e uomini neri e oppressi in questo Paese adesso portano con sé dopo che il predicatore Musulmano ha diffuso le sue parole attraverso le scure e caotiche strade del ghetto.... Il Dio bianco non li ha salvati, ma il Dio Nero lo farà.»[12].
Decenni di emarginazione sociale, ricerca di riscatto, un Dio diverso e scelte di incomunicabilità radicale sono affiancate ai giorni nostri da una crisi economica che dopo il 2008 ha investito drammaticamente intere fasce di popolazione “bianca” e favorito un risentimento diffuso verso la politica e un odio verso tutti i diversi, siano essi “colored”, “latinos” o “musulmani”.
10. Questo sul terreno politico, dove ancora nei giorni scorsi il tema della tutela di posizioni “fasciste” da parte delle autorità è tornato a farsi incandescente dopo che uno sceriffo è stato destinatario di grazia da parte del presidente Trump prima ancora che divenisse definitiva la sentenza di condanna, prevedibilmente a pochi mesi di carcere, per il reato di «oltraggio alla corte». Joe Arpajo, sceriffo da lungo tempo della Contea di Maricopa (Arizona), è stato oggetto di indagine da parte del Dipartimento di giustizia per una serie lunghissima di abusi commessi nei confronti degli immigrati “latinos”, tra cui vere e proprie retate, violenze fisiche, condizioni di detenzione disumane. Destinatario di un ordine giudiziale di cessazione di tali pratiche, Arpajo ha ignorato il provvedimento. Da qui l’indagine e la prevedibile condanna per il reato di oltraggio alla corte. La motivazione adottata dal Presidente per giustificare la grazia è che lo sceriffo è stato condannato «per avere fatto il suo lavoro». Tale argomento contiene in sé due conseguenze pericolose. La prima, ben nota anche dalle nostre parti, va individuata nella delegittimazione della funzione giudiziaria in quanto tale; conseguenza resa ancora più evidente dalla scelta del tutto impropria (e per molti incostituzionale) di concedere la grazia prima ancora della emanazione della sentenza. La seconda consiste nella legittimazione, indiretta ma palese, alle posizioni dei suprematisti e della destra radicale, movimenti che non possono non cogliere l’appoggio offerto dalla massima carica dello Stato alle loro posizioni e alle loro azioni illegali.
11. Parlando di suprematisti bianchi, che sappiamo seguire idee in larga parte coincidenti con le posizioni del Ku Klux Klan, il discorso chiama inevitabilmente in causa il vero e proprio odio che costoro mostrano verso le persone di colore e verso gli immigrati. Il che riporta il dibattito ad occuparsi della condizione delle minoranze in un paese che non ha affatto superato i conflitti legati alla razza e al colore della pelle, come dimostrano molti fatti recenti, dalle analisi che hanno seguito la devastazione e le vittime che l’uragano Katrina ha provocato fino alle reazioni collegate alle morti di persone di colore per l’azione di appartenenti alle forze di polizia. È, questa, nel complesso una ferita aperta nel corpo del Paese[13], in cui i livelli di profonda sofferenza di larghi strati della popolazione emarginata[14] vengono veicolati in modo molto complesso e talvolta contraddittorio sul piano elettorale (sia a livello locale che federale) e, nello stesso tempo, amplificano le reazioni classiste e perfino violente dei difensori della “razza bianca”.
12. In tutto questo merita attenzione un aspetto della effettività del diritto di manifestazione del pensiero che ai giuristi europei si presenta secondo una prospettiva inconsueta.
Come abbiamo visto e letto, i gruppi giunti da diverse aree dell’America a Charlottesvilles per protestare contro la decisione dell’amministrazione locale di rimuovere la statua di un eroe confederato erano ben organizzati e, soprattutto molto bene armati. Le armi esibite in pubblico nel contesto di una condotta tipica dei gruppi para-militari hanno rappresentato sia un segno distintivo/identitario sia un chiaro messaggio nei confronti delle istituzioni e degli oppositori. Apparentemente niente di illegale, essendo il porto di armi in luogo pubblico consentito in quel territorio. Va detto che anche i contro-manifestanti non hanno mancato di includere persone palesemente armate all’interno di una realtà in gran parte disarmata se non addirittura “pacifista”.
La presenza tra i contromanifestanti di gruppi noti come AntiFa, altrimenti detti Alt-Left, ha consentito al presidente Trump e ai suoi sostenitori di porre sullo stesso piano quelli che noi defiiremmo gli opposti estremismi. Il che ha fatto dire a Naomi Chomsky che gli AntiFa sono un vero e proprio regalo alla destra. In effetti, i gruppi della sinistra radicale sono nati come reazione al crescere del ruolo e dell’azione dei suprematisti bianchi e, in genere, della destra radicale e in tale prospettiva partecipano talvolta alle manifestazioni pubbliche portando visibilmente armi. Ma parificare le due realtà è un falso storico e una risposta di comodo per chi non intende condannare davvero i gruppi di estrema destra. Mentre questi ultimi sono ben organizzati, ben collegati tra loro e in grado di muoversi in modo coerente come hanno fatto il 12 agosto, gli AntiFa hanno carattere localistico, scarso coordinamento ed evidenti divisioni a seconda della base anarchica, marxista o esclusivamente antifascista delle singole realtà. Basti dire che fra di loro manca perfino il consenso sulla pronuncia esatta dell’acronimo AntiFa.
13. Alcuni commentatori hanno osservato che a ben vedere sembra esservi oramai un preoccupante contrasto tra la libertà di manifestazione del pensiero invocata anche dai gruppi suprematisti, il suo valore universale basato sul dettato costituzionale e il diritto di manifestazione del pensiero di coloro che si trovano ad opporsi nelle strade e nelle piazze a gruppi armati organizzati che si muovono secondo forme para-militari.
Va detto che il primo Emendamento alla Costituzione americana proibisce ogni legge che limiti «la libertà di parola, o di stampa, o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente». A sua volta il Secondo Emendamento vieta limitazioni al diritto delle persone di possedere e portare armi, dal momento che una «ben regolata Milizia» è necessaria alla sicurezza di uno Stato libero.
Se questi sono i principi costituzionali in gioco, va detto che le norme federali e quelle statali regolano in maniera non uniforme il porto in luogo pubblico di armi “nascoste”, di armi a canna corta e di armi a canna lunga. Per restare a questi due ultimi casi, solo sei Stati proibiscono espressamente il porto di armi corte (California, Distretto di Colombia, Florida, Illinois, New York e Carolina del Sud), cui si aggiungono Massachussetts, Minnesota e New Jersey per le armi lunghe. Per le armi corte sono 15 gli Stati che prevedono la necessità di un permesso (altri 5 hanno comunque qualche restrizione), mentre sono solo 5 gli Stati che hanno introdotto restrizioni per le armi lunghe.
Come si vede, il numero di Stati che consentono di portare liberamente armi in pubblico è molto elevato e il rischio di manifestazioni ove si contrappongano due schieramenti apertamente armati è certamente destinato a crescere col crescere del conflitto sociale.
Ma la capacità dei gruppi di estrema destra di far valere la forza intimidatrice delle armi è particolarmente elevata, mentre buona parte dei contro-manifestanti fa leva su forme non violente o comunque non armate. La sproporzione fra le due realtà è evidente, tanto che un riferimento indiretto si rinviene perfino nella mozione parlamentare dell’11 e 12 settembre 2017 di cui abbiamo detto poco sopra.
Questa sproporzione e le dimensioni che essa sta assumendo fanno riflettere molti commentatori sulla natura stessa delle libertà di associazione e di parola quando vengono sistematicamente sostenute con forme para-militari per quanto non contrarie alla legge. Di qui la richiesta al mondo politico di andare oltre le mere censure e di ripensare il diritto dei cittadini di circolare armati; e di qui la invocazione di nuove forme di controllo in presenza di manifestazioni organizzate: per ragioni di ordine pubblico, ma anche come intervento di tutela del diritto di manifestazione del pensiero di coloro che si radunano senza portare armi.
14. I legami attuali e potenziali fra cultura dell’odio, estremismo violento e atti di terrorismo sono emersi in tutta la loro portata negli ultimi anni. Si tratta di materia delicatissima, che muove dalla fondamentale libertà di manifestazione del pensiero e può assumere le più diverse connotazioni: forme legittime di opposizione politica, oppure reazione organizzata a regimi totalitari o anche solo autocratici, ma anche condotte illegali sul piano interno e internazionale.
In queste pagine ho accostato due realtà molto diverse tra loro, come quella africana e statunitense, e richiamato per un attimo l’esperienza che stiamo vivendo in Europa. Per quanto eterogenei siano i contesti, sembrano ravvisabili somiglianze ed elementi di continuità che fanno riflettere e che ci dicono che anche le realtà istituzionalmente più democratiche non sono affatto immuni da rischi che per moltissimo tempo abbiamo considerato poco e teso a proiettare su altre realtà e altri soggetti.
Non affrontate con onestà intellettuale, le cause profonde della violenza si radicano e finiscono per consolidarsi nella percezione e nella cultura delle persone. Per questo le parole e le scelte della nuova Amministrazione americana suonano per molti come un pericolo da disinnescare rapidamente sia nelle vicende domestiche sia nelle relazioni internazionali. Compito molto difficile alla luce della cultura diffusa nel Paese e delle contraddizioni che su questi temi segnano anche settori dell’opposizione democratica.
Ma nessun Paese può dirsi immune dai pericoli che derivano dal conflitto sociale e dai messaggi violenti, siano essi fondati su ragioni razziali, etniche, politiche o religiose. Meglio ancora, nessun Paese può pensare che un conflitto che si sviluppa in una realtà lontana sia da guardare con indifferenza: in un mondo globalizzato gli attori e le ragioni di quel conflitto sono in grado di riproporsi rapidamente altrove, magari con forme diverse e con obiettivi diversi.
Infine, è ormai evidente a tutti che le risposte militari e securitarie possono compiere solo una parte del lavoro, il cui cuore sta, piuttosto, in percorsi di medio e lungo termine che coinvolgano politiche sociali di riduzione delle diseguaglianze e di educazione alla pace, alla legalità e al rispetto delle diversità.
Sarebbe davvero sbagliato pensare, come purtroppo fanno alcuni Paesi importanti, che queste politiche e il rispetto dei diritti fondamentali costituiscano forme di debolezza. Per questo continuo a ritenere che le conquiste dello Stato di diritto e delle libertà fondamentali debbano essere difese, innanzitutto, all’interno dei Paesi e delle aree che ne vanno fieri. Nell’attuale dimensione internazionale non possiamo più permetterci tante buone parole accompagnate da troppi cattivi esempi.
[1] Poco meno di 14.000 le morti in tale Regione e circa 7.000 quelle nel Sud Est Asiatico, altra area critica e con un numero crescente di episodi e un forte incremento nella presenza di terroristi.
[2] Il rapporto, Journey to extremism in Africa, é stato presentato alle Nazioni Unite da Undp nel mese di settembre 2017 ed è disponibile sul suo sito web.
[3] Una collocazione particolare merita la ricerca compiuta da David Thomson su un numero di sole 12 persone di nazionalitá francese che si sono unite ad Isil in Siria. La ricerca si caratterizza per essersi concentrata su persone legate alla realtà sociale e agli ambienti che Thomson ha seguito per anni (si veda il suo volume Les Francais jihadistes, ed. Les Arenes, 2014) e con le quali ha potuto restare in qualche modo in contatto anche durante il periodo di adesione al gruppo terrorista e successivamente al rientro in Francia di alcuni di loro. La ricerca ha dato origine al volume Les Revenants, ed.Seuil, Les Jours, 2016. Al numero ristretto del campione fa da contraltare l’approfondimento delle analisi individuali e il lungo periodo di frequentazione, di persona e a distanza. Questo ha consentito un approfondimento sulle vite personali, le ragioni profonde e l’evoluzione delle scelte ed offre informazioni particolarmente importanti sui presupposti e le motivazioni reali delle condotte violente di giovani nati in Europa e finiti sui campi di battaglia in Medio Oriente.
[4] Molte delle ricerche effettuate concludono per la necessità di valutare con molta prudenza la matrice religiosa dell’estremismo e del terrorismo. Fuori dubbio che esista in molti gruppi e organizzazioni una base religiosa e che questa sia molto forte in un numero ristretto di persone. Per la maggioranza delle persone intervistate, invece, l’elemento religioso assume una rilevanza marginale e risulta più una vernice che funge da giustificazione che un fattore motivazionale effettivo. Anche quel 17% di giovani che hanno riferito di un ruolo importante dei leader religiosi sono risultati assai poco padroni dei testi e dei fondamenti della religione e per la maggioranza degli stessi le motivazioni della scelta di aderire ai movimenti violenti appaiono radicarsi essenzialmente in altri fattori.
[5] Come ho giá avuto modo di ricordare, difettano ancora a livello internazionale definizioni condivise dei concetti di “estremismo violento” e di “terrorismo”. E basta attraversare il Bosforo per incontrare un esempio delle ragioni che rendono oggi impossibile giungere a un accordo in questo senso.
[6] A seguito del mandato ricevuto dal Consiglio di Sicurezza nel mese di maggio 2016, il Comitato Anti Terrorismo dell’Onu e il suo Direttorato Esecutivo hanno effettuato un’ampia ricognizione delle iniziative ormai presenti a livello mondiale con lo scopo di contrastare la propaganda estremista e terrorista e di mettere in atto forme di comunicazione alternativa. È emerso, tra le altre cose, un crescente impegno di collaborazione fra istituzioni pubbliche, provider di servizi internet e social media, mondo universitario e societá civile (associazioni e fondazioni). Sulla base di questa ricognizione e dei profili politici e giuridici emersi, il Consiglio di Sicurezza ha adottato la risoluzione 2354 del 2017 che ha sollecitato sia gli Stati membri sia gli organismi Onu a rafforzare la risposta contro l’abuso degli strumenti di comunicazione, in questo richiedendo l’aggiornamento dei sistemi legali nazionali (inclusa la chiusura dei siti che operano illegalmente), la realizzazione di programmi nazionali e regionali destinati a contrastare le condotte illecite, la messa in campo di progetti educativi e altre “buone pratiche”, la cooperazione fra attori pubblici e privati anche al fine di diffondere efficaci messaggi di contro-narrativa.
[7] Il documento è stato presentato dal presidente Macron, dai primi ministri Gentiloni e May e dal rappresentante di Google a nome del Global internet forum to counter terrorismo (Gifct), un consorzio che riunisce i maggiori attori privati, tra cui Google, Microsoft, Facebook, Twitter. Il testo mette in evidenza l’importanza che gli sviluppi tecnologici vengano utilizzati per rimuovere immediatamente i contenuti illegali da internet e dai social media e per evitare che il materiale dei terroristi venga pubblicizzato tramite altre piattaforme.
[8] «Terrorismo interno» è esattamente la definizione utilizzata nelle sue dichiarazioni dal senatore della Virgina, Mark Warner, per definire l’intenzionale investimento dei contromanifestanti operato a Charlottesville da uno dei suprematisti bianchi.
[9] È uscito nelle sale alcuni mesi fa un eccezionale film-documentario incentrato sulla sua opera dal titolo significativo, I am not your Negro. Il lavoro é stato condensato anche in un libro dallo stesso titolo.
[10] The fire next time, Vintage Book, 1962, riedito nel 1993.
[11] Il capo e ideologo della «Nazione dell’Islam», che in quegli anni annoverava tra i suoi protagonisti Malcom X.
[12] Sembra, questo, un commento di enorme attualitá anche per una lettura delle vicende dell’estremismo presente in Europa e dei meccanismi di contrapposizione etnica e religiosa che questo continente sta conoscendo.
[13] Segregazionismo e schiavismo non sono stati e non sono fenomeni radicati nel solo Sud degli Stati Uniti. Ce lo ricordava Baldwin nelle sue pagine dedicate a New York e Chicago, e ce lo ricorda la ricercatrice Tiya Miles (Universitá del Michigan), che ha pubblicato numerosi lavori sulle forme di sfruttamento delle persone di colore nelle aree del Nord degli Stati Uniti, inclusa la zona industriale di Detroit. In un suo recente intervento (New York Times, 11 settembre 2017) ella ha ribadito che é certamente giusto rimuovere le statue erette in onore dei Confederati, ma che questo nulla toglie all’ampiezza del fenomeno dello “schiavismo” nel contesto di tutti gli States nei nostri decenni.
[14] A seguito della vittoria di Donald J. Trump del novembre 2016 sono stati pubblicati numerosi articoli e saggi dedicati al voto bianco che ha costituito l’elemento determinante per il risultato, con un ruolo importante rivestita da aree divenute depresse e da classi medie disperatamente impoverite. Una delle pubblicazioni maggiormente efficaci in questa prospettiva é, sorprendentemente, un non-saggio pubblicato da un giovane professionista che, sotto la forma della narrazione della propria vera vita, illustra le ragioni di impoverimento e perdita di illusione di un’area del Paese tradizionalmente più vicina ai Democratici e giunta nel 2016 ad appoggiare le posizioni di Trump (J.D. Vance, Hillibilly Elegy, ed.Harper Collins, 2017)