La Corte di cassazione e il sistema delle impugnazioni penali: prospettive di riforma
Lo scritto esamina il tema del ricorso in Cassazione in materia penale evidenziando come il nostro ordinamento – per la previsione dell’art. 111, comma 7, della Costituzione – si caratterizzi per l’abnorme numero di ricorsi che rende estremamente difficile una seria opera di nomofilachia da parte della Corte di cassazione. Evidenzia peraltro come con legislazione ordinaria, come del resto in parte avvenuto con alcune modifiche introdotte dalla l. 103/2017, sarebbe possibile ridurre ulteriormente il carico dei ricorsi in particolare eliminando la possibilità di ricorrere per vizio di motivazione contro i provvedimenti in materia cautelare; si sottolinea anzi l’opportunità di riportare l’ambito oggettivo dei ricorsi alla disposizione costituzionale che lo limita alla “violazione di legge”. Ciò naturalmente richiederebbe la previsione di sistemi alternativi di tutela dei diritti violati quando il giudice di merito sia incorso in una palese e oggettiva violazione delle regole di valutazione della prova o della logicità del giudizio.
1. Il sistema attuale
In tutti i paesi del mondo il sistema processuale delle impugnazioni si configura come una piramide. Ciò avviene anche nel nostro ordinamento processuale penale, solo che la piramide è rovesciata: mentre la possibilità di proporre appello prevede alcune (modeste) limitazioni (art. 593 cpp) il ricorso in Cassazione contro le sentenze inappellabili o contro quelle di secondo grado ha applicazione generalissima perché garantito, come è noto, dall'art. 111, comma 7°, della Costituzione, anche nella formulazione successiva all’approvazione della legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2, che consente («sempre») il ricorso nei confronti delle sentenze e dei provvedimenti sulla libertà personale.
Il vincolo costituzionale rende impraticabile ogni seria riforma del giudizio di legittimità – e complica seriamente la possibilità di affrontare altri aspetti riguardanti le impugnazioni – anche se alcuni adattamenti sono stati approvati e altri sarebbero possibili per razionalizzare il giudizio di legittimità e, soprattutto, per ridurre l’abnorme numero dei ricorsi. Gli spazi per la riforma del giudizio di appello sono molto più consistenti e una riforma sarebbe indispensabile e resa necessaria dalla trasformazione del nostro sistema processuale penale. La disciplina del doppio grado di giurisdizione di merito stride infatti profondamente con il nuovo sistema processuale di tipo accusatorio perché, nel giudizio di appello, salvo i casi di rinnovazione totale del dibattimento, non è possibile affermare che la prova si sia formata davanti al giudice che poi emette la sentenza; regola che costituisce l’aspetto caratterizzante del processo accusatorio ancor più della maggiore estensione del contradditorio che è invece compatibile con il processo inquisitorio.
Oggi avviene che nel giudizio ordinario di primo grado viene dato ampio spazio all’oralità mentre, nella normalità dei casi, il giudizio di appello si riduce ad un processo scritto ispirato a principi opposti a quelli del processo orale, quanto meno nei limiti in cui il giudice di appello deve, ai fini della sua decisione, rivalutare, solo da un punto di vista cartolare, le prove assunte davanti al primo giudice. Tant’è vero che il legislatore è stato costretto a prevedere espressamente (ma l’obbligo era stato ritenuto conseguire già dall’art. 6 Cedu dalle Sezioni Unite della Cassazione[1]) che, nel caso di appello del pm contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice disponga la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale: comma 3 bis dell’art. 603 cpp introdotto dall’art. 1, comma 58, l. 23 giugno 2017 n. 103.
Conferma di questa incompatibilità si ritrova nell’esame dei sistemi processuali di common law nei quali, con larga approssimazione, il giudizio di appello è ammesso esclusivamente per motivi di legittimità e costituisce soltanto una fase (eventualmente) rescindente cui segue, ma non sempre, nel caso di accoglimento dell’appello, la fase rescissoria che si svolge davanti al giudice di primo grado, ovviamente diversamente composto. Insomma come (quasi) sempre accade in Italia importiamo sistemi complessi rifiutando però i fondamentali principi che li caratterizzano: l’oralità e la formazione della prova davanti al giudice che decide sono infatti i caratteri fondamentali del processo accusatorio. Bene: nel nostro sistema il più delle volte il giudice che ha l’ultima parola nel merito del processo si limita a leggere le carte!
Del resto mentre possiamo pensare che un giudice “superiore” possa – per la sua maggiore esperienza o per il superamento di valutazioni di professionalità – esprimere un giudizio maggiormente attendibile nell’interpretazione o applicazione della legge da che cosa ricaviamo un’analoga conclusione nel caso di un giudizio che abbia ad oggetto la valutazione della prova dichiarativa? L’esperienza degli ordinamenti in cui operano le giurie popolari, e quella delle nostre Corti d’assise, nulla ci dicono in proposito?
Il nostro più recente legislatore costituzionale (v. la già citata l. 2/1999) ha inoltre ignorato che non esiste nel mondo un sistema processuale che preveda un così generalizzato accesso al vertice processuale della giurisdizione e ha dimenticato il contesto in cui fu approvato l’art. 111 della Costituzione (le sentenze delle Corti di assise erano inappellabili e allora, prima dell’entrata in vigore della Costituzione, era prevista la pena di morte di fatto applicata sia pure in rari casi). Del resto la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo prevede il diritto di presentare un ricorso effettivo ad una «magistratura nazionale» (art. 13) e solo con l’approvazione del protocollo addizionale n. 7 (diritto a un doppio grado di giudizio in materia penale) è stato previsto il diritto del condannato «di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza o la condanna da una giurisdizione superiore»[2]; non certo da una Corte suprema.
2. Modifiche attuate o attuabili con legge ordinaria. La prescrizione
Seppur ristretti i margini di manovra per un'eventuale riforma del giudizio di legittimità non sono però inesistenti quanto meno per giungere ad un ulteriore sua semplificazione ma tenendo presente che una significativa razionalizzazione di questo giudizio può derivare anche da modifiche della normativa sostanziale (in particolare quella che riguarda la prescrizione del reato) e del sistema delle nullità o inutilizzabilità.
Il quesito fondamentale è questo: se il sistema delle impugnazioni è preordinato ad ottenere una sentenza più equa o giuridicamente corretta dal giudice “superiore” una serie di interventi su istituti sostanziali o processuali potrebbe effettivamente dare una svolta al sistema. Se invece le impugnazioni servono a prender tempo per far decorrere i termini di prescrizione o per poter aspirare ad un provvedimento di indulto o amnistia non c’è scampo: il sistema non solo non migliorerà ma è destinato a peggiorare drammaticamente.
Il primo nodo, di natura sostanziale, è quello della prescrizione: questo istituto ha un senso perché sanziona il disinteresse dello Stato a perseguire determinati reati. Ma se lo Stato sta processando una persona che senso ha consentirne il decorso? Occorre dire che, su questo versante, sia pure timidamente, il legislatore è intervenuto con la l. 103/2017 che ha previsto due nuovi casi di sospensione dei due giudizi di merito, pari ciascuno ad un anno e sei mesi (art. 159, comma 2, nn. 1 e 2). Certo una disciplina razionale e meno timida avrebbe introdotto la sospensione del decorso della prescrizione durante la celebrazione del processo eventualmente prevedendo termini massimi per ogni grado superati i quali la prescrizione ricomincia a decorrere.
Il problema della prescrizione influisce direttamente sul numero abnorme dei ricorsi in cassazione (il più elevato al mondo: nella materia penale siamo, dal 2010, stabilmente ben oltre i 50.000 all’anno; sei volte quelli francesi e quindici volte quelli tedeschi[3]). Oltre tutto la disciplina della prescrizione costituisce una delle cause (forse la più rilevante) di un ricorso limitato ai riti alternativi. Se non vi fosse la speranza di lucrare la prescrizione certamente un numero assai maggiore di processi sarebbe definito con i riti alternativi (si pensi a tutti i casi di responsabilità palese o addirittura di confessione dell'imputato; in particolare nelle ipotesi in cui alla condanna definitiva non consegue l’esecuzione di una pena detentiva) e si eviterebbe così, o si ridurrebbe sensibilmente, l'intasamento della sede dibattimentale che costituisce la causa principale della durata eccessiva del processo.
Non è un caso, del resto, che nei sistemi anglosassoni, solo una percentuale irrisoria dei processi (si parla di percentuali tra il 5 e il 10 per cento: in sistemi nei quali l'azione penale non è obbligatoria!) perviene alla fase dibattimentale.
3. Aspetti processuali: in particolare il regime delle nullità e delle inutilizzabilità
Un settore, di natura processuale, in cui potrebbero essere introdotte modifiche utili ad influire positivamente sulla razionalizzazione del giudizio di legittimità – con una sensibile riduzione del numero dei ricorsi (e delle altre impugnazioni) – è quello delle nullità assolute ed insanabili e delle inutilizzabilità. Questo sistema costituisce il più sicuro indice di come, nel nostro ordinamento processuale, vengano intese le garanzie in modo del tutto formale senza alcuna considerazione delle esigenze di tutela del processo dall'esistenza di potenziali cause idonee a minare la sua efficienza. È sacrosanto che l'imputato (e, entro certi limiti, le altre parti del processo) possano eccepire tutte le violazioni delle regole che si siano verificate nei loro confronti e che il giudice sia tenuto a prendere immediatamente in considerazione l'eccezione formulata annullando gli atti compiuti in violazione delle regole e quelli che da essi dipendano.
Ciò che non si comprende è il regime delle nullità assolute ed insanabili di cui all'art. 179 cpp che consente all'imputato di riservarsi fino all'ultimo grado del processo la possibilità di dedurre la nullità anche nei casi in cui ne sia venuto a conoscenza – o abbia avuto la possibilità concreta di venirne a conoscenza – precedentemente. Se l'imputato non è stato regolarmente citato nel giudizio di primo grado (o all’udienza preliminare) è un suo incontestabile diritto che il processo venga annullato e nuovamente celebrato. Ma se, nel corso del giudizio di primo o secondo grado, egli viene a conoscenza dell'esistenza del processo nei suoi confronti per quale ragione mai gli si deve consentire di non formulare la relativa eccezione appena possibile e di far celebrare inutilmente uno o due gradi di giudizio? In un'ottica di responsabilizzazione delle parti e dei loro difensori andrebbe quindi eliminata la regola indicata e tutte le nullità andrebbero sottoposte al regime di deducibilità e alle sanatorie previste per le altre nullità limitando inoltre la rilevabilità d'ufficio ai soli casi nei quali le parti o i loro difensori non abbiano avuto la possibilità di rilevare la nullità. Ma il tema è stato del tutto ignorato dalla recente legge 103/2017.
Analoghe considerazioni vanno fatte per quanto riguarda il regime delle inutilizzabilità che consente di rilevare il vizio in ogni stato e grado del procedimento. Anche per queste ipotesi – e parliamo ovviamente solo della cd. inutilizzabilità “patologica” e non di quella che consegue alla scelta del rito o alla fase o al grado del procedimento – non è giustificato che la parte si riservi la deduzione nell'ultimo grado del giudizio con la possibilità di porre nel nulla processi spesso durati anni (si pensi alla possibilità di dedurre per la prima volta nel giudizio di legittimità – per il disposto dell’art. 191, comma 2°, – tutte le questioni relative alle intercettazioni telefoniche la violazione delle cui regole è sanzionata con l'inutilizzabilità).
Va invece preso atto che finalmente il legislatore ha provveduto ad eliminare la possibilità, per l’imputato, di provvedere personalmente alla proposizione del ricorso (v. art. 1, comma 63, l. 23 giugno 2017 n. 103 che ha modificato l’art. 613, comma 1, cpp). Fino a poco tempo fa avveniva che venissero personalmente proposti ricorsi costituiti, nella migliore delle ipotesi, da argomentazioni fattuali non in grado di reggere al vaglio preliminare di ammissibilità. Ma era frequente anche la proposizione di ricorsi adeguatamente motivati le cui modalità di stesura rivelavano inevitabilmente che la redazione era avvenuta ad opera di avvocati non cassazionisti o che non volevano apparire per ragioni non sempre commendevoli. Da valutare positivamente sono inoltre le modifiche, contenute nella medesima legge 103, che hanno previsto l’appello, e non più il ricorso, contro le sentenze di non luogo a procedere (art. 1, comma 38, che ha modificato l’art. 428 cpp).
Ma vi sono altre ipotizzabili modifiche di natura processuale che potrebbero servire ai fini più volte indicati. Com’è noto il sistema attuale prevede la partecipazione delle parti a tutte le cause che vengono discusse in pubblica udienza e a gran parte di quelle che vengono trattate in Camera di consiglio (in particolare quelle soggette al rito di cui all'art. 127 cpp). In un gran numero di casi i difensori non partecipano poi all'udienza ma ciò provoca un’abnorme circolazione cartacea e soprattutto uno spreco di risorse dovute al fatto che decine di migliaia di notificazioni vengono inutilmente effettuate ogni anno. Ben potrebbe quindi stabilirsi che si abbia diritto all'avviso dell'udienza di trattazione (in pubblica udienza o in Camera di consiglio partecipata) nei soli casi in cui, con il ricorso, se ne faccia espressa richiesta (ovviamente prevedendo sanzioni, di natura processuale, disciplinare o pecuniaria per chi poi non si presenti). In mancanza di questa richiesta la Corte potrebbe decidere il ricorso – in Camera di consiglio senza la partecipazione delle parti alle quali non verrebbe dato avviso dell'udienza – sulla scorta dei motivi di ricorso (e di eventuali motivi aggiunti o di memorie) e delle conclusioni scritte del procuratore generale.
Opportunamente il legislatore ha invece preso atto dell’irrazionalità della disciplina prevista, dall'art. 610, comma 1, cpp, nei casi in cui il presidente della Corte rilevi una causa di inammissibilità. Secondo il sistema previgente, il presidente li assegnava ad apposita Sezione che procedeva in Camera di consiglio dopo aver acquisito le conclusioni del procuratore generale e l'eventuale replica delle parti. L’art. 1, comma 62, della l. 103/2017 ha introdotto il comma 5 bis dell’art. 610 cpp che consente alla Corte di dichiarare l’inammissibilità «senza formalità di procedura» in varie ipotesi (difetto di legittimazione, provvedimento non impugnabile, ricorso tardivo ecc.) e anche nel caso di patteggiamento e di sentenza pronunziata a norma dell’art. 599 bis (concordato in appello). Ad eventuali errori, materiali o di fatto, si potrà rimediare con la possibilità di ricorrere al procedimento previsto dall'art. 625 bis cpp il cui ambito di applicazione sarebbe stato opportuno estendere ai provvedimenti in materia cautelare e a parti diverse dall’imputato).
Azzardo una proposta: perché non estendere la procedura semplificata e accelerata prevista dall’art. 610, comma 1, cpp, con ulteriori semplificazioni, ai casi di ricorsi manifestamente fondati? Che senso ha una perdita di tempo di mesi o anni, la previsione di notifiche che si riveleranno inutili, la celebrazione di un’udienza pubblica (o anche in Camera di consiglio) quando è evidente e incontrovertibile che il ricorrente ha ragione? Una parte cui non sia stato notificato l’avviso per l’udienza di appello deve aspettare sei mesi o un anno per sentirsi dare ragione? Ciò dovrebbe valere non solo per le nullità di ordine processuale ma anche nel caso di fondatezza sostanziale del ricorso (se esiste un orientamento univoco della Corte di cassazione, eventualmente confermato dalle Sezioni Unite, che il giudice di merito abbia immotivatamente disatteso perché non dare immediatamente ragione al ricorrente?).
Nel caso vi sia nel processo una sola parte (o una parte la cui posizione sia separabile: per es. più imputati) la procedura potrebbe essere disposta de plano senza avvisi alle parti e la pronunzia potrebbe avvenire con ordinanza in Camera di consiglio con un Collegio a composizione ridotta (tre giudici) o addirittura ad opera dello stesso giudice incaricato dell’esame preliminare delegato dal presidente della Cassazione; ferma restando la facoltà di esaminare i fascicoli da parte del procuratore generale che potrà adottare conclusioni ove lo ritenga. Se invece nel processo vi sono più parti la cui posizione non sia scindibile (per es. imputato e parte civile) il processo potrebbe essere trattato con le modalità attualmente previste per i ricorsi inammissibili (ma in questi casi, nel caso di violazioni formali, anche la parte civile potrebbe avere interesse all’immediato accoglimento del ricorso; potrebbero quindi prevedersi sistemi acceleratori che coinvolgano tutte le parti).
4. L’art. 111 della Costituzione. Il ricorso per “violazione di legge”
È noto che, nel nostro ordinamento, la Corte di cassazione svolge una duplice funzione generalmente individuata nella tutela dello ius constitutionis (le funzioni di nomofilachia) e dello ius litigatoris (la tutela del solo interesse individuale del ricorrente). Mentre la tutela dello ius litigatoris esiste in ogni caso (anche quando la Cassazione svolge esclusivamente funzioni nomofilattiche) non è vero l’inverso perché, nei casi previsti dalle lettere d) ed e) del codice di rito, non esiste alcuna tutela dello ius constitutionis.
È paradossale rilevare non solo che il nostro ordinamento processuale è l’unico al mondo che prevede una generale ricorribilità delle sentenze e dei provvedimenti sulla libertà personale ma che il legislatore è andato oltre estendendo la possibilità di ricorrere in Cassazione anche per motivi (tutela dello ius litigatoris)che la legge fondamentale dello Stato neppure ha preso in considerazione. L’art. 111 della Costituzione prevede infatti questa possibilità solo per il vizio di “violazione di legge”; è dunque evidente che il costituente ha avuto di mira esclusivamente la funzione nomofilattica mentre tutte le funzioni che attengono alla tutela dello ius litigatoris non hanno alcuna copertura costituzionale ma sono lasciate alle disciplina della legge ordinaria.
Vediamo allora quali “spazi di manovra” siano riservati al legislatore ordinario per ridurre l’abnorme proliferazione dei ricorsi in materia penale. La limitazione della ricorribilità al vizio di violazione di legge dovrebbe innanzitutto essere estesa a tutti i provvedimenti cautelari. Oggi praticamente tutta la materia cautelare reale è già sottoposta a questo limite (v. art. 325 cpp) e non v'è ragione per non estendere questa limitazione ai casi in cui ancora non si applica (v. art. 263 in relazione all'art. 127 che non la prevede).
Ma questa limitazione dovrebbe essere estesa, secondo il mio modesto parere, anche alla materia cautelare personale nella quale, peraltro, già il ricorso immediato contro l’ordinanza applicativa della misura cautelare è consentito solo per violazione di legge (art. 311, comma 2, cpp). Sul tema del ricorso in materia cautelare personale v’è da osservare che l'estensione a queste ipotesi della possibilità di ricorrere per vizio di motivazione è una garanzia discutibile e in gran parte priva di contenuto effettivo in considerazione della fase in cui interviene il sindacato di legittimità con le imputazioni ancora non precisamente definite, con le indagini in corso e con il rischio di anticipare valutazioni relative più al merito che alla legittimità del provvedimento. Si comprende quindi che il giudice di legittimità usi con cautela il potere di annullamento delle ordinanze del Tribunale per il riesame senza che vi sia un beneficio effettivo per la persona sottoposta alla misura cautelare, anche nel caso di accoglimento del ricorso, perché normalmente l'annullamento avviene con rinvio e quindi senza che venga disposta la scarcerazione dell’indagato. Limitare i motivi di ricorso in materia cautelare personale alla sola violazione di legge (comprendendovi, come già riconosce la giurisprudenza di legittimità, la mancanza totale di motivazione) corrisponderebbe dunque ad una razionalizzazione del sistema e non implicherebbe una rinunzia a garanzie effettive della persona sottoposta alla misura cautelare personale.
Non influisce sul carico complessivo della Corte, ma ne rafforza la funzione nomofilattica, la recente introduzione (ad opera dell’art. 1, comma 66, l. 103/2017) del comma 1 bis dell’art. 618 cpp che prevede, nel caso in cui una Sezione ritenga di non condividere un principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, che la decisione venga rimessa alle medesime Sezioni Unite. Nella medesima ottica è stato introdotto il comma 1 ter della medesima norma che prevede l’enunciazione del principio di diritto da parte delle Sezioni Unite nel caso di ricorso dichiarato inammissibile per una causa sopravvenuta; questo è forse l’unico caso in cui la Cassazione decide in mancanza di alcuna esigenza di tutela dello ius litigatoris.
5. Il vizio di motivazione dopo la legge n. 46/2006
E veniamo a quello che costituisce il tema fondamentale che riguarda le funzioni della Corte di cassazione, non solo penale: il vizio di motivazione. Qui abbiamo a che fare esclusivamente con lo ius litigatoris ed è chiaro che la maggiore estensione della possibilità di ricorrere per ragioniattinenti alla motivazione va a scapito del ruolo nomofilattico della Corte perché questa funzione nulla ha a che fare con le ipotesi indicate nella lett. e dell’art. 606 cpp (come anche con l’ipotesi prevista dalla lett. d: mancata assunzione di una prova decisiva). Nel vizio di motivazione siamo immersi nel fatto e nella sua valutazione e quello che si addebita al giudice di merito è di averlo mal ricostruito o mal valutato[4]. Nella valutazione sull’esistenza del vizio di motivazione la linea di confine tra il sindacato di merito e quello di legittimità si fa evanescente e si rischia di sconfinare dalla funzione di nomofilachia a quella di giudice di terza istanza che non si limita a indicare la corretta interpretazione della norma, al fine di uniformare le interpretazioni giurisprudenziali, ma valuta la correttezza della decisione nel caso singolo[5].
Il codice di rito previgente non prevedeva espressamente, tra i casi di ricorso in cassazione, il vizio di motivazione ma il combinato disposto degli artt. 524 n. 3 (che prevedeva il ricorso per inosservanza di norme “stabilite a pena di nullità”) e 475 n. 3 (che sanzionava di nullità la sentenza se mancava o era contradditoria la motivazione) consentiva in realtà un’ampia ricorribilità per vizi riguardanti la motivazione.
Il presupposto sistematico per il riconoscimento dell’esistenza del vizio di motivazione tra quelli che consentono il ricorso in Cassazione è l’esistenza, nel nostro ordinamento, dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali; principio che ha dignità costituzionale (art. 111, comma 6, della Costituzione) e che, di conseguenza, ha trovato la più ampia applicazione nei diversi sistemi processuali (in particolare nel processo penale si vedano, tra gli altri, gli art. 125, comma 3, 292 e 546 cpp). Non è così in tutti gli ordinamenti. Nei sistemi di common law, per esempio, il verdetto non è motivato e dunque neppure si pone il problema del vizio di motivazione.
Originariamente l’art. 606, lett. e) del codice di rito consentiva il ricorso per «mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato». La legge 20 febbraio 2006 n. 46 ha apportato importanti modifiche a questa norma (art. 8 comma 1 lett. b che ha sostituito la lett. e dell’art. 606) [6]; questo assetto non è mutato con l’entrata in vigore della recente legge 23 giugno 2017 n. 103.
La prima innovazione è quella relativa alla espressa previsione, tra i motivi di ricorso, del vizio di “contraddittorietà” della motivazione[7]. Fermo restando che per contraddittorietà non deve intendersi ogni incongruenza o divergenza argomentativa – ma una vera e propria incompatibilità tra le argomentazioni decisive per il giudizio – va rilevato che l’innovazione non è da considerare solo apparente anche se la contraddittorietà già era considerata vizio denunziabile nel giudizio di legittimità quando si risolveva in manifesta illogicità[8]. È certamente vero che se ci si riferisce alla mera contraddittorietà testuale esiste una certa sovrapposizione tra i due concetti. Peraltro se può sostenersi che un ragionamento contradditorio è spesso manifestamente illogico non è sempre vero l’inverso[9]. Il giudice potrebbe aver utilizzato un criterio di inferenza non condiviso da alcuno (per es. chi ruba non usa nascondere la refurtiva) che non è necessariamente contradditorio anche se è manifestamente illogico (se la stessa sentenza affermasse che la prova del furto si ricava dalla circostanza che il ladro, in quel caso, aveva nascosto la refurtiva il ragionamento risulterebbe anche contradditorio).
La contraddittorietà è un vizio logico di natura testuale; si può avere contraddittorietà tra le premesse (due diverse ricostruzioni del fatto o l’adozione di regole d’inferenza confliggenti) o tra le premesse e la conclusione. Mentre si è sottolineato che, nel caso di contraddizione tra dispositivo e motivazione, non siamo più all’interno del vizio di motivazione[10]. V’è un altro aspetto da sottolineare: il vizio di contraddittorietà riecheggia la regola di giudizio prevista dall’art. 530, comma 2 cpp (ma anche dall’art. 425. comma 3, in tema di pronunzia della sentenza di non luogo a procedere) e ciò consente alla Cassazione di sindacare in modo più penetrante – tanto più oggi che si è attenuato il vincolo della testualità – la motivazione nella quale si verifichi l’eventuale contraddittorietà delle prove su cui si fonda la decisione.
Inoltre a mio parere (ma il discorso meriterebbe ben altra trattazione) questo sindacato introduce anche un’ulteriore regola di giudizio nella valutazione delle prove. A fronte di prove contradditorie oggi il giudice non può più limitarsi ad affermare la sua preferenza per una certa ricostruzione dei fatti rispetto ad un’altra quando tutte siano ritenute ugualmente plausibili a meno che la diversa ricostruzione non accolta possa essere esclusa al di là di ogni ragionevole dubbio[11]; il criterio dell’oltre il ragionevole dubbio per la valutazione della prova è infatti divenuto di natura legale – e quindi di più ampia sindacabilità nel giudizio di legittimità – con la modifica dell’art. 533, comma 1, cpp.
È stato poi osservato[12] che l’innovazione normativa ha introdotto un nuovo tipo di contraddittorietà: quella tra motivazione e atti del processo che si verifica quando la contraddizione non si ha tra le argomentazioni contenute nel ragionamento probatorio (e in questo caso è sempre testuale) ma tra queste argomentazioni e le informazioni poste a base di esse (e in questo caso è sempre extratestuale). Non si tratta più di un vizio logico perché la contraddizione non si verifica tra le argomentazioni ma tra le informazioni (non solo di natura probatoria) contenute negli atti del processo. E dunque – escluso che, a seguito dell’innovazione legislativa sia oggi consentita alla Corte di cassazione una rivalutazione nel merito – che altro è la contraddittorietà tra motivazione e atti del processo se non il vizio di travisamento della prova (di cui parleremo più avanti) nel duplice senso di inesistenza della prova o della informazione probatoria veicolata dalla prova?
Le innovazioni ricordate non hanno reso più semplice (anche perché impossibile) scindere in tutti i casi le valutazioni di merito da quelle di legittimità; del resto l’ordinamento prevede numerosi casi nei quali il sindacato della Corte di cassazione involge comunque una valutazione di merito: per es. il carattere di decisività della prova di cui alla lett. c dell’art. 606 cpp; la stessa erronea applicazione (non l’inosservanza) della legge penale che richiede una comparazione tra fatto e diritto; l’”evidenza” della prova dell’innocenza che obbliga il giudice di legittimità a pronunziare la sentenza di assoluzione anche in presenza di cause di estinzione del reato (art. 129, comma 2, cpp). Ma i casi in cui il giudice di legittimità è chiamato a questo tipo di valutazioni sono innumerevoli[13].
È necessaria a questo punto una precisazione: spesso vengono sovrapposti – confondendoli in una generica qualificazione come motivi “di merito” – due diversi aspetti riguardanti entrambi il vizio di motivazione. In realtà ci troviamo in presenza di due vizi di natura diversa anche se entrambi ricompresi nella previsione dell’art. 606 lett. e del codice di rito: la valutazione di merito, strettamente intesa, si esprime mediante giudizi di valore non sindacabili nel giudizio di legittimità se adeguatamente e logicamente motivati; si pensi al concetto di “osceno”, alle ipotesi nelle quali la legge qualifica un fatto come di “particolare tenuità” (art. 648, comma 2, cod. pen.) o ancora il danno di “rilevante gravità” (art. 61, n. 7, cod. pen) ecc. In tutti questi casi il fatto è accertato nella sua materialità e il giudice lo valuta alla stregua dei parametri indicati dal legislatore o elaborati dalla giurisprudenza. Se questa valutazione si attiene a questi parametri (e quindi non è ravvisabile il vizio di violazione di legge) il giudizio di valore è incensurabile nel giudizio di legittimità se logicamente motivato: tanto che si può pervenire, in diversi processi, a soluzioni confliggenti, tutte incensurabili nel giudizio di legittimità perché non manifestamente illogiche.
Diversa è la valutazione del giudice che concerne la ricostruzione dei fatti. Ogni giudizio, di qualunque natura esso sia (e quindi non soltanto quello che riguarda il processo penale), presuppone l’esistenza di un fatto, atto o rapporto giuridico al quale applicare le norme giuridiche pertinenti. Se nel giudizio non si pone in discussione la ricostruzione del fatto operata dal giudice di merito si resta nel vizio di erronea applicazione della norma giuridica (per es. se si contesta che un fatto indiscutibilmente accertato integri la fattispecie della ricettazione, e si sostiene l’ipotesi dell’incauto acquisto, il vizio denunziato è quello dell’erronea applicazione della legge penale). In questi casi il vizio riguarda invece proprio la ricostruzione del fatto e la soluzione è apparentemente più semplice: tutti concordano sulla conclusione che è precluso al giudice di legittimità di ricostruire i fatti in modo diverso da quanto compiuto dal giudice di merito essendo, questa funzione, estranea al giudizio di legittimità. Eppure nella pratica si continuano a proporre ricorsi con i quali si deduce il vizio di “travisamento del fatto” che indiscutibilmente tende proprio a far affermare al giudice di legittimità l’erroneità della ricostruzione compiuta dal giudice di merito.
6. Annullamento con rinvio per vizio di motivazione
Prima ancora di porsi il problema che aleggia da sempre sul tema delle funzioni del giudice di legittimità – l’opportunità di escludere o confermare (naturalmente ad opera del legislatore) il sindacato sul vizio di motivazione – dovremmo però quanto meno cercare di eliminare i casi in cui la Corte di cassazione si autoattribuisce compiti riguardanti la motivazione che in realtà non le spettano.Ciò avviene, in modo particolare, in alcuni casi di annullamento con rinvio.
È noto che l’annullamento con rinvio ha carattere esclusivamente rescindente mentre l’annullamento senza rinvio può avere contemporaneamente anche natura rescissoria quando la Corte di cassazione non si limiti all’annullamento del provvedimento impugnato ma si pronunzi anche con la decisione nel merito della causa; cosa che può avvenire nei casi previsti dall’art. 129, 619, comma 3, e 620 lett. a e l cpp[14]. È da sottolineare in particolare il disposto della lett. l dell’art. 620 cpp che già consentiva, fino ad epoca recente, di evitare rinvii inutili nei casi nei quali la Corte di cassazione – senza esercitare alcun potere discrezionale o esprimere giudizi valutativi – poteva essa stessa procedere alla determinazione della pena (per es. quando è inflitta in misura inferiore al minimo o superiore al massimo e non si tratta dell’errore di calcolo che l’art. 619, comma 2, consente di rettificare) o dare i provvedimenti necessari (per es. applicare una pena accessoria obbligatoria la cui misura è predeterminata per legge e non richiede quindi l’esercizio di un potere discrezionale).
L’art. 1, comma 67, della l. 103/2017 ha ragionevolmente ampliato l’ambito di applicazione di questa norma consentendo alla Corte di decidere quando non siano «necessari ulteriori accertamenti di fatto». Sembra quindi di poter affermare che sia stata estesa al processo penale la regola, prevista dall’art. 384, comma 2, del codice di rito civile, che prevede che la Corte possa decidere la causa nel merito in ipotesi analoghe anche se il legislatore ha avuto ritegno ad affermare, nella materia penale, che la causa viene decisa «nel merito»; ma la sostanza è la stessa e, in una logica di semplificazione, mi sembra accettabile questa modesta deroga ai principi che consente di affermare l’esistenza, anche nel rito penale, di un riavvicinamento tra “modello a cassazione” e “modello a revisione” già segnalato dalla dottrina nel rito civile[15]. Si eviterà finalmente, d’ora in poi, un inutile giro di carte, per es., quando si tratta di stabilire un aumento per la continuazione, o una riduzione di pena per un'attenuante già concessa dal giudice di merito o di determinare la durata della sospensione della patente di guida che il giudice di merito si sia dimenticato di applicare.
È più problematico affermare invece che ci si trovi in presenza di un ampliamento dei poteri per quanto riguarda la determinazione della pena perché si richiede che ciò avvenga «sulla base delle statuizioni del giudice di merito»; cosa che avveniva già in base alla precedente formulazione. A meno di attribuire alla nuova disciplina un’interpretazione estensiva, peraltro consentita dalla lettera della legge (per es. applicare il minimo della pena quando l’esclusione di un’aggravante ha eliminato l’unico aspetto di gravità del fatto; o applicare una pena elevata quando il giudice di merito abbia connotato il fatto come estremamente grave).
Ciò premesso sulla struttura del giudizio di rinvio è dato riscontrare come avvenga frequentemente che la Corte di cassazione, a seguito di annullamento con rinvio per vizio di motivazione, non si limiti ad enunciare le ragioni dell’annullamento ma si sovrapponga alle funzioni del giudice di merito indicando al giudice del rinvio il percorso motivazionale da seguire nella fase rescissoria. In questo modo però il giudice di legittimità si attribuisce una funzione che non gli compete perché la definizione di questo percorso riguarda esclusivamente la ricostruzione del fatto e la sua valutazione e dunque non può rientrare nelle funzioni di legittimità.
Il vizio di motivazione può infatti essere censurato solo nei limiti dell’art. 606, lett. e), cpp; la Cassazione annulla se la motivazione è mancante, contradditoria o manifestamente illogica e ciò lascia aperta la possibilità di individuare tutte le motivazioni che non siano contradditorie o manifestamente illogiche. Ma questo è un compito che la legge attribuisce al giudice di merito perché il percorso motivazionale su tali questioni è a lui attribuito. In realtà la Cassazione va spesso oltre i suoi poteri perché si autoattribuisce un potere che non le spetta: quello di anticipare, senza dirlo espressamente, la decisione sul merito che ritiene più convincente (quando annulla una assoluzione nella convinzione della colpevolezza e viceversa quando annulla una condanna avendo un opposto convincimento). E spesso i commentatori criticano o condividono la decisione a seconda che la decisione di merito annullata li convinca o meno senza neppure porsi il problema se la Corte di cassazione abbia questo potere.
Evidente è questa impostazione nel caso di indicazione, da parte della Cassazione, del percorso motivazionale in tema di valutazione della prova scientifica nel caso di ritenuto vizio di motivazione in cui sia incorso il giudice di merito. Pacifico essendo che i criteri di valutazione della prova scientifica non costituiscono principi di diritto cui il giudice di rinvio debba uniformarsi (art. 627, comma 3, cpp) non si comprende – se non nell’ottica della condivisione di una determinata soluzione del caso concreto – perché in questo caso il giudice del rinvio dovrebbe uniformarsi (fermo restando il divieto di ripetere il percorso censurato nella fase rescindente) allo schema motivazionale indicato nella sentenza di annullamento[16].
La giurisprudenza di legittimità è del resto uniforme nel ritenere che, in caso di annullamento per vizio di motivazione, il giudice di rinvio: mantiene piena autonomia di giudizio nella ricostruzione del fatto e nella valutazione dei dati probatori acquisiti; ha la facoltà di pervenire al medesimo risultato cui era giunto con la sentenza annullata; addirittura gli elementi di fatto e le valutazioni contenuti nella pronuncia di annullamento non sono vincolanti per il giudice del rinvio; può colmare eventuali lacune motivazionali e mantiene pieni poteri di cognizione potendo anche rinnovare l’istruzione dibattimentale[17]. Insomma il giudice di rinvio, mentre ha l’obbligo di uniformarsi alle questioni di diritto risolte dalla Corte di cassazione (art. 627, comma 3. cpp), nel caso di annullamento per vizio di motivazione incontra l’unico vincolo di non poter fondare la sua decisione sullo stesso percorso argomentativo che il giudice di legittimità ha ritenuto censurabile. È vero che spesso le sentenze di annullamento della Cassazione si avventurano nell’indicazione delle coordinate di merito o fattuali cui deve attenersi il giudice del rinvio ma si tratta di un’estensione non giustificata (e comunque priva di alcun rilievo) dei poteri del giudice di legittimità di cui il giudice del rinvio può non tenere alcun conto.
7. Il travisamento del fatto
Più rigorosa è stata la giurisprudenza di legittimità nel contrastare la tendenza diretta ad includere nel vizio di motivazione, sindacabile dalla Cassazione, il travisamento del fatto.
È noto che il ragionamento probatorio del giudice di merito è di tipo sillogistico. Il giudice parte da una fonte di prova e perviene all’accertamento del fatto; per fare ciò utilizza le massime di esperienza (o regole di inferenza) che gli consentono di ricollegare un determinato fatto ad una condotta. È da tempo oggetto di contrasto la soluzione del problema (che non affronteremo) se il giudice di legittimità sia autorizzato a individuare le regole di inferenza da applicare al caso portato al suo esame. V’è invece sufficiente consenso sull’esistenza del divieto, per il giudice di legittimità, di creare la massima di esperienza per il caso concreto ma certamente il giudice di legittimità può, e deve, verificare se le massime utilizzate siano plausibili ovvero manifestamente illogiche (ecco un altro tipo di valutazione che sconfina nel merito!) oppure se l’uso che ne è stato fatto sia manifestamente illogico (la regola d’inferenza è logica ma la sua applicazione al caso concreto è errata)[18].
Orbene il sindacato della Corte di cassazione sul ragionamento probatorio era, fino al 2006, di due tipi: la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione. La mancanza di motivazione è l’ipotesi più semplice ed è anche dubbio che costituisca (solo) un vizio di motivazione essendo, l’esistenza della motivazione, imposta dalle norme che abbiano già ricordato. Tanto è vero che, nei casi nei quali è previsto il ricorso in cassazione per la sola violazione di legge, si afferma che la mancanza totale di motivazione sia tale e renda dunque ammissibile il ricorso[19]. Sulla mancanza di motivazione c’è solo da precisare che il vizio si verifica non solo nel caso di assenza grafica di un apparato argomentativo ma anche quando la motivazione sia apparente o apodittica o tautologica. E parimenti è da ritenere che il vizio sia ravvisabile non solo quando manchi la motivazione sull’intera regiudicanda ma altresì quando sia assente la motivazione su uno snodo fondamentale del ragionamento probatorio o su uno degli elementi tipici del reato (per es., nel caso di un reato colposo in cui sia in discussione l’esistenza dell’elemento soggettivo, il giudice ha omesso ogni valutazione, anche implicita, sulla prevedibilità dell’evento).
Più complesso sarebbe il discorso sulla manifesta illogicità della motivazione; ci limitiamo ad osservare che l’aggettivo usato dall’art. 606, lett. e, cpp rende evidente che il vizio denunziabile non può essere costituito da una mera incongruenza logica che si sia verificata all’interno del ragionamento probatorio ma deve trattarsi di un vizio evidente e immediatamente percepibile che abbia minato in modo decisivo la correttezza logica del ragionamento.
Ma la regola più significativa introdotta nel codice di rito del 1988 è un’altra: il vizio deve risultare dal testo del provvedimento. Evidenti sono le ragioni che hanno indotto il legislatore ad introdurre questa regola e sono tutte riconducibili alla volontà di evitare le incursioni della Corte di cassazione sul fatto; e l’unico metodo efficace per impedire queste incursioni non poteva che essere il divieto, per il giudice di legittimità, di leggere gli atti. Perché questo vuol dire la norma anche se l’espressione usata è meno decisa.
Ricapitolando: il testo originario dell’art. 606, lett. e, consentendo espressamente il ricorso in Cassazione per mancanza e manifesta illogicità della motivazione, implicitamente: vietava al giudice di legittimità una diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quella (logicamente) compiuta dal giudice di merito; vietava l’accesso agli atti da parte della Cassazione; escludeva che fosse denunziabile davanti alla Corte di legittimità il vizio di motivazione “insufficiente”; escludeva dal giudizio di legittimità anche la contraddittorietà della motivazione (purché, ovviamente, non si risolvesse in manifesta illogicità). È ovvio che, in questo sistema, non potesse avere ingresso il travisamento del fatto: con questa definizione si intende infatti rilevare una divergenza tra il risultato delle prove poste a fondamento della decisione e il risultato emergente dagli atti processuali. Proprio quell’incursione nel merito, da parte del giudice di legittimità, che il nuovo codice ha tentato di stroncare con la previsione della testualità del vizio.
Questa disciplina peraltro, pur efficace (anche se non sempre osservato) racchiudeva un rischio, quello che divenissero insindacabili nel giudizio di legittimità motivazioni ineccepibili ma fondate su presupposti inesistenti. Facciamo l’esempio dell’alibi a favore dell’imputato: se il giudice motiva in modo manifestamente illogico sull’attendibilità dell’alibi la sentenza è ricorribile; se lo ignora la testualità preclude l’esame del motivo (a meno di fare rientrare il vizio nella mancanza di motivazione). La giurisprudenza di legittimità non è stata insensibile alle incongruenze che potevano derivare da un’applicazione acritica del principio di testualità. Già nel 1997[20] le Sezioni Unite hanno temperato il principio affermando la sindacabilità della sentenza di appello quando, dal raffronto di questo provvedimento con i motivi di appello, emergeva che il giudice di appello non aveva esaminato le censure in fatto proposte con i motivi di appello. Si tratta di un assetto convincente: la parte ha l’onere di appellare segnalando i travisamenti del fatto da parte del primo giudice; se non lo fa non può dolersene con il ricorso in Cassazione. Se ha adempiuto all’onere la testualità non impedisce alla Cassazione di individuare il vizio.
Restavano due lacune: la prima costituita dal caso dell’assoluzione in primo grado cui consegua invece una condanna in appello; la seconda riguardante la sentenza fondata su un’informazione probatoria inesistente. Con la precisazione che, nel caso di sentenze inappellabili, il primo problema non si pone mentre nel secondo caso valgono le considerazioni che verranno fatte di seguito. Sulla prima lacuna la giurisprudenza di legittimità è intervenuta con un ulteriore temperamento del principio di testualità: in mancanza dei motivi di appello (impugnazione non ammissibile nel caso di assoluzione per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste) si è affermato che il giudice di appello, che vada di contrario avviso rispetto a quello di primo grado, deve però prendere in considerazione le memorie, difese ecc. che l’imputato abbia prodotto su ragioni difensive che il giudice di primo grado non ha preso in considerazione nella logica assolutoria che gli consentiva di omettere la valutazione di determinati fatti[21].
8. Il travisamento della prova
Il percorso seguito dalla giurisprudenza di legittimità per ridurre le conseguenze della seconda lacuna (informazione probatoria inesistente) costituisce il passo più significativo per eliminare le incongruenze di cui abbiamo parlato ed è costituito dalla rielaborazione dei contributi dottrinali che hanno condotto alla possibilità di denunziare il vizio di travisamento della prova nel giudizio di legittimità[22]. Il travisamento della prova si riferisce a due ipotesi specifiche: 1) il giudice ha preso in considerazione una prova che non esiste; 2) il risultato di prova è indiscutibilmente diverso da quello sostenuto dal giudice di merito.
La costruzione su cui si fondava precedentemente il travisamento della prova non consentiva che questo vizio potesse essere inquadrato in quello previsto dalla lett. e dell’art. 606 (ostandovi il requisito della testualità) e si era fatto riferimento al vizio di violazione di norme processuali (art. 606, comma 1, lett. d, del codice di rito) ed in particolare all’art. 191 (se sono utilizzabili le prove acquisite in violazione di divieti stabiliti dalla legge possono essere ritenute utilizzabili prove che non esistono?) e all’art. 526 cpp (se il giudice non può utilizzare per la decisione prove diverse da quelle legittimamente acquisite può invece utilizzare quelle che non esistono?).
La l. 46/2006 ha dunque ricondotto il vizio di travisamento della prova al vizio di motivazione di cui all’art. 606, lett. e, cpp (a meno di ritenere, come è stato affermato in dottrina, che la contraddittorietà della motivazione è solo quella testuale e che il contrasto tra atti di natura probatoria del processo e motivazione (travisamento della prova) continua ad essere riconducibile al motivo di ricorso previsto dalla lett. c dell’art. 606)[23]. Questa elaborazione, come appare evidente, nasce da esigenze di giustizia. Ci si è chiesti se un moderno sistema processuale ispirato ai principi della democrazia liberale possa consentire di condannare (ma anche di assolvere) una persona in base ad una prova che non esiste – solo perché il giudice ha affermato che la prova esiste – o che lo stessa avvenga in base ad un risultato di prova “indiscutibilmente” diverso (il teste non ha riconosciuto una persona nella ricognizione personale ma la sentenza afferma che l’ha riconosciuta).
Non si tratta di una diversa ricostruzione del fatto o di una valutazione di merito del giudice di legittimità perché la Cassazione: 1) non rivaluta la prova; 2) non opta per una diversa ricostruzione del fatto; 3) non sovrappone le sue massime di esperienza a quelle del giudice di merito. Si limita ad una verifica oggettiva che la prova non esiste (anche nel senso che è indiscutibilmente diversa) e – ovviamente nei soli casi in cui la prova ha avuto rilievo decisivo sulla decisione – annulla la sentenza impugnata senza rinvio (se si trattava dell’unico elemento di prova acquisito al processo) o demandando al giudice del rinvio di non tenere conto di quell’elemento inesistente (o di tenerne conto se il giudice di merito ne aveva erroneamente escluso l’esistenza). Si tratta dunque non di un errore valutativo ma di un errore percettivo.
Questa costruzione si fonda anche su ragioni di ordine logico. Si è detto: è possibile che si possa ricorrere in Cassazione per la mancata assunzione di una prova decisiva (art. 606, lett. d, cpp) e richiedere che il giudice debba indicare le ragioni per le quali ritiene non attendibili le prove contrarie (art. 546, comma 1, lett. e, cpp) e poi consentire che si giudichi in base a prove che non esistono? Con l’ulteriore assurda conseguenza di inibire il ricorso in Cassazione in casi che invece successivamente consentirebbero, formatosi il giudicato, il giudizio di revisione ormai ritenuto ammissibile anche nel caso di prova acquisita ma non valutata[24]; o che consentirebbero il ricorso straordinario per errore di fatto previsto dall’art. 625 bis del codice di rito. Naturalmente il vizio di travisamento della prova, come in precedenza delineato, esclude che alla conclusione dell’inesistenza della prova si possa pervenire in base ad un ragionamento di tipo valutativo; al contrario il giudizio della Cassazione, in questi casi, è del tutto avalutativo, si risolve in una mera presa d’atto dell’errore di percezione nel quale è incorso il giudice di merito[25]. Un esempio può meglio chiarire il concetto: il teste ha detto che il fatto è avvenuto di giorno e il giudice nella sentenza afferma che il teste ha affermato che il fatto è avvenuto di notte. Questo è il travisamento della prova; se invece il giudice spiega perché – anche se il teste ha detto che il fatto è avvenuto di notte – deve intendersi che il fatto sia avvenuto di giorno siamo fuori del travisamento della prova e ricadiamo nel travisamento del fatto non deducibile nel giudizio di legittimità (salvo che il ragionamento sia manifestamente illogico e, oggi, anche contradditorio).
Un’ultima precisazione: il nuovo testo della lett. e dell’art. 606 precisa che si deve trattare di atti da cui risulta il vizio[26]. Che cosa ha inteso affermare il legislatore con questa formulazione? La giurisprudenza di legittimità ha dato inizialmente due risposte divergenti a questa domanda; la prima, particolarmente restrittiva, ha fornito al quesito una risposta molto rigorosa e riduttiva nel senso che l’atto cui fa riferimento la norma è solo l’atto processuale (l’istanza, la richiesta ecc.) alla quale il giudice di merito non abbia dato risposta[27]. La seconda risposta data al quesito – che ormai costituisce diritto vivente essendo da ritenere superato il primo orientamento – riconosce invece che il vizio possa risultare da qualunque atto (anche di natura probatoria) e che abbia caratteristiche tali da far emergere che la sentenza è manifestamente illogica o contradditoria[28].
Occorre però fare un’importante precisazione: il vizio deve emergere da quell’atto o da quegli atti, non da una comparazione con gli altri atti del processo. Anche dopo la modifica normativa non è attribuito alla Cassazione il compito di rivalutare le prove o di rivalutare l’atto specificamente indicato insieme agli altri atti del processo. Si è detto, correttamente, che l’atto – da solo – deve essere idoneo a “disarticolare”[29] il ragionamento probatorio del giudice di merito (la persona offesa non ha riconosciuto il rapinatore e il giudice di merito ha fondato la condanna sull’asserito riconoscimento). Ciò consente di ribadire che la l. 46/2006 non ha introdotto il vizio di travisamento del fatto perché la Cassazione – senza rivalutare le prove – si limita a “verificare”, a “constatare” l’esistenza e il contenuto di un atto (o di più atti) da solo idoneo ad incrinare irrimediabilmente il ragionamento probatorio del giudice di merito su un punto decisivo[30]. Questo assetto processuale innovato ricomprende certamente anche il vizio di travisamento della prova di cui abbiamo parlato e ha l’effetto di ricondurlo al vizio di motivazione (e non più alla violazione di norme processuali come era stato in precedenza inquadrato)[31]. Con l’effetto positivo di estendere il sindacato (non valutativo: è sempre opportuno ribadirlo) della Cassazione ai casi che non si potevano far rientrare nel travisamento della prova: per es. la prova esistente ma non valutata (un alibi) con l’ulteriore effetto positivo di ridurre i casi di revisione.
Va ancora evidenziato che alcune decisioni di legittimità[32] si esprimono in senso riduttivo sulla possibilità di applicare integralmente questi principi alla prova dichiarativa sottolineando che, «salvi i casi limite in cui l’oggetto della deposizione sia del tutto definito o attenga alla proposizione di un dato storico semplice e non opinabile” la testimonianza “è sempre il frutto di una percezione soggettiva del dichiarante anche se attiene a fatti di sua diretta scienza». Con la conseguenza che – per apprezzare la logicità e non contraddittorietà della motivazione in riferimento al dato probatorio costituito dalla testimonianza – il giudice di legittimità (salvo i casi più semplici indicati) dovrebbe avere «contezza dell’intero compendio probatorio» anche per poter svolgere l’analisi comparativa inerente la decisività della fonte testimoniale. E in ogni caso è richiesto che il ricorso abbia carattere di autosufficienza e contenga quindi l’integrale trascrizione, o l’allegazione, degli atti sul cui esame si fondi la censura[33].
Inutile sottolineare che l’eventuale distacco dalla realtà processuale deve avere carattere di decisività; non ogni divergenza tra la motivazione e la realtà degli atti conduce all’annullamento della decisione di merito e credo sia realistico ammettere, come è stato osservato in dottrina[34], che l’accertamento della decisività comporta inevitabilmente una valutazione di merito perché richiede comunque, con i limiti che vedremo, che il giudice di legittimità esprima un convincimento discrezionale sulla sufficienza del compendio probatorio risultante all’esito del giudizio (con un elemento probatorio in più o in meno rispetto a quello considerato dal giudice di merito). Si è infine precisato[35] che questo sistema si riferisce alla sentenza di secondo grado difforme da quella di primo grado per i limiti del principio devolutivo; a meno che il giudice d’appello non fondi la sua decisione su un atto a contenuto probatorio non considerato dal primo giudice.
9. Eliminare il vizio di motivazione dai motivi di ricorso in Cassazione?
È evidente che l’unico terreno su cui può essere esercitata un’efficace azione deflattiva del numero di ricorsi penali in Cassazione – ove non ci si voglia illudere sulla possibilità di una modifica dell’art. 111 della Costituzione – è quello della riduzione o esclusione della ricorribilità per vizio di motivazione per il quale non esistono, per le ragioni già dette, coperture di natura costituzionale. Non credo che esistano statistiche sul punto ma sedici anni di esercizio della giurisdizione di legittimità mi consentono di affermare che la maggior parte dei ricorsi in Cassazione in materia penale è fondata, esclusivamente o parzialmente, sul vizio di motivazione. L’eliminazione di questo vizio dai possibili motivi di ricorso al giudice di legittimità avrebbe quindi non solo l’effetto di ridurre (forse) a dimensioni accettabili il carico di lavoro della Corte di cassazione ma di valorizzare la sua funzione di nomofilachia che oggi non può essere svolta adeguatamente proprio per l’ingentissimo carico di lavoro.
Ma v’è una ragione in più per perseguire il fine di eliminare il vizio di motivazione da quelli deducibili con il ricorso in Cassazione. Mentre infatti la funzione di nomofilachia ha un senso che venga svolta da un giudice centralizzato e sovraordinato per l’ineliminabile esigenza di un’interpretazione della legge che sia il più possibile uniforme per tutti i cittadini perché un sistema di questo genere è il più idoneo a garantire la certezza del diritto e l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge (non solo nel caso dell’inosservanza ma anche nel caso di erronea applicazione della legge che comunque richiede pur sempre l’individuazione di parametri oggettivi cui fare riferimento nell’individuazione della norma da applicare) analoga conclusione non può trarsi quando si parla di vizio di motivazione.
Intanto v’è da dire che i criteri di scelta dei giudici della cassazione non sono certo indirizzati a verificare le capacità di operare valutazioni di merito da parte dei giudici prescelti (al più possono individuarsi parametri negativi) ma alla idoneità alle funzioni di nomofilachia e su questo terreno occorre riaffermare che la Cassazione ha da sempre espresso – sia nel diritto penale che in quello civile – il più alto livello qualitativo anche rispetto alle Corti supreme di altri Stati europei. Lo stesso non si può dire per le decisioni che riguardano il vizio di motivazione che, oltre ai difetti e alle estensioni indebite del ruolo già segnalate, si segnalano spesso per imprecisioni e per manifestare evidenti propensioni per l’accoglimento di determinate decisioni di merito che non compete al giudice di legittimità individuare. Ma sono conseguenze ineliminabili perché il giudizio relativo alla motivazione è estraneo alle competenze e alla formazione del giudice di legittimità e non v’è alcuna garanzia che sia svolto, da questo giudice, in modo più adeguato rispetto ad un giudice di merito (qualche volta questa inadeguatezza è stata sottolineata anche da parte della Cassazione nei giudizi conseguenti a quelli di rinvio).
Si aggiunga, come è stato sottolineato, che mentre per la soluzione delle questioni di diritto la collegialità nel giudizio di cassazione è normalmente garantita quando si tratta di esaminare il fondamento di dedotti vizi di motivazione (soprattutto se espressi con riferimento alla ricostruzione dei fatti da parte del giudice di merito) si rende necessario un esame di atti e provvedimenti dai quali i componenti del collegio, diversi da presidente e relatore, sono di regola esclusi[36].
Naturalmente i costi di una tale scelta legislativa non potrebbero essere addebitati ai potenziali ricorrenti perché, anche in mancanza di una violazione dell’art. 111 della Costituzione (che, lo si ripete per l’ennesima volta, garantisce il diritto a ricorrere in Cassazione esclusivamente “per violazione di legge”), potrebbero verificarsi violazioni del diritto di difesa e quindi dell’art. 24 della Costituzione. L’ordinamento non potrebbe tollerare, perché lesive dei diritti inviolabili della difesa, decisioni che comportassero una condanna (ma anche un’assoluzione) fondata su una prova inesistente o il cui risultato fosse incontestabilmente diverso da quello accolto dal giudice. Ma inaccettabile sarebbe anche una condanna fondata su una prova (ovviamente decisiva) manifestamente illogica (il teste ha visto bene perché era ... buio!).
Nel caso in cui queste queste distorsioni (infrequenti ma non inesistenti) avvengano nel giudizio di primo grado e la sentenza sia appellabile è ovvio – ma la conseguenza è già rinvenibile nel sistema vigente – che ci troviamo in presenza di un onere della parte di censurare con l’appello il travisamento della prova o la manifesta illogicità della motivazione. Se non lo fa si forma sul punto il giudicato interno che non potrà essere rimosso nel corso successivo del processo. Esigenze inderogabili di tutela dei diritti di libertà e della difesa richiedono invece che – nei casi in cui il vizio si verifichi nel giudizio in unico grado o in quello di secondo grado ovvero, ancora, sia stato proposto appello e il giudice di secondo grado non abbia rimediato ai vizi indicati – venga individuato un mezzo, diverso dal ricorso in Cassazione, per rimediare al vizio in questione.
10. Ipotesi di modifiche legislative per garantire i diritti delle parti
Un procedimento che viene instaurato non per risolversi in un giudizio di natura valutativa sul contenuto di una precedente decisione ma per esprimere una verifica, di natura oggettiva, sull’esistenza di un vizio di natura formale (una svista) o prevalentemente formale (una contradditorietà o illogicità “manifeste”, quindi a tutti evidenti), può essere attribuito sia alla cognizione di un giudice “superiore” che a quella del medesimo giudice che ha emesso la decisione che si assume affetta dal vizio proprio per questa natura di carattere non valutativo. Nell’ottica indicata di ricondurre la Cassazione alle funzioni di nomofilachia la soluzione proposta non può, dunque, che essere quella di attribuire la cognizione sui vizi di motivazione deducibili (auspicabilmente in termini ragionevolmente più ristretti) allo stesso giudice (diversamente composto) o ad un giudice del medesimo grado di quello che ha pronunziato la decisione che si assume affetta dal vizio di motivazione.
I codici processuali prevedono già alcune soluzioni di questo tipo per ovviare a questi errori: nel codice di rito penale è previsto che lo stesso giudice che ha emesso il provvedimento possa emendarlo nel caso in cui sia incorso in errore di fatto (art. 130); analogamente la Corte di cassazione può provvedere – non solo nel caso di errore di fatto ma anche nel caso di errore materiale – anche se la richiesta è (a mio parere ingiustificatamente) limitata a favore del condannato con esclusione quindi dell’imputato o indagato (il che ha particolare rilievo nei giudizi cautelari) e della parte civile (il procuratore generale è invece legittimato a proporre la richiesta).
Ma di particolare interesse mi sembra l’ipotesi, prevista dalla disciplina processuale civilistica, della revocazione delle sentenze pronunziate in grado di appello o in unico grado prevista dall’art. 395 cpc (ed estesa ai provvedimenti del giudice di legittimità dall’art. 391 bis cpc, norma introdotta, dalla riforma del 1990, anche per tener conto della sentenza della Corte costituzionale 17/1986 che aveva già introdotto, con una sentenza additiva, la revocazione per le sentenze del supremo collegio). Si tratta di un rimedio straordinario (ma non tutti concordano su questa qualificazione) utilizzabile in quei casi in cui si sia verificata nel processo un’ingiustizia che renda necessario superare anche la formazione del giudicato e individuare «un rimedio la cui esigenza è ed è stata universalmente avvertita, in ogni dove e in ogni tempo, per un’insopprimibile aspirazione di giustizia»[37].
Perché un istituto analogo alla revocazione della sentenza civile potrebbe costituire uno strumento astrattamente idoneo a porre rimedio ai vizi indicati? Perché l’art. 395 n. 4 cpc prevede, tra i casi di revocazione, che la sentenza sia «l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa», ipotesi che si avvicina sensibilmente ai casi di travisamento della prova e di manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione perché il giudizio è stato falsato o da un elemento estraneo o inesistente o da una valutazione oggettivamente errata. In questo (come del resto nella più parte degli altri casi di revocazione) si tratta di porre rimedio ad una grave patologia del processo che ha deviato il corso della giustizia verso un esito non corretto. Ciò spiega perché la richiesta di revocazione andrebbe proposta allo stesso giudice che ha pronunziato il provvedimento trattandosi di censure che non riguardano errori di giudizio ma anomalie diverse e spesso più nascoste. Naturalmente la giurisprudenza civile di legittimità richiede – come è reso necessario dalla circostanza che la revocazione della sentenza ha conseguenze assai rilevanti sulla formazione e sulla stabilità del giudicato – l’esistenza di presupposti, da accertare rigorosamente, perché possa farsi luogo alla revocazione della sentenza ed evitare che questo procedimento si trasformi in un ulteriore grado di giudizio. È opportuno farne cenno perché si tratta di presupposti che varrebbero a far rimanere in limiti fisiologici, anche nella materia penale, il ricorso a questo strumento atipico di impugnazione ove mai venisse in mente a qualcuno di introdurlo. In particolare: non si deve trattare di errore di diritto; questo errore è peraltro sanabile con il ricorso in Cassazione[38]; si deve trattare di un errore percettivo o di una “svista” in cui è incorso il giudice di merito e non di un errore valutativo[39]; il motivo deve essere decisivo: non è sufficiente che sia fondato ma deve essere astrattamente idoneo (da solo, ovvero considerato unitamente ad altre ragioni già prese in considerazione dai giudici di merito, a far ritenere fondata l’impugnazione); deve dunque esistere un rapporto di causalità necessaria tra l’errore percettivo in cui è incorso il giudice e la decisione che, a seguito di tale svista, è derivata.
Potrebbe obiettarsi che, mentre per il travisamento della prova può parlarsi di vera e propria “svista”, nel caso della manifesta illogicità della motivazione di questo non si tratta perché in questa valutazione un aspetto valutativo non può essere assente. Ciò è senz’altro vero ma credo che la qualificazione della illogicità come “manifesta” consenta di riportare il vizio a quelle palesi incongruenze che consentono di ritenere che la sua esistenza abbia un elevato grado di oggettività e non possa essere posta in discussione per cui il giudice della revocazione, ove lo ritenga esistente, non possa che prenderne atto. Insomma l’illogicità della motivazione, quando è possibile qualificarla come “manifesta”, è assimilabile non tanto ai casi di prova non esistente quanto a quelli in cui il risultato di prova è indiscutibilmente diverso da quello ritenuto dal giudice.
Infine è da osservare che il problema delle dimensioni complessive del contenzioso non sarebbe verosimilmente destinato a diminuire perché contro le decisioni adottate in sede di “revocazione” (se così vogliamo chiamarla) sarebbe comunque consentito il ricorso in Cassazione per violazione di legge; ciò avrebbe comunque un effetto deflattivo sul carico del giudice di legittimità; gli attuali ricorsi per vizio di motivazione verrebbero ripartiti tra i giudici territoriali con un aggravio non significativo mentre alla Corte di cassazione perverrebbero soltanto i ricorsi contro queste decisioni peraltro consentiti solo per violazione di legge con una razionalizzazione di questo giudizio derivante, in modo particolare, dall’averlo ricondotto alle funzioni di nomofilachia.
[1] Si veda la sentenza 28 aprile 2016 n. 27620, Dasgupta, in Cass.pen., 2016, 3203, con nota di V. Aiuti, Poteri d’ufficio della Cassazione e diritto all’equo processo.
[2] Si veda, sul contenuto di questo protocollo addizionale, il commento di S. Longo in G. Ubertis e F. Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, Giappichelli, Torino, 2016, p. 365.
[3] Traggo i dati da E. Lupo, Cassazione penale, voce dell’Enc.dir., Annali, Giuffrè, Milano, 2017, vol. X, p. 171; Del medesimo Autore si veda, in precedenza, Cassazione e legalità penale (convegno Parma, 9-10 ottobre 2015). Relazione introduttiva, in Cass.pen., 2016, p. 438. Per un’analisi dei criteri di funzionamento della Corte e delle prospettive di autoriforma e di riforma v. inoltre G. Canzio, Corte di cassazione e principio di legalità, in Dir.pen. e proc., 2016, p. 425.
[4] Sui temi che riguardano il vizio di motivazione, anteriormente all’entrata in vigore della l. 46/2006 di cui si parlerà più avanti, la letteratura è vastissima ed è ampiamente trattata in tutti i testi istituzionali. Solo esemplificativamente si segnalano gli scritti di G. Lozzi, La ricorribilità in cassazione, in Riv.it.dir.proc.pen., 2005, 1303;M. Menna, Formazione e previsione degli argomenti giustificativi della decisione, in Dir. pen. proc., 2003, p. 1545;G. Silvestri, Il controllo in cassazione del ragionamento probatorio, in Cass. pen., 2001, p. 1653; F.M. Iacoviello, Motivazione della sentenza penale (controllo della), in Enc. dir., agg. n. 5, Giuffrè, Milano, 2000, p. 750.
[5] Su questi problemi si vedano le considerazioni di G. Lattanzi, Cassazione o terza istanza?, in Cass. pen., 2007, p. 1369, il quale ricorda che questa differenza dipende da come l’organo giudiziario sia strutturato in funzione della tutela dello ius constitutionis ovvero dello ius litigatoris.
[6] Sul contenuto di questa riforma, per quanto attiene al vizio di motivazione, v., tra i numerosi altri contributi, quelli di A. Nappi, Il controllo della Corte di cassazione sul ragionamento probatorio del giudice di merito, in Cass. pen., 2008, p. 1260; C. Santoriello, Il vizio di motivazione, Torino, 2008; G. Canzio, Le due riforme processuali del 2006 a confronto: vizio di motivazione, autosufficienza del ricorso e accesso agli atti nei giudizi civili e penali di legittimità, in Riv.it.dir.proc.pen., 2007, p. 135; A. Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione, Giappichelli, Torino, 2006; F. M. Iacoviello, Regole più chiare sui vizi di motivazione, in Guida al diritto, 2006, n. 10, p. 90; Commento all’art. 8 della l. 46/2006, in Legislazione penale, 2006, p. 134; La Cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, Giuffrè, Milano, 2013; E. Aprile, Appello, ricorso per cassazione e revisione, Giuffrè, Milano, 2013; A. Didone, La cd. “legge Pecorella” e i giudizi pendenti in cassazione: prime riflessioni, in Cass. pen., 2006, p. 381; A. Bargi, I nuovi ambiti oggettivi delle impugnazioni, in La nuova disciplina delle impugnazioni dopo la “legge Pecorella”, a cura di A. Gaito, Torino, 2006, pp. 181 ss.; G. Di Chiara, Le modifiche allo spettro della ricorribilità per cassazione, in Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006, a cura di M. Bargis e F. Caprioli, Torino, 2007, p. 185; P. Moscarini, Il sindacato della cassazione penale sulla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali dopo la legge n. 46 del 2006, in Studium juris, 2006, p. 952; C. Valentini, Ricorso per cassazione, in Dig.disc.pen., agg. VI, Utet, Torino, 2011, pp. 526 ss.
Sull’applicabilità della nuova disciplina ai ricorsi in materia cautelare v. Cass., sez. II, 23 marzo 2006, Napoli, in Giust. pen., 2007, III, 582, con nota di E.N. La Rocca, In tema di nuovo art. 606, primo comma, lett. e, C.p.p. Per un’impostazione di tipo storiografico v. P. Catalani, Il vizio di motivazione e i nuovi approdi della giurisprudenza ai movimenti di pensiero del 900, in Cass.pen., 2009, I, 1.
[7] Sulla nozione di motivazione contradditoria v. F.M. Iacoviello, La Cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, cit., spec. Pp. 407 ss.; E. Aprile, Appello, ricorso per cassazione e revisione, cit., pp. 268 ss.; A. Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione, cit., pp. 164 ss.
[8] Si veda Cass., sez. II, 5 maggio 2006 n. 19584, Capri, rv. 233773, in Riv. pen., 2006, p. 922 secondo cui anche la contraddittorietà della motivazione deve essere manifesta perché possa ritenersi censurabile la sentenza impugnata.
[9] V. G. Di Chiara, Le modifiche allo spettro della ricorribilità per cassazione, cit., p. 217.
[10] Si veda F.M. Iacoviello, Commento all’art. 8 della l. 46/2006, cit. p. 154.
[11] Nel medesimo senso v. E. Aprile, Appello, ricorso per cassazione e revisione, cit., p. 274. Su questi temi si vedano inoltre le considerazioni di C. Santoriello, Il controllo sulla congruità della motivazione nel giudizio di legittimità tra disorientamenti interpretativi e resistenze culturali, in Giur. it., 2007, p. 2570 (commento a Cass., sez. IV, 9 febbraio 2006 n. 12894, Vescia).
[12] V. F.M. Iacoviello, Regole più chiare sui vizi di motivazione, cit., p. 157. Sulla nuova disciplina riguardante la contradditorietà si vedano le considerazioni di C. Valentini (Ricorso per cassazione, cit., pp. 526 ss.).
[13] Se ne veda l’ampia rassegna che ne fa G. Lozzi, La ricorribilità in cassazione, cit., pp. 1316 ss.
[14] Su questi temi v. A. Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione, cit., pp. 250 ss.
[15] Per questa distinzione si veda M. Taruffo, Le funzioni delle corti supreme. Cenni generali, in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, 2011, p. 11.
[16] È questa invece l’impostazione del problema che fornisce D. Pulitanò, Crisi della legalità e confronto con la giurisprudenza, in Riv.it.dir.proc.pen., 2015, p. 29.
[17] Si vedano, da ultimo, Cass., sez. V, 27 marzo 2015 n. 36080, Knox, in Foro it., 2016, II, 448; sez. IV, 17 marzo 2015 n. 20044, S., in Ced Cass., n. 263864; sez. V, 19 giugno 2014 n. 42814, Cataldo, in Ced Cass., n. 261760; sez. II, 22 maggio 2014 n. 27116, Grande Aracri, in Ced Cass., n. 259811; sez. II, 25 settembre 2013 n. 47060, Mazzoni, in Ced Cass., n. 257490.
[18] I temi riguardanti la formazione e l’utilizzazione delle massime di esperienza non sono stati particolarmente approfonditi dalla giurisprudenza e anche i contributi della dottrina sono scarsi. Possono consultarsi sull’argomento P. Tonini, La Cassazione accoglie i criteri Daubert sulla prova scientifica. Riflessi sulla verifica delle massime di esperienza, in Dir. pen. proc., 2011, p. 1341; M. Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2009, p. 551; in precedenza sul tema v. N. Mannarino, Le massime d’esperienza nel giudizio penale e il loro controllo in cassazione, Cedam, Padova, 1993. Sulla possibilità che le massime in questione possano orientare modelli diversi di causalità v. F. Cingari, Causalità psichica e massime di esperienza: un modello differenziato di causalità ?, in Dir. pen. proc., 2009, p. 767.
[19] La giurisprudenza di legittimità è univoca nel senso indicato: cfr. da ultimo Cass., sez. IV, 21 marzo 2017 n. 22637, Attanasio, rv. 270000; sez. III, 18 ottobre 2016 n. 2257, Burani, rv. 268800; sez. VI, 15 giugno 2016 n. 33705, Caliendo, rv. 270080; sez. VI, 14 aprile 2016 n. 266970, Rechichi, rv. 266970; sez. I, 7 gennaio 2016 n. 6636, Pandico, rv. 266365.
[20] Si veda la sentenza 30 aprile 1997 n. 6402, Dessimone, in Cass. pen., 1997, 3327. Secondo C. Valentini (Ricorso per cassazione, cit., par. 5 b) questa sentenza «con interessante artifizio, era riuscita a risuscitare nella sostanza il cosiddetto travisamento del fatto».
[21] Si veda la sentenza delle Sezioni Unite 30 ottobre 2003 n. 45276, Andreotti e altri, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 590, con nota di G. Lozzi, Reformatio in peius del giudice di appello e cognitio facti ex actis della Corte di cassazione, e in Giur. it., 2004, p. 1230, con nota di C. Santoriello, Disorientamenti giurisprudenziali in tema di controllo di legittimità sulla motivazione in fatto.
[22] Il vizio di travisamento della prova è frutto di elaborazione dottrinale (v. in particolare i contributi su questo tema di F.M. Iacoviello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, Milano, 1997; Motivazione della sentenza penale (controllo della), cit., 790 ss.; più di recente La Cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, Giuffrè, Milano, 2013, spec. Pp. 408 ss.); negli anni successivi è stato condiviso in varie decisioni della Corte di cassazione (sentenze sez. IV, 6 aprile 2000 n. 6552, Attaguile, rv. 216734, in Cass. pen., 2001, 2726 (s.m.); sez. I, 3 dicembre 2003 n. 1647, Polito, rv. 227105; sez. IV, 9 giugno 2004 n. 29920, Bonazzi, in Giust. pen., 2006, III, 105 e in Cass. pen., 2005, 2557, con nota di F. Zacchè, Prova travisata e poteri della Corte di cassazione; 9 giugno 2004 n. 36769, Cricchi, rv. 229690; 19 aprile 2005 n. 40059, Bianco, rv. 232439. Dopo isolate decisioni contrarie, (per es. Cass., sez. V, 29 novembre 2005 n. 46871, in Dir. pen. proc., 2006, 878 (s.m.), con nota di A. Famiglietti, Il controllo di legittimità sul travisamento del fatto e della prova: ritorno al passato con la “legge Pecorella”) la giurisprudenza più recente appare uniforme nel recepire questo orientamento: si vedano, Cass., sez. V, 13 febbraio 2017 n. 18975, Cadore, rv. 269906; sez. III, 31 gennaio 2017 n. 14509, Romeo, rv. 270394; sez. II, 18 novembre 2016 n. 7986 (dep. 2017), La Gumina, rv. 269217; sez. V, 24 settembre 2014 n. 48703, Biondetti, rv. 261438; sez. VI, 16 gennaio 2014 n. 5146, Del Gaudio, rv. 258774; sez. IV, 12 dicembre 2013 n. 4060 (dep. 2014), Capuzzi, rv. 258438; sez. V, 28 novembre 2013 n. 7465 (dep. 2014), Napoleoni, rv. 259516.
È da rilevare che anche la giurisprudenza civile di legittimità ha preso atto della possibilità di censurare il vizio del travisamento della prova (cfr. Cass., sez. I, 25 maggio 2015 n. 10749, rv. 635564; sez. III, 24 maggio 2006 n. 12362, rv. 589592).
[23] Si veda G. Lattanzi, Cassazione o terza istanza?, cit., p. 1382.
[24] Nel senso che per prova nuova, ai fini della revisione, debba intendersi non solo la prova successivamente acquisita ma anche quella già esistente ma non valutata si sono pronunziate le Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza 26 settembre 2001 n. 624, Pisano, in Cass. pen., 2002, p. 1952, con nota di B. Monastero, Revirement delle Sezioni Unite: la prova non valutata legittima una richiesta di revisione.
[25] Secondo F. Zacchè, Prova travisata e poteri della Corte di cassazione, cit., p. 2572, «pare illusoria la pretesa della Cassazione di mantenere il suo controllo nei confini della “mera” legalità quando verifica il procedimento intellettivo seguito dai giudici di grado inferiore».
[26] Secondo F. M. Iacoviello, Regole più chiare sui vizi di motivazione, cit., p. 157, solo per la contraddittorietà il nuovo testo dell’art. 606 cpp prevederebbe il raffronto con gli atti perché «la illogicità è una illogicità tra argomenti e non vi può essere illogicità tra un argomento della sentenza e un argomento desumibile dagli atti».Nella giurisprudenza di legittimità fa invece espresso riferimento anche alla manifesta illogicità Cass., sez. I, 20 aprile 2006 n. 20370, Simonetti, rv. 233778.
[27] Espressione di questo orientamento sono, tra le altre (tutte della medesima sezione e tutte aventi il medesimo relatore), Cass., sez. V, 9 novembre 2006 n. 39843, Gatti, in Cass. pen., 2007, p. 2859; 12 aprile 2006 n. 16959, Strano, in Dir. pen. proc., 2006, p. 1522, con nota critica di A. Capone, La contraddittorietà tra motivazione e atti in Cassazione; 12 aprile 2006 n. 16955, Mangion, in Foro it., 2006, II, p. 529, con osservazioni di G. Di Chiara (ivi sono pubblicate anche le sentenze Stojanovic e Casula che saranno di seguito citate) nonché in Giur. it., 2007, p. 2027, con nota di G. Sambuco, I poteri cognitivi della Corte di cassazione, tra resistenze interpretative e aspirazione al giusto processo, e in Cass. pen., 2006, p. 3534, con nota di A. Didone, La legge “Pecorella”, l’entimema di Toulmin e il tassello mancante. In dottrina, nel medesimo senso, v. A. Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione, cit., p. 158.
[28] Questo orientamento è condiviso dalla giurisprudenza delle altre sezioni della Corte di cassazione. Si vedano, esemplificativamente, Cass., sez. VII, 19 febbraio 2015 n. 12406, Miccichè, rv. 262948; sez. V, 12 dicembre 2012 n. 9338 (dep. 2013), Maggio, rv. 255087; sez. VI, 24 febbraio 2010 n. 18491, Nuzzo Piscitelli, rv. 246916; sez. IV, 17 aprile 2007 n. 21602, Ventola, rv. 237588 e sez. II, 23 maggio 2007 n. 23419, Vignaroli, rv. 236893, nonché tutta la giurisprudenza di legittimità che sarà di seguito citata. In dottrina la critica al diverso orientamento è praticamente generalizzata: v., esemplificativamente, F.M. Iacoviello nel già citato commento all’art. 8 della l. 46/2006; A. Bargi, I nuovi ambiti oggettivi delle impugnazioni, cit., pp. 167 ss.
[29] Questa efficace espressione è usata da Cass., sez. VI, 15 marzo 2006 n. 10951, Casula, in Riv.it.dir.proc.pen., 2006, p. 1614, con nota di A. Capone, La Corte di cassazione non giudica nel merito. Nuovi sviluppi di un antico adagio, e in Cass. pen., 2006, p. 2372, con nota di A Nappi, La riforma dell’art. 606 cpp e il sindacato di legittimità sulla motivazione incompleta. L’Autore, che è l’estensore delle sentenze rappresentative dell’orientamento minoritario sull’interpretazione da dare al concetto di “atti”, da cui deve risultare il vizio di motivazione, ribadisce in questo scritto le ragioni del suo convincimento.
[30] Questa ricostruzione è condivisa dalla ormai assolutamente prevalente giurisprudenza di legittimità. Si vedano Cass., sez. V, 12 dicembre 2012 n. 9338 (dep. 2013), Maggio, rv. 255087; sez. V, 21 gennaio 2011 n. 18542, Carone, rv. 250168; sez. III, 21 novembre 2008 n. 12110 (dep. 2009), Campanella, rv. 243247; sez. I, 15 giugno 2007 n. 24667, Musumeci, in Cass. pen., 2008, 2899, con nota di L. Calò, Travisamento della prova. Storia di un dialogo (il caso si riferiva al travisamento di una perizia grafica che aveva attribuito all’imputato un falso materiale in termini di mera possibilità e che il giudice aveva interpretato in termini di certezza); sez. II, 11 gennaio 2007 n. 7380, Messina, in Cass. pen., 2008, 226; sez. I 14 luglio 2006 n. 25117, Stojanovic, in Cass. pen., 2007, 2864, con nota di A. Follieri, Il sindacato della Corte di cassazione sul vizio di motivazione, e in D & G diritto e giustizia, 2006, n. 32, 48, con nota (a p. 44) di P. Ferrua, Atti processuali, addio divieto d’accesso. La Pecorella dà più spazio agli ermellini; sez. II, 23 marzo 2006 n. 13994, Napoli, in Giur. it., 2007, p. 435, con nota di A. Famiglietti, Decisività della prova travisata e ricorso per cassazione: le innovazioni apportate dalla “legge Pecorella”; 5 maggio 2006 n. 19584, Capri, rv. 233773, in Riv. pen., 2006, 922. Secondo R.E. Kostoris (Le impugnazioni penali, travagliato terreno alla ricerca di nuovi equilibri, in Riv. dir. proc., 2008, p. 915) il nuovo vizio di contraddittorietà tra atti del processo e decisione non richiede quella manifesta evidenza necessaria per l’illogicità ma che sia sufficiente che l’elemento ignorato o travisato “ponga un ragionevole dubbio sulla colpevolezza”.
[31] In questo senso v. Cass., sez. II, 23 maggio 2007 n. 23419, Vignaioli, rv. 236893. La già citata Cass., sez. V, 9 novembre 2006 n. 39843, Gatti ritiene invece che, anche dopo la modifica dell’art. 606 cpp, il vizio derivante dal contrasto tra la decisione e le prove possa essere fatto valere nel giudizio di legittimità solo quando si traduca in un error in procedendo riconducibile alla lett. c della medesima norma.
[32] Si vedano Cass., sez. VI, 10 maggio 2007 n. 542, Contrada, rv. 238243 (non massimata sul punto); sez. IV, 12 febbraio 2008 n. 15556, Trevisonno, in Riv.it.dir.proc.pen., 2008, 1417, con nota di C. Papagno, La prova dichiarativa non può essere travisata: l’interpretazione giurisprudenziale svilisce il significato della riforma.
[33] Si vedano, per la riaffermazione del principio di autosufficienza del ricorso, Cass., sez. II, 1° marzo 2013 n. 26725, Natale, rv. 256723; sez. V, 22 gennaio 2010 n. 11910, Casucci, rv. 246552; sez. IV, 16 dicembre 2009 n. 3360 (dep. 2010), Mutti, rv. 246499.
[34] Da parte di A. Capone, La Corte di cassazione non giudica nel merito, cit., p. 1617.
[35] Si veda la citata Cass. sez. II, 23 marzo 2006 n. 13994, Napoli.
[36] Si vedano le considerazioni sul punto di E. Lupo, Cassazione penale, cit., p. 188.
[37] Così C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile. La revocazione, vol. III, Giappichelli, Torino, 2013, p. 457.
[38] Ciò vale anche nel caso di dedotta violazione delle norme Cedu come è stato di recente affermato (v. Cass., sez. VI, ord. 22 settembre 2016, in Riv.dir.proc., 2017, 284, con nota di S. Colussa, Contrarietà della sentenza di cassazione ai principi della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e revocazione).
[39] Per l’esame di una serie di errori valutativi, per i quali è stata ritenuta inammissibile la richiesta di revocazione, si vedano le sentenze Cass., sez. III, 25 luglio 2002 n. 10901; sez. lav., 3 giugno 2002 n. 8035; sez. III, 3 giugno 2002 n. 8023, tutte in Foro it., 2003, I, p. 1819, con nota di A. Renzi, In tema di revocazione delle sentenze della Corte di cassazione); si è detto, in dottrina, che l’errore di fatto deve attenere “alla sfera sensoriale (della lettura o della memoria di quanto risultante dagli atti e documenti della causa) e non a quella del ragionamento” (v. C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., p. 463).