Magistratura democratica

L’usura sopravvenuta in Cassazione

di Aldo Angelo Dolmetta

Il fluire del tempo nel contratto di mutuo rende necessario valutare le conseguenze dello snodarsi di una serie di frazioni di tempo, ai fini della verifica permanente della usurarietà. Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 1 della legge 24/2001, pur nel diverso regime sanzionatorio permane la rilevanza dell’usura sopravvenuta: le ragioni sistematiche, la funzione della buona fede oggettiva e le altre ragioni. La necessità di inserimento degli interessi moratori nell’ambito tematico della usura sopravvenuta. Infine la difficoltà di individuare il regime economico sostitutivo di quello usurario.

1. In via di premessa: la fattispecie di rilevanza usuraria tra mero patto e tempo di applicazione degli interessi

1.1. Può capitare – non è frequentissimo, ma capita – che il testo di un contratto di mutuo, preparato per la stipula notarile, venga a prevedere l’applicazione diacronica di due distinti tassi compensativi (entrambi destinati, cioè, all’esecuzione fisiologica del rapporto che nasce dal mutuo): uno, scritto per un primo periodo dell’esecuzione del rapporto; l’altro, e più elevato, per il susseguente periodo restante. Rispetto a una fattispecie così strutturata può anche accadere che – nel raffronto con il tasso soglia d’usura (: punto massimo della crescita consentita dalla legge rispetto al Tegm tempo per tempo rilevato), quale sussistente al momento della stipula notarile del patto – il primo tasso risulti inferiore alla soglia usuraria, mentre il secondo la venga a superare (magari) per una misura abbondante.

Nei fatti, una simile situazione viene a creare imbarazzi e incertezza; e non solo al notaio, costretto nella rigida alternativa consegnatagli dall’art. 28 della legge professionale. In effetti, un contratto non può – in uno stesso tempo – essere usurario e anche non usurario. Pure, il patto ipotizzato contempla – nel momento in cui lo stesso viene fatto (con rifermento, quindi, al momento in cui gli interessi «sono promessi o comunque convenuti», che è l’espressione adottata dall’art. 1 della legge n. 24/2001[1]) – sia un tasso lecito (il primo), sia un tasso illecito (il secondo). Occorre scegliere: chiedersi di conseguenza quale, tra i due tassi, sia quello da assumere come rilevante.

La risposta, per la verità, segue prima di ogni altra cosa il buon senso[2]. Se può apparire in sé scontata, la stessa vale tuttavia a mostrare un primo punto determinante per la corretta comprensione e ricostruzione dell’usura dei contratti di mutuo e dei contratto di credito in genere[3]. Che la ragione di una considerazione fermata sul tasso più basso (e, nell’esempio, lecito) riposa – non può non riposare – sul fatto che questo, non l’altro e più elevato, è il tasso che viene a entrare nell’immediato in applicazione: non appena avvenuta, meglio, l’erogazione della somme di cui al mutuo.

Il puro e semplice riferimento alla stipula del patto e al tempo in cui questa avviene, dunque, appare profilo non sufficiente a impostare e risolvere in modo conveniente i problemi dell’usura, interpretativi come ricostruttivi, non meno che inerenti alla stesura legislativa delle regole che il relativo fenomeno intendono arginare. Al di là delle parole della norma dell’art. 1 della legge n. 24/2001, in proposito non può non assumere (= deve assumere) rilevanza – in una con il patto di mutuo – anche l’esecuzione del rapporto di cui al mutuo medesimo[4].

1.2. Per sua propria natura, tuttavia, il discorso relativo al dato materiale di rilevanza usuraria non è destinato a fermarsi con l’individuazione di questo paletto; non dovrebbe terminare, cioè, con la fermata rilevanza del tasso di prima ed effettiva applicazione. Occorre che si spinga sino a riconoscere e collocare la rilevanza usuraria dei tassi – che sono stati convenuti e poi applicati – anche rispetto ai successivi periodi di svolgimento del relativo rapporto.

Per constatarlo, sempre sul filo della ragionevolezza e del buon senso, si può riprendere l’esempio appena fatto, del doppio (e diacronico) tasso. Se il criterio orientativo della scelta iniziale è stato quello del tasso applicato – tra i più tassi convenuti –, lo stesso criterio dovrebbe valere per tutto lo svolgimento del rapporto. A contare dovrebbe essere, in altri termini, il tasso che tempo per tempo trova applicazione: con riferimento – occorre completare la frase – al Tegm rilevato per il relativo periodo di tempo, poiché quello inerente al periodo iniziale, passato il trimestre, functus est munere suo.

A meno di non ritenere che in relazione al tema della rilevanza usuraria abbia peso solo il tasso di prima e immediata applicazione. Ma di tanto – a fronte del rilievo appena svolto (la strada della rilevanza del tasso applicato, una volta adottata, dovrebbe valere sempre) – si dovrebbe comunque dare adeguata e forte dimostrazione.

Certo, una risposta definitiva in proposito non può comunque non dipendere dalle scelte operate dalla legge scritta (risposta che, per il diritto italiano, comunque è di segno positivo, come si vedrà infra, spec. nei nn. 3 e 4). In via preliminare, peraltro, non sembra inopportuno notare come la rilevanza usuraria del tasso tempo per tempo applicato non abbia, di per sé, solo la pur evidente circostanza che – a pensare diversamente – diventa sin troppo facile e immediato aggirare la normativa di repressione del fenomeno usurario: sino, in verità, a rendere la stessa del tutto evanescente e inutile[5].

Come da tempo avvertito in letteratura, l’esecuzione del rapporto di mutuo (dei contratti di credito in genere[6]) si snoda lungo una serie di frazioni temporali che – se in sommatoria formano il periodo di godimento del danaro ricevuto, secondo quanto determinato nel contratto – peraltro restano strutturalmente distinte tra loro. A livello scomposto, ciascuna di esse viene a ricevere una propria retribuzione; per la replica del godimento che tempo per tempo viene concesso, come pure per la correlativa replica dell’efficacia del patto che tale retribuzione governa.

Secondo quanto risulta rispondente, del resto, alla costruzione assunta dalla norma generale dell’art. 821, comma 3, cc, per cui gli interessi – intesi propriamente come «corrispettivo del godimento del danaro», che sia concesso dal proprietario delle somme erogare a prestito – «maturano giorno per giorno, in ragione della durata del diritto» (nella vigente legge sull’usura, il «giorno per giorno» viene trasformato in «trimestre per trimestre»).

Il contratto di mutuo stipulato nel tempo presente, di conseguenza, non viene a rimanere estraneo al mercato che andrà a seguire nel futuro, lungo le varie frazioni temporali in cui il relativo rapporto è destinato a durare. Di sicuro, lo stesso non va fuori mercato – non muore – col finire della sua «prima applicazione» o del suo primo Tegm; come pure, del resto, il Tegm di un trimestre viene a fungere da sponda di riferimento per quello del trimestre successivo (e così via via, in prosieguo di tempo). Il riferimento al solo tasso di prima applicazione – rectius, del primo trimestre – in definitiva oscura il fluido continuo che per contro connota il mercato del credito.

Tra le osservazioni di tratto preliminare, ne resta ancora una da svolgere. Non si può trascurare che tra tasso applicato il primo trimestre e tasso di applicazione successiva corra una differenza importante: nel primo caso, il creditore sa – se impresa, non può non sapere – che quel tasso supera il massimo in quel momento consentito all’autonomia privata; nella seconda circostanza, il creditore si affida invece al futuro. Ora, questa differenza certamente può giustificare e comportare (come in effetti avviene nel sistema italiano) una diversità di trattamento in punto di modalità e termini di repressione del fenomeno usurario. È peraltro subito da aggiungere che, per il caso dell’applicazione successiva al primo trimestre, il creditore non si trova comunque in balia degli eventi: ben potendo lo stesso in via autonoma rimediare al sopravvenuto superamento della soglia – anche (ma non solo) a mezzo di apposite clausole di salvaguardia e cimatura, in quanto tali idonee a fermare in modo automatico il tasso sul limine del consentito – e così riportare sulla linea della correttezza il proprio comportamento[7].

2. L’attuale contrasto tra pronunce della Corte sulla rilevanza dell’usura sopravvenuta

2.1. La rilevanza usuraria del tasso applicato al rapporto dopo il primo trimestre – nel che si sostanzia la base empirica del fenomeno della cd. usura sopravvenuta (seppure così assunta solo nei termini di una prima sgrossatura) – è opinione che, nel diritto vivente di questi ultimi anni, raccoglie un elevato numero di consensi. La recepisce una buona parte della dottrina. La segue un rilevante numero di sentenze dei giudici di merito. Il Collegio di coordinamento dell’Abf ha indirizzato in questo senso la linea delle proprie decisioni (cfr., in specie, le decisioni 10 gennaio 2014, n. 72 e 10 gennaio 2014, n. 77). Le stesse Istruzioni della Vigilanza la hanno fatta loro propria, con segnato – e per vero anche esclusivo – riferimento ai rapporti creditizi «a utilizzo flessibile» (stabilendo che per i finanziamenti in apertura, su anticipi, di factoring e di credito revolving devono essere rilevati tutti i rapporti intrattenuti nel trimestre, a differenza di quanto avviene per gli altri contratti di credito, dove la rilevazione si ferma, per sé, ai nuovi rapporti)[8].

Il tutto pure con l’enucleazione, elaborazione e sviluppo di altri – successivi – profili tematici che la materia non manca di proporre (dalla definizione esatta dei casi di usura sopravvenuta rispetto a quelli di usura originaria alla delineazione compiuta della struttura rimediale da applicare al riscontro della usura qui in esame, ai rapporti tra usura sopravvenuta e oneri eventuali, quali gli interessi moratori)[9].

Nonostante ciò, occorre tuttora concentrare l’attenzione sul detto aspetto di base, che ovviamente è preliminare a ogni altro profilo della materia. Soprattutto perché – nel diritto vivente della Corte di cassazione – il problema della rilevanza del fenomeno dell’usura sopravvenuta risulta allo stato non ancora chiarito. Nella realtà delle cose, la questione è stata rimessa al vaglio delle Sezioni Unite dall’ordinanza interlocutoria 31 gennaio 2017, n. 2484[10].

2.2. Al riguardo giova subito evidenziare che – per quanto mi consta almeno – sinora la Cassazione si è occupata del problema solo con riferimento al caso di rapporti iniziati prima dell’entrata in vigore della legge n. 108/1996. È questo un tema decisamente importante, ma che ha sostanza prima di tutto di diritto intertemporale e che, comunque, rappresenta solo uno dei possibili lati di emersione dell’usura sopravvenuta. Che è, invece, tema dalle molte e larghe prospettive: si pensi, per rimanere al mero dato materiale del fenomeno[11], anche solo al caso della discesa dei tassi di mercato (: del Tegm) che sia successiva alla prima applicazione del rapporto; ovvero a quello di un’improvvisa moltiplicazione delle spese concretamente caricate sul rapporto in corso di opera; o a un crescere incontrollato di commissioni.

Ciò posto, va adesso ricordato come – nei primissimi anni di applicazione della legge n. 108/1996 – nella giurisprudenza della Corte emerse netto un orientamento favorevole all’applicazione dell’usura sopravvenuta, come direttamente poggiato sul testo della riformata norma dell’art. 644 cp: sul divieto, in specie, di «farsi dare» vantaggi usurari (e sul punto si tornerà con ampiezza, specie nel prossimo n. 3.3.). Orientamento che si pose, peraltro, con specifico riferimento ai soli rapporti ancora in corso di svolgimento al tempo dell’entrata in vigore della legge n. 198/1996, non anche a quelli all’epoca già esauriti[12]. Per questi ultimi, infatti, un problema del genere non avrebbe potuto nemmeno porsi: un’eventuale applicazione della legge n. 108/1996 postulando, in effetti, un’inammissibile efficacia retroattiva della legge medesima.

Il che tra l’altro vuole pure dire che – per i rapporti avviati prima dell’entrata in vigore della legge n. 108/1996 – un problema di usura sopravvenuta si può porre solo ove il rapporto fosse ancora in corso all’epoca dell’entrata in vigore di tale legge (nel senso, semplificando un poco, che il rapporto non era ancora stato risoluto, né si era verificata un’altra causa di suo scioglimento) e solo con riferimento alla parte del rapporto che in quel momento risultasse ancora da svolgere. Ciò che in ogni caso comporta – va pure aggiunto in limine – l’esclusione dell’eventualità di applicare, nel caso, la sanzione della cd. «gratuità» dell’intero rapporto, che è disposta dall’art. 1815, comma 2, cc[13].

2.3. In prosieguo di tempo è peraltro intervenuta – il punto è notissimo – la già citata legge n. 24/2001, il cui art. 1, comma 1, con norma di interpretazione autentica ha previsto che «ai fini dell’applicazione dell’art. 644 cp e dell’art. 1815 comma 2 cc si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge al momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal loro pagamento». Da qui il successivo divaricarsi dell’atteggiamento della Cassazione in due contrapposti orientamenti.

Da una parte si è continuato ad alimentare la soluzione della rilevanza dell’usura sopravvenuta in corso di rapporto. Tanto è avvenuto, per la verità, anche per la via indiretta (o mediata, se preferisce) della rilevanza più volte riconosciuta agli interessi moratori (il punto, qui anticipato, sarà sviluppato infra, nel n. 5)[14]. La più recente espressione dell’orientamento, che appunto dà rilevanza all’usura sopravvenuta, è data da Cass. 17 agosto 2016, n. 17150, (la quale assume in modo espresso che il rapporto esaminato era ancora in corso di esecuzione al tempo dell’entrata in vigore della legge): in questa decisione, la soluzione viene radicata nella diretta applicazione alla fattispecie delle disposizioni di cui alla legge n. 108/1996, senza medi ulteriori; ma con l’espressa aggiunta in calce, che l’applicazione avviene, com’è naturale, solamente ex nunc (con espressa limitazione di ogni eventuale provvedimento, cioè, al rapporto successivo a detto momento)

Anche dall’opposta parte, del resto, il problema si trova sostanzialmente inserito nell’alveo della tematica di diritto intertemporale. A risolverlo, qui, è propriamente il giudizio che l’art. 1 della legge n. 24/2001 si pone in eclissi (si frappone) tra la normativa della legge n. 108/1996 e la fattispecie concreta: di per sé senz’altro applicabile, cioè, la normativa dell’usura viene peraltro a trovarsi oscurata ovvero paralizzata dalla norma interpretativa. Secondo la sentenza del 19 gennaio 2016, n. 801, ultimo esito di tale orientamento, la «norma interpretativa ... comporta l’inapplicabilità del meccanismo dei tassi soglia alle pattuizioni stipulate ... in data precedente all’entrata in vigore della legge n. 108/1996 ... «ancorché riferite» – così si rileva (con formula non priva di una qualche ambiguità) – «a rapporti perduranti anche dopo tale data».

L’ordinanza interlocutoria –che appare relativa a un rapporto ancora in fase di pieno svolgimento al tempo dell’entrata in vigore della legge n. 108/1996 (mutuo decennale contratto nel 1990) – riporta fedelmente le dette due anime (ivi pure elenchi pressoché completi dei rispettivi precedenti).

2.4. Sembra, a conti fatti, che il problema dell’eventuale rilevanza dell’usura sopravvenuta abbia – nell’attuale diritto vivente della Cassazione – due sponde, o indici, di riferimento caratteristici: il suo riferirsi in via propria, se non esclusiva, ai rapporti «pendenti» nel 1996; il suo galleggiare in un incerto rapporto tra la normativa generale sull’usura, come scritta nella legge n. 108/1996, e la specifica norma (se non proprio speciale, almeno in una certa lettura) della legge n. 24/2001.

Sul primo punto si è già detto come la prospettiva del diritto intertemporale sia fattore che tutto sommato viene a inquinare la visione d’insieme del problema, portandolo verso altri sentieri: si pensi alla nozione di rapporto non esaurito (che, di per sé, è tutto meno che semplice); si pensi al «peso» che nei fatti accompagna la lettura di una norma retroattiva.

Sicuramente centrale (per quanto non esclusivo, si vedrà) appare invece il punto della corretta costruzione del rapporto corrente tra la disciplina generale dell’usura e la norma di interpretazione retroattiva: qui, l’impressione, che si ritrae dalla lettura delle contrapposte sentenze, è che ciascuna delle due opinioni, nel valorizzare una norma, venga in sostanza a cancellare l’altra.

3. Rilevanza dell’usura sopravvenuta: il sistema della normativa usuraria

3.1. Del rapporto sistematico corrente tra la normativa generale dell’usura, quale dettata nella legge n. 108/1996, e la specifica disposizione dell’art. 1 della legge n. 24/2001 si è occupata – pure questa è circostanza assai nota – anche la Corte costituzionale, con la sentenza del 25 febbraio 2002, n. 29. Che ha considerato questo rapporto sotto il profilo funzionale e pure sotto il profilo strutturale.

Sotto il primo profilo, la Corte ha in via segnata rilevato che la «ratio della legge n. 108/1996 è quella di contrastare nella maniera più incisiva il fenomeno usurario. Siffatta finalità è stata essenzialmente perseguita ..., da un lato, rendendo più agevole l’accertamento del reato, attraverso l’individuazione di un tasso obiettivamente usurario ...; dall’altro, inasprendo le sanzioni penali e civili connesse alla condotta illecita». Quanto poi al profilo strutturale, la Corte ha rilevato che l’«art. 1 del decreto legge n. 394/del 2000 viene a precisare che le sanzioni penali e civili di cui agli artt. 644 cp, e 1815, secondo comma, cc trovano applicazione con riguardo alle sole ipotesi di pattuizioni originariamente usurarie».

Dunque, la norma dell’art. 1, legge n. 24/2001, si occupa solo delle sanzioni che sono state «inasprite» dalle normativa generale della legge n. 108/1996. E in questa specifica dimensione – di compiuta estraneità rispetto alla conformazione della fattispecie dell’usura, appunto –, la norma viene ritenuta dalla Corte espressiva di un’«interpretazione ragionevole», «tra le tante astrattamente possibili»[15] (implicita, ma davvero trasparente, qui, la valutazione della Corte dell’art. 1 in termini di norma sì retroattiva sotto il profilo dell’efficacia, quanto però innovativa dall’angolo visuale del contenuto precettivo).

3.2. Secondo la valutazione della Corte (peraltro conforme al pensiero espresso da parte della dottrina), dunque, la norma dell’art. 1 non si occupa che delle sanzioni penali e delle sanzioni civili, dalla legge n. 108/1996 rese – per tutte o parte delle fattispecie usurarie – più aspre. In quanto sanzioni «più aspre», o «troppo aspre», questa norma fa certo che le stesse restano escluse per l’usura sopravvenuta. Che poca cosa certo non è. Che, tuttavia, non è neppure tutto.

In controluce con quanto espresso dalla Corte costituzionale, in particolare, vi sono – per la definizione della cifra complessiva del suo intervento – talune cose da rimarcare in speciale maniera[16].

La Corte non dice, prima di tutto, che il fenomeno dell’usura sopravvenuta si manifesta irrilevante per il sistema vigente. Nemmeno dice che la norma dell’art. 1 è andata ad abrogare – per una o più parti – la disciplina dettata in generale dalla legge n. 108/1996 (cosa, del resto, che la norma neppure in astratto potrebbe dire, come subito si vedrà): non dice, in specie, che è stata abrogata la parte dell’art. 644 cp che sanziona il caso di «farsi dare» dei vantaggi usurari. Non dice, tanto meno, che delle zone della normativa di cui alla legge n. 108/1996 non siano (più) imperative o che queste zone siano diventate derogabili. Non dice che è valido il patto di deroga alla normativa usuraria o il patto contrario alla normativa usuraria.

Tutto questo la Corte non lo dice. Non lo dice, a me pare, per due distinti motivi. Perché – se la norma dell’art. 1 avesse realmente quella portata (che è poi quella che finisce per consegnarle l’orientamento contrario alla rilevanza dell’usura sopravvenuta) – ben difficilmente la si potrebbe definire norma dotata di ragionevolezza; né norma di semplice completamento di un sistema altrove ideato e conformato (come invece la norma è). In una simile prospettiva, in realtà, la norma dell’art. 1 risulterebbe intesa a far cadere una parte decisamente sostantiva della legge n. 108/1996: sicuramente non più rivolta, allora, a reprimere «nella maniera più incisiva» il fenomeno usurario.

Non lo dice pure per un’altra ragione, di ordine per così dire strutturale. Secondo la giurisprudenza della stessa Corte costituzionale, con l’emanazione di una norma di interpretazione autentica il legislatore può scegliere nell’ambito delle più interpretazioni possibili, cioè compatibili con il testo della norma. È quindi esclusa non solo la possibilità di procedere a delle abrogazioni espresse, ma anche quella di addivenire ad abrogazioni per incompatibilità: ché ciò, per definizione, si tradurrebbe nell’adottare una interpretazione non possibile sulla base del testo all’epoca vigente. Un’abrogazione retroattiva, insomma, è esclusa dal sistema. E nel caso che qui nel concreto interessa un’interpretazione forte della legge n. 24/2001 (relativa alla fattispecie usura, cioè) comporterebbe senza dubbio l’abrogazione retroattiva della norma dell’art. 644, là dove la stessa predica la rilevanza usuraria del «farsi dare» dei vantaggi superiori a quelli fissati dalla soglia di legge.

3.3. Ciò posto, adesso non sembra inopportuno soffermarsi un momento a guardare la fattispecie di usura, che rileva per il sistema vigente. Così come la stessa risulta per l’appunto disegnata dall’art. 644 cp a seguito della riformulazione portata dall’art.1 della legge n. 108/1990: ché la centralità sistematica della relativa regola in punto di definizione della fattispecie usuraria rilevante davvero non potrebbe comunque risultare discutibile.

Ora, la norma appare proprio netta, univoca: l’usura si verifica non solo quando taluno «si fa promettere vantaggi usurari»; ma pure – e indipendentemente[17] – quando questi «si fa dare vantaggi usurari». E dunque: a contare, per il nostro diritto vigente, non è solo la previsione di tassi usuari nel momento della stipula del patto (meglio, con riferimento alla prima applicazione del rapporto; cfr. sopra, n. 1). Contano anche tutte le dazioni di vantaggi usurari che in prosieguo di rapporto vengano poi a configurarsi.

Può non essere inutile, allora, esplicitare in proposito la stringa strutturale che segue. Il fenomeno usurario riguarda i contratti di credito (anche o solo qui non importa[18]). I contratti di credito hanno una struttura elementare formata da erogazione della somma di danaro e da restituzione della stessa, da parte di chi la ha ricevuta a chi la aveva erogata. L’obbligo di restituzione non può essere contestuale all’erogazione, perché nei contratti di credito la distantia temporis è elemento costitutivo dell’operazione. L’arco dell’usura sopravvenuta viene a comprendere, dunque, (anche) l’obbligazione di restituzione: che è quanto costituisce il principale impegno economico del debitore, soggetto propriamente protetto dalla normativa di repressione dell’usura.

Eliminata la sanzione (penale e) civile «inasprita», rimane – come è scontato – la sanzione civile normale. Se la normativa dettata nell’art. 644 cp è imperativa, tutti i patti di deroga e tutti i patti la cui applicazione comporti violazione della medesima, invero, risultano nulli ai sensi dell’art. 1418, comma 2, cc[19].

È chiaro che, così facendo, il sistema vigente viene a configurare un diversità di trattamento sanzionatorio in relazione all’erogazione delle somme (che è usura originaria) e l’usura relativa invece all’obbligazione di restituzione delle somme erogate (che è sopravvenuta). Si è peraltro già accennato sopra (n. 1.2., in fine) che tale differente trattamento può trovare agevole giustificazione nella maggior gravità della prima ipotesi, posto che in questo caso il soggetto che concede credito è a conoscenza – o con un poco di diligenza è in grado di venire a conoscenza – del carattere usurario dell’operazione che sta ponendo in essere.

4. (segue): percorsi complementari e alternativi

4.1. Quello appena tracciato, imperniato sull’interpretazione sistematica e coordinata della norme che compongono il sistema usura, non è, per la verità, l’unico percorso (utilizzato e) utilizzabile per riconoscere la permanente rilevanza – per il diritto civile, in via essenziale – dell’usura sopravvenuta, pur nella contemporanea vigenza della norma speciale di cui alla legge n. 24/2001. Altri ve ne sono; e, tra questi, taluni pure importanti. Percorsi che non risultano esplorati, peraltro, nell’ambito del dibattito che attualmente occupa la Cassazione (come tratteggiato sopra, nel n. 2).

Di questi percorsi sembra qui di seguito opportuno dare pur breve conto, se non altro per dare al discorso una maggiore compiutezza di informazione.

4.2. Una prima idea, che trova piuttosto credito in letteratura, si richiama alla clausola generale della buona fede oggettiva ex art. 1375 cc. Questa idea – è bene subito chiarire – non vive rapporti particolari con il tema del peso e significato da attribuire alla norma dell’art. 1 della legge n. 24/2001, solo predicando che quest’ultima non assegni un valore addirittura positivo al fenomeno dell’usura sopravvenuta (cosa che, per vero, andrebbe oltre la linea del colmo).

In effetti, la clausola di buona fede oggettiva può essere assunta in termini di contenitore di ricevimento e accoglienza dell’usura sopravvenuta, quale fenomeno (in ipotesi) espunto dalla protezione data dalla normativa propriamente usuraria. Ma può anche essere assunta come strumento che si pone a fianco di questa normativa, come momento di conferma sistemica della rilevanza della usura sopravvenuta e dell’esigenza di contrastarla sul piano civilistico. In sostanza, la buona fede può essere intesa come istituto in grado di giustificare e reggere da sola la rilevanza nell’ordinamento dell’usura sopravvenuta; ma può anche essere assunta come strumento di complemento (e integrazione dal punto di vista disciplinare) di altri strumenti già presenti e orientati alla repressione del fenomeno (com’è quello fondato sulla vigente norma dell’art. 644 cp).

Dal punto di vista dei contenuti, poi, questa idea può seguire linee distinte (anche se non necessariamente alternative) di specificazione.

Alcune linee possono essere considerate diversa manifestazione di un approccio articolato in relazione allo svolgimento del mercato. Si può dire, così, che non può apparire corretto il comportamento di chi pretende il pagamento di una somma a titolo di interessi da chi, per legge, in quel momento non potrebbe promettere quella stessa somma. Ma si può anche dire, girando un poco la prospettiva, che non è conforme a buona fede che il denaro frutti a un creditore molto di più di quanto venga a fruttare ai (altri) creditori del momento. Se la prima indicazione guarda al mercato dal punto di vista della domanda, la seconda fa riferimento alla prospettiva dell’offerta. In ogni caso, in tal modo il discorso tende a incanalarsi nell’alveo della parità di trattamento e delle situazioni che senza adeguata giustificazione vengono a infrangerl[20]: che, come è noto, nel nostro ordinamento (anche) vivente, rappresenta un punto elettivo, primario, della rilevanza del canone della buona fede oggettiva.

Secondo un approccio decisamente diverso, l’usura sopravvenuta realizza una sproporzione eccessiva all’interno del rapporto contrattuale, in punto di equilibrio economico tra quanto un contraente viene a prendere e quanto risulta dare. In questa prospettiva, la buona fede si avvicina molto, com’è evidente, alla tematica propria dell’equità e viene a battere sentieri meno conosciuti per il diritto vivente italiano.

4.3. Un’altra eventualità, pure ventilata in letteratura, è quella di considerare la normativa di cui alla legge n. 24/2001 come intesa a risolvere unicamente un problema di diritto intertemporale. Per dirimere in via retroattiva, cioè, lo specifico (e limitato) dibattito relativo all’eventuale applicazione della nuova legge ai contratti già in essere. Con conseguente portata precettiva chiusa sulla risoluzione di tale problema.

Questa idea corrisponde, in effetti, a quella che è stata l’intenzione storica del legislatore dell’epoca. La stessa – se per la verità non riceve conforti particolari sul piano della lettera della norma – trova però riscontro nel complessivo tessuto disciplinare proposto dalla legge: secondo quanto è reso evidente dal tenore del comma 2 dello stesso art. 1 (che fa appunto riferimento espresso a un’«eccezionale caduta dei tassi di interesse verificatasi ne biennio 1998-1999»).

Per completare il profilo in esame: (quanto meno) in linea teorica, un’idea di questo genere potrebbe essere assunta come profilo argomentativo alternativo a quello fornito dall’interpretazione sistematica e coordinata del complesso normativo dell’usura (cfr. sopra, n. 3), ma potrebbe anche come profilo aggiuntivo e integrativo di quello (e perciò portante al risultato che la legge retroattiva va a riferirsi unicamente al momento sanzionatorio relativo ai contratti pendenti che – dopo l’entrata in vigore della legge n. 108/1996 – si trovano a superare il tasso soglia, secondo una linea per la verità non priva di giustificazioni).

4.4. Va infine ricordata, in proposito, l’idea che si trova enunciata nelle Istruzioni, che la Banca d’Italia ha emanato per la rilevazione trimestrale dei tassi e di cui già si è fatto cenno più sopra (nel n. 2.1., testo e nota 8). In sostanza (e semplificando), questa idea taglia in due la categoria dei contratti di credito, ammettendo la rilevanza dell’usura sopravvenuta per quelli a utilizzo rotativo e negandola invece per le ipotesi grosso modo riconducibili al ceppo del mutuo.

Presumibilmente, l’opinione – che si pone in termini senz’altro alternativi rispetto a tutte le altre esposte in precedenza – si collega alla circostanza che il testo della legge n. 24/2001 fa più volte riferimento al contratto di «mutuo» (ovvero alle varianti – più o meno lessicali – di «finanziamento» e di «prestito»). Si tratta, peraltro, di un collegamento alquanto lasco: sia perché non compare nel testo del comma 1 dell’art. 1; sia pure (e ancor più, volendo) perché il diretto riferimento letterale alla (sola) operazione di mutuo – che anche sul piano legislativo è tradizionale (cfr. la norma dell’art. 1815 c.c.) – non ha impedito, sul piano del diritto civile, che il fenomeno dell’usura venisse assunto e considerato come fenomeno propriamente inerente alla categoria dei contratti di credito in quanto tali. D’altro canto, neppure è chiara la ragione giustificativa della diversità di trattamento che l’opinione in discorso propone.

In materia resta da aggiungere ancora una chiosa. Qualunque cosa si pensi dell’orientamento adesso in esame, comunque si deve rilevare che lo stesso è l’unico che, allo stato attuale almeno, comporta l’allineamento sub specie tra il tasso espresso dai decreti ministeriali (il Tegm, cioè) e quello assunto come rilevante per la verifica di eventuale usurari età dei singoli e concreti rapporti di credito. Ogni altro criterio – compreso naturalmente quello che intenderebbe negare ogni cittadinanza all’usura sopravvenuta – per difetto o per eccesso comporta l’aprirsi di uno scollamento tra i due termini di questo confronto.

5. Interessi moratori e usura sopravvenuta

5.1. Secondo un tradizionale, e piuttosto folto, orientamento della Corte di cassazione anche gli interessi moratori sono da annoverare tra le voci economiche rilevanti al fine di riscontrare l’eventuale usurarietà dei contratti di credito posti in essere dall’autonomia privata. Non tutta la letteratura, peraltro, è di questa opinione (basta qui ricordare la «posizione di principio» dichiarata dalla Banca d’Italia, su cui peraltro si tornerà tra poco, e l’orientamento negativo assunto dal Collegio di coordinamento dell’Abf). Il tema, per la verità, risulta particolarmente discusso – anche a livello operativo – in questi ultimi anni. Tra i più discussi, meglio: e non solo facendo rifermento all’arco dei problemi posti dall’usura.

Quanto alla linea assunta dalla Cassazione può in sintesi ricordarsi che – stando ai brevi passi motivazionali di solito svolti – la scelta della rilevanza si trova legata, oltre al peso della stessa sua tradizione, alla lettera dell’art. 1 della legge n. 24/2001 (dove si discorre di «interessi dovuti a qualunque titolo») e a uno snello passo della pure già citata sentenza della Corte costituzionale n. 29 del 2002.

Come si vede, e al di là di ogni altro rilievo, la prospettiva assunta dalla Cassazione taglia completamente fuori il tema dei moratori dal tavolo dell’usura sopravvenuta. Quest’ultima invece si pone, a mio giudizio, come punto centrale di riferimento della problematica relativa e pure come angolo in grado di offrire una conveniente soluzione alle spigolosità, che risultano proprie del medesimo.

5.2. Per la verità, la collocazione degli interessi moratori all’interno dell’ambito tematico dell’usura sopravvenuta non è cosa consueta per l’intero diritto italiano vivente. Di solito, la letteratura preferisce seguire traiettorie diverse. Spesso, così, si considera il patto sui moratori in quanto tale: con riferimento fermato, precisamente, sul momento della stipula del contratto. Oppure si volge senz’altro il discorso verso una considerazione isolata del patto moratorio, a sé stante, come tale senz’altro destinato ad approdare all’applicazione della regola scritta nella norma dell’art. 1384 cc.

Nessuna di queste due prospettive alternative, tuttavia, può riuscire a convincere.

In particolare, quella della considerazione solo isolata – atomistica – degli interessi moratori viene, in realtà, a saltare a priori la problematica propria dell’usura. Non si vedono ragioni, in effetti, per escludere questi dal conto usurario. Al di là dei pur rilevanti argomenti spesi dalle sentenze della Cassazione (cfr. appena sopra), a convincere della rilevanza usuraria degli interessi moratori sta soprattutto la constatazione che la versione vigente della norma dell’art. 644 cp intende punire il fatto del «vantaggio usurario», così come eventuale frutto complessivo di un contratto di credito.

Non varrebbe opporre al riguardo – come più volte è stato effettivamente opposto – che gli interessi moratori hanno funzione propriamente risarcitoria, sì che gli stessi sono neutri sotto il profilo del carico economico. Una simile obiezione potrebbe valere, per dire, per il tasso legale di cui all’art. 1284, cc: certo non oltre. Chi discorre di neutralità dimentica la nozione istituzionale per cui le clausole moratorie (dunque, gli interessi moratori di tasso ultralegale) non hanno solo una funzione risarcitoria, ma pure una funzione afflittiva (nel senso della dissuasione preventiva dall’inadempimento), che dell’altra non è meno importante o istituzionale: le clausole dei moratori stanno al centro, cioè, della nota figura delle cd. pene private. Del resto, basta leggere la norma dell’art. 1224, cc per constatarlo. Lo stesso piano della operatività conferma pienamente, del resto, la funzione prevalentemente afflittiva che, nei fatti, risulta propria degli interessi moratori[21].

5.3. Respingere la tesi dell’irrilevanza dei moratori non comporta di necessità, però, ritenere che gli stessi contino anche in assenza di inadempimenti del debitore. Un conto che gli stessi rilevino; un conto diverso è l’individuazione dei presupposti al verificarsi dei quali gli stessi vengono in concreto a rilevare.

Il discorso torna, in questo modo, all’altro modo corrente di considerare gli interessi moratori ai fini dell’usura, cui si accennava poco fa (n. 5.2., all’inizio): quello, per l’appunto, di assumere la linea del patto in quanto tale.

Ora, una simile prospettiva pecca senz’altro per eccesso (si veda già sopra, del resto, il n. 1): al punto di potere addirittura condurre alla conclusione – non a caso sostenuta in letteratura – che ai fini dell’usura i moratori contano in somma cogli interessi compensativi. Affermazione che, di per sé, si manifesta decisamente aberrante.

Al fondo perché essa prende in considerazione solo uno dei dati rilevanti della fattispecie, trascurando l’altro. Il patto sugli interessi è comunque funzionale all’applicazione degli stessi (cfr. sopra, n. 1). Che nel caso degli interessi compensativi è prevista come spostata via via nel tempo. Che per il caso dei moratori è non solo futura, ma altresì prevista nei termini di un’applicazione meramente eventuale.

Ecco perché gli interessi moratori appartengono senz’altro alla figura dell’usura sopravvenuta. Al pari di tante altre voci economiche inerenti ai contratti di credito, essi sono degli oneri eventuali[22]. Non appartengono alla fisiologia del rapporto, ma alla sua patologia. Suppongono un inadempimento del debitore. Ancora una volta la constatazione, che la distantia temporis è elemento costitutivo del contratti di credito, si manifesta decisiva: in questi contratti l’inadempimento non può essere contestuale alla stipulazione del patto.

In assenza di inadempimenti, in definitiva, la clausola degli interessi moratori è destinata a non entrare affatto in applicazione. Come tutti gli altri oneri eventuali, i moratori vengono a fare parte del conto relativo al carico complessivo dell’operazione economica per il debitore se e quando l’evento (un inadempimento, cioè) si verifica.

5.4. Ancora due notazioni in materia. Si è detto sopra come l’incasellamento degli interessi moratori nell’ambito della figura dell’usura sopravvenuta consenta di predicare una soluzione conveniente del problema.

In effetti, il detto inserimento consente di evitare un inconveniente gravissimo, che per forza seguirebbe all’applicazione della struttura rimediale della cd. «gratuità» di cui all’art. 1815, comma 2, cc. Un conto è proteggere il lato della domanda di credito; un altro conto è premiare l’inadempimento. Ma il percorso svolto nelle pagine precedenti assicura che l’usura sopravvenuta resta estranea, nel diritto vigente, all’applicazione di questa drastica struttura rimediale. La nullità che segue alla rilevazione dell’usurarietà sopravvenuta è capace di un intervento più misurato[23].

L’altra osservazione attiene a un riscontro di carattere sostanzialmente operativo. La Banca d’Italia esclude espressamente dal conto delle voci economiche che le banche devono segnalarle ogni trimestre il tasso moratorio. Solo come «posizione di principio», però: i decreti ministeriali di enunciazione del Tegm, in effetti, da qualche anno contengono anche un’indicazione standard di tasso moratorio medio.

A guardare la sostanza ultima delle cose si tratta, infine, della previsione di un tasso medio disaggregato: in quanto tale disponibile a essere applicato quando ce ne è bisogno e in relazione alla struttura elementare – non certo esclusiva, tuttavia – del tasso moratorio nella prassi (tasso compensativo aumentato di apposita percentuale). Ora, la confezione di questo tasso, che è stata in concreto fatta dalla Banca d’Italia, è stata giustamente criticata per la sua estraneità ai principi della legge sulla usura, come pure per la sua inattendibilità nei confronti della realtà. Mi pare, peraltro, che un simile problema attenga più alla dimensione «amministrativa» della materia, che a quella di ordine propriamente giudiziale.

6. Usura sopravvenuta e struttura rimediale di sostituzione

6.1. L’acquisita consapevolezza che la norma dell’art. 1 della legge n. 24/2001 esclude l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 644 cp e all’art. 1815, comma 2, cc al fenomeno dell’usura sopravvenuta, in quanto non proporzionate per tale fenomeno[24], ma non incide sulla rilevanza usuraria della relativa fattispecie, implica all’evidenza che il discorso non può arrestarsi alla constatazione della nullità (o «inefficacia sopravenuta»)[25] della relativa clausola.

Si tratta dunque di individuare quale sia il regime economico sostitutivo di quello usurario, che per l’appunto risulta eliminato per legge[26]. Che è grave problema grave e non ancora affrontato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione. Grave anche nel senso che le alternative disponibili per la soluzione del quesito rispondono a filosofie non poco differenti tra loro.

Quella di riportare il carico al limite massimo della soglia consentita, che è accolta dall’orientamento maggioritario, si inspira senz’altro all’idea di conservare – o recuperare – quanto più possibile la volontà storica dei contraenti. Quella di riportare il carico economico al tasso globale medio relativo all’operazione persegue invece la strada del rimedio equitativo. Quella di utilizzare in via di analogia i meccanismi sostitutivi stabiliti dall’art. 117, comma 7, Tub per i contratti bancari privi della necessaria forma scritta, poi, viene a presentare tracce di tipo sanzionatorio (cfr., in via segnata, l’ultimo periodo della lett. b. dell’art. 117).

6.2. Dico subito che, a mio avviso, la soluzione corretta si orienta diretta verso il ceppo delle soluzioni di ordine equitativo. Sia perché essa risponde al principio sistematico della materia, come al fondo manifestato dalla regola dell’art. 1384 cc. Sia perché si tratta scelta coerente con il canone fondamentale della buona fede oggettiva (v. sopra, n. 4.2.).

Cosa che non può dirsi, invece, per l’opzione che richiama la struttura delineata dal comma 7 dell’art. 117 Tub, posto che il profilo sanzionatorio, che la attraversa, la rende propriamente estranea ai profili contenutistici di tale canone (per l’appunto privo di qualunque connotazione punitiva).

E nemmeno potrebbe dirsi, per la verità, per l’idea maggioritaria secondo cui il carico economico andrebbe ridotto entro il limite della misura massima consentita. Questa enfatizza tantissimo la volontà storica delle parti, mentre la buona fede è, all’opposto, canone per eccellenza eteronomo. E pure perché coerente con il criterio della buona fede è un carico economico che si attesti sulla linea di normalità del mercato. Sul medio corrente, insomma: non certo verso le zone di confine estremo di quest’ultimo, là dove il discrimine tra l’«esoso» e il «tollerato» viene a confondersi. Ciò posto, anche per meglio avvalorare la soluzione equitativa, qui accolta, non sembra peraltro inopportuno passare a un esame critico (più) ravvicinato di quest’ultima, maggioritaria tesi.

6.3. Sul piano strutturale è da notare, in specie, l’assenza di una norma positiva che venga a consentire, e a tratteggiare, il transito della decisione di autonomia dal livello vietato (che è quello proprio del contratto preso in considerazione) a quello del limite ammesso. A confrontarsi con lo schema degli artt. 1339 e 1419 comma 2 cc, subito emerge in particolare la mancanza – nel caso che qui interessa – di una norma che possa fare da ponte: che provveda, insomma, alla «sostituzione di diritto» della decisione usuraria. Come pur sarebbe, all’evidenza, necessario.

Nemmeno appare possibile recuperare, in fattispecie, una volontà ipotetica sostitutiva dei contraenti: tale da potere far ipotizzare un fenomeno grosso modo assimilabile al taglio della conversione. Al di là di ogni osservazione relativa alla posizione di debitore – per definizione imbarazzante, dato che è la posizione di chi sta subendo l’usura –, sta in fatto che una simile volontà ipotetica manca proprio nel creditore, che dell’usura si avvantaggia. Il creditore sa – se è professionista del credito, comunque non può non sapere – che il rapporto è venuto, in un certo momento, a oltrepassare la soglia vietata: se non interviene spontaneamente in funzione rimediale, significa che intende (provare a) lasciare le cose come stanno.

Ciò che viene a introdurre un ulteriore, ma non meno decisivo, rilevo critico nei confronti della tesi in esame. Un conto è il comportamento dell’intermediario che – preso atto del superamento della soglia – ferma subito, sua sponte la propria pretesa sul limite massimo del consentito[27]. Un altro conto è il comportamento dell’intermediario che, sopravvenuta tale circostanza, si mostra indifferente e mantiene inalterata la propria richiesta davanti al cliente. Un simile comportamento non sfugge – se si intende chiamare le cose con il loro nome – alla qualifica di opportunista. E come tale va trattato. E non v’è davvero dubbio che – sul piano funzionale – portare la struttura rimediale del contratto colpito da usura sopravvenuta al limite consentito dalla soglia significa, oggettivamente, rendere per l’intermediario inutile (e inopportuno, anzi, sotto il profilo dell’agire d’impresa) la scelta di tenere un comportamento virtuoso nei confronti del contratto medesimo. Per quello che rischia...

Adottare la struttura rimediale del massimo consentito significa, nella sostanza ultima delle cose, incentivare l’opportunismo del creditore che dell’usura viene ad avvantaggiarsi.

6.4. Nel contesto della soluzione di taglio equitativo si collocano due distinti corni alternativi. Uno fa riferimento al Tegm e si sostanzia nel portare il carico economico dell’operazione colpita da usura al tasso medio corrente trimestre per trimestre: l’idea si riporta, in buona sostanza, all’indice di mercato che risulta selezionato dalla rilevazioni trimestrali predisposte dalla Banca d’Italia.

L’altro corno dell’alternativa è rappresentato, naturalmente, dalla secca applicazione del tasso legale corrente: e quindi, nell’oggi, dal «rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore ai 12 mesi», tenuto pure «conto del tasso di inflazione registrato nell’anno» (art. 1284, comma 1, cc).

Ora, quella di cui all’applicazione del Tegm può sembrare preferibile, specie perché considerabile, a guardare la sostanza delle cose, come soluzione evolutiva – o se si preferisce aggiornata – di quella del tasso legale: in quanto criterio (sopravvenuto con la legge n. 108/1996) che nell’attuale viene a esprimere quell’idea di normalità che appare insita nel concetto di determinazione equitativa. Il tasso legale espresso dalla norma dell’art. 1284 cc appare, per contro, misura nei tempi attuali un po’ ai margini della realtà delle cose; se non forse per certi versi tendente ad avvicinarsi (sotto il profilo della sostanza economica) a quella delineata dalla norma dell’art. 117, comma 7, Tub, e così a porsi ai margini, in fondo, pure del rimedio di tipo equitativo. Tra i due criteri sembra, in definitiva, più realistico il mercato del credito rappresentato dal primo, che quello raffigurato dal secondo; pienamente centrato sotto il profilo equitativo, si manifesta, in via correlata, il criterio organizzato intorno alla linea del Tegm.

[1] Legge 28 gennaio 2001, n. 24 di conversione del dl. 29 dicembre 2000, n. 394.

[2] L’alternativa di assumere come rilevante il tasso più elevato si pone, in effetti, come pretesa comunque ultronea e fuori misura: perché riferita a un mero possibile e perché – quand’anche il futuro si risolvesse poi nel confermare il presente – si tratterebbe comunque di un’indebita anticipazione del medesimo (è per «quel» tempo, non già per l’attuale, cioè, che si pretende «quel» tasso).

[3] Ma si potrebbe anche dire, con espressione più lata, dei contratti in cui l’esecuzione di una prestazione, quella pecuniaria, si avvantaggia in tutto o in parte di un differimento temporale, che venga concesso verso apposito corrispettivo.

[4] Oltretutto, l’assunto della rilevanza usuraria del mero patto viene a porre dei problemi non sormontabili con riferimento all’articolazione attuale della prassi. Si pensi anche solo alla dinamica concretamente formativa della commissione di istruttoria veloce di cui all’art. 117-bis Tub.

[5] Essendo allora sufficiente, per dire, stabilire un tasso bandiera con applicazione di poche settimane, se non di qualche giorno.

Per il rilievo che «circoscrivere la rilevanza e l’applicabilità della ... disciplina del fenomeno usurario al momento costitutivo dei rapporti ... di credito significa contraddire e vanificare gli scopi della legge stessa» v., così, Ferroni, in Rass. dir. civ., 1999, pp. 511 ss.

[6] Ovvero, e comunque, l’esecuzione di quelli che prevedono il differimento dell’esigibilità della prestazione pecuniaria (cfr. già sopra, nota 3).

[7] Nulla vieta, così, che il creditore – constatando in apertura di trimestre il superamento del tasso soglia (sul punto si tornerà ancora, nel n. 6.3.) – rinunci spontaneamente a esigere il supero del consentito: l’eventuale rifiuto del debitore di profittarne ex art. 1236 cc, in effetti, non potrebbe non integrare gli estremi dell’abuso del diritto (in quanto comportamento strumentalmente diretto a fare poi valere la usurarietà del rapporto).

[8] Cfr. Istruzioni della Banca d’Italia, agosto 2009, punto C2, base di calcolo dei dati da segnalare: «per le operazioni ... (di apertura di credito in c/c, finanziamenti per anticipi su crediti e documenti e sconto di portafoglio commerciale, factoring e credito revolving) [devono essere segnalati] tutti i rapporti di finanziamento intrattenuti nel trimestre di riferimento (ancorché estinti nel corso del trimestre)»; «per le altre categorie di operazioni, esclusivamente i nuovi rapporti di finanziamento accesi nel periodo di riferimento. Devono inoltre essere segnalati, nelle rispettive categorie, tutti i rapporti per i quali, nel trimestre, risulta variata una condizione contrattuale relativa a durata, importo erogato e tasso di interesse, i cui termini non siano già previsti nel contratto originario».

Cfr., in proposito, anche la Circolare dell’Autorità, 3 luglio 2013 e la Comunicazione 29 maggio 2013, in IlCaso.it.

[9] Sul rapporto tra usura e la materia in genere dei «costi da inadempimento» cfr. il mio Rilevanza usuraria dell’anatocismo, in diritto bancario.it, 2015 (ma, per il punto specifico dei moratori, v. pure i cenni fermati nel prossimo n. 5). Quanto alla problematica della struttura rimediale v. nel n. 6. Sul tema della riconducibilità dei vari casi prestati dalla prassi al campo dell’usura originaria o invece dell’usura sopravvenuta, per degli spunti v. ad esempio Usura sopravvenuta per modifiche regolamentari della Banca d’Italia (quando non originaria), in diritto bancario.it, nonché Sugli effetti civilistici dell’usura sopravvenuta, in IlCaso.it.

[10] Cass. Sezioni Unite n. 24675 depositata il 19 ottobre 2017 (n.d.r.).

[11] E quindi facendo generico riferimento al complesso degli oneri applicati al rapporto dopo il primo trimestre (sopra, n. 2.1.): prima di procedere alla divisione tra quanto tecnicamente va letto e catalogato come usura sopravvenuta e quanto invece si riconnette alla figura dell’usura originaria.

[12] Come sottolinea assai bene, ad esempio, la sentenza di Cass., 19 marzo 2007, n, 6514.

[13] Esclusione che, peraltro, costituisce una caratteristica costante del fenomeno, che assume a rilievo solo la frazione temporale nel concreto interessata.

[14] La applicazione dei moratori è istituzionalmente sopravvenuta, perché un inadempimento del debitore nei contratti di credito non può essere contestuale alla conclusione del contratto: lo esclude la necessaria distantia temporis tra erogazione e restituzione del denaro che conforma la struttura di tali operazioni.

[15] La sentenza della Corte pure tra l’altro rileva: «restano evidentemente estranei all’ambito di applicazione della norma impugnata gli ulteriori istituti e strumenti di tutela del mutuatario, secondo la generale disciplina codicistica dei rapporti contrattuali».

Nell’interpretare questo passaggio della sentenza, il Collegio di Coordinamento Abf, 10 gennaio 2014, n. 77, ha osservato: «si deve assumere che la norma [dell’art. 1 legge 24/2001] è conforme alla Costituzione nei limiti in cui non pregiudichi l’esperibilità di altri rimedi civilistici posti a tutela della posizione del mutuatario, diversi dalla nullità di cui all’art. 1815, comma 2, cc.».

[16] Oltre al presupposto di base – rimasto implicito nel pensiero della Corte, ma non per questo meno evidente – per cui la norma dell’art. 1 della legge n. 108/1996 (i.e.: l’art. 644 cp) esprime una regola di sistema, mentre l’art. 1 della legge n. 24/20012 contiene per contro una disposizione di mero completamento disciplinare, così ponendosi alla periferia del sistema.

[17] Ché, altrimenti, una distinta precisione del divieto di «farsi dare» dei vantaggi usurari sarebbe del tutto inutile.

[18] Per i contratti che importano un differimento oneroso della prestazione pecuniaria v. comunque sopra, note 3 e 6.

[19] Cfr. il mio Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Zanichelli, Bologna, 2013, p. 166: «la soluzione qui accolta, per cui rileva (anche) il tempo della maturazione degli interessi (ovvero di esigibilità della prestazione) non viene a predicare nessuna specie di invalidità o di altro vizio sopravvenuti. L’ottica è decisamente diversa: rispetto ai periodi futuri, la clausola non è – nel momento della stipula – né valida, né invalida: è solo in attesa di produrre i suoi effetti ex art. 1374 cc. La questione è solo rimessa al tempo opportuno».

[20] Per la constatazione che il riferimento alla sola stipulazione del patto usuario vale a determinare clamorose disparità di trattamento v. già Oppo, Lo «squilibrio» contrattuale tra diritto civile e diritto penale, in Riv. dir. civ., 1999, I, p. 536. In effetti, preoccuparsi dell’usurarietà del solo patto significa, in buona sostanza, occuparsi esclusivamente di un frammento, e modesto, dell’arco fenomenico che è da riconoscere proprio dell’usura.

[21] Nemmeno merita credito l’osservazione per cui la mancata inclusione degli interessi moratori nel conteggio dell’usura è opzione che vale a tenere basso il livello dei tassi. In realtà, la previsione dei moratori c’è comunque nella prassi, non meno che la loro applicazione. Non pare verosimile, d’altra parte, che – ove il Tegm contasse pure i moratori – la prassi bancaria si orienterebbe nel senso di azzerare, o quasi, la misura convenzionale di tali interessi. Piuttosto, il tenerli fuori dai conti dell’usura, per sé tende ad innalzare la misura richiesta per gli stessi (al di là, ovviamente, di ogni utilizzabilità del rimedio di cui all’art. 1384 cc, che è rimedio di modesta dissuasione preventiva in ragione della sua specifica conformazione; cfr. pure nella prossima nota 22). L’osservazione esaminata si risolve, in ultima analisi, nell’avviso che, se si chiudono gli occhi, la realtà scompare.

[22] Per un (primo) campionario dei quali v. il già citato Rilevanza usuraria dell’anatocismo.

[23] Cfr. infra, nel n. 6. Ivi, si viene a predicare una soluzione (per l’usura sopravvenuta in genere) di ordine equitativo che (non ricalca, e tuttavia) prende spunto e ispirazione dal rimedio disposto nella norma dell’art. 1384 cc per il caso della penale eccessiva, bensì espressivo di una regola – equitativa, appunto – di assai più vasta vocazione. Non è forse inutile segnalare (specie in ragione delle considerazioni che sono state svolte nell’ambito del n. 5.2.), allora, che – mentre la considerazione della norma dell’art. 1384 si ferma sull’applicazione in quanto della clausola di cui alla penale – la prospettiva dell’usura tiene conto di tutto quanto si trova per uno o per altro verso applicato nel periodo, senza distinzioni (tutti i «costi da inadempimento» ricompresi). Del resto, il presupposto di applicazione dell’usura sopravvenuta, come pure la conformazione specifica della sua struttura rimediale (cfr. nel n. 6), risulta di tratto per così dire meccanico (facendo comunque sponda sul Tegm); per contro il rimedio specificamente disegnato nell’art. 1384 si affida, per entrambi questi lati, alla discrezionalità del giudice.

[24] In realtà, la sanzione punitiva di cui all’attuale norma dell’art. 1815, comma 2, cc (appunto, una conversione ex lege che porta alla gratuità del patto) appare – specie nel contesto complessivo del sistema vigente – struttura rimediale in sé stessa discutibile (anche per l’usura originaria, cioè); e costituisce, anzi, uno dei principali aspetti che andrebbero modificati in sede di revisione legislativa della normativa antiusura (su questi punti v. anche il mio Trasparenza, cit. pp. 166 ss.).

L’eliminazione della previsione sanzionatoria in discorso (a favore di strutture rimediali comunque improntate al segno dell’equità) consentirebbe, tra l’altro, di fermare alla sola materia penale la discussione – che tanto è stata agitata – sull’opportunità o meno di venire a distinguere, nel revisionare la detta legge, la cd. «usura bancaria» dal fenomeno della cd. «usura di strada» (ma gli operatori bancari che ricevono – per il pagamento del debito bancario – danari presi a prestito da uno strozzino sarebbero partecipi del reato di «usura di strada»?).

[25] Cfr. sopra, la nota 18.

[26] La nullità del patto usurario – anche sopravvenuto – raffigura, come è noto, una ipotesi clinica, paradigmatica si potrebbe pure dire, di nullità di protezione. Ne segue, tra l’altro, che resta esclusa ogni eventuale possibilità di propagazione dell’invalidità dal patto al contratto.

[27] Sì che, in sostanza, lo stesso creditore viene a bloccare la propria pretesa di applicazione del tasso usurario.

Sul tema v. già sopra, nel n.1.2., testo e nota 7. Per questa ipotesi, così come per quella costituita dalla predisposizione contrattuale di una clausola di salvaguardia, non mi pare vi siano ragioni per portare il peso dell’onere economico al di sotto del massimo consentito all’autonomia.