Cosa si aspettano i giudici di merito dalla Cassazione:
i “precedenti” e il controllo della motivazione
Lo scritto sottolinea la circolarità tra norma e fatto, la strategia di risultato, più che di costruzione logica o dogmatica, cui obbediscono le sentenze, l’importanza dei precedenti quali elementi costitutivi della conoscenza della norma. Rivolge quindi, dal punto di vista del giudice di appello, due richieste alla Corte di cassazione: formulare le massime non trascurando la fattispecie concreta; prendere atto che il legislatore non richiede più la redazione delle sentenze secondo il metodo formalistico-cognitivo, ma tiene a verificare la validità del procedimento decisionale e della volizione del giudice, non la completezza-logicità della sua attività conoscitiva.
Non amo le premesse, almeno quando c'è poco tempo. Fate dunque conto che abbia espresso la più viva ammirazione ai magistrati della Suprema corte: dico anzi subito che un obiettivo di questa relazione è quello di dimostrare scientificamente la decisiva rilevanza del loro lavoro e dunque di spaventarli quanto basta.
Qualche minuto, però, come d'accordo con i coordinatori, serve per “sistemare” a livello di teoria generale i temi che tratto – cioè, il ruolo dei precedenti e l'interpretazione delle sentenze: non si tratta di premesse, ma di un contenuto essenziale per la nostra riflessione, che avrà ricadute pratiche. Tanto per incuriosirvi, voglio esagerare: vi dimostrerò che il legislatore italiano ha aderito alla filosofia ermeneutica e che dunque anche noi dobbiamo, per legge, sposarla. Rassicurerò i giudici di merito, ché la motivazione delle sentenze non serve più, e convincerò quelli di legittimità a non cercarla neppure.
Ha ormai quasi cinquant'anni la scoperta da parte dei giuristi[1] al seguito della filosofia ermeneutica[2] la scoperta, dicevo, del movimento circolare all'interno dell'attività interpretativa, di un circolo ermeneutico, cioè, che si muove anzitutto tra la norma e il fatto. Ormai siamo consapevoli che senza avere cognizione del fatto concreto non si può giungere alla sua qualificazione giuridica, ma che, d'altra parte, per la stessa lettura del fatto nella sua “materialità” occorre sapere quali siano i suoi caratteri eventualmente rilevanti per il diritto, conoscere, quindi, le fattispecie normative che possano applicarsi al fatto. Il fatto viene interrogato in base alla norma e la norma tuttavia si comprende, nel suo stesso significato, solo in base al fatto.
Nell'interpretazione giuridica non c'è prima il fatto e poi la norma o viceversa, né si tratta di mettere in relazione la norma e il fatto, entrambi già precedentemente compresi per proprio conto: tra le premesse maggiore e minore del famoso sillogismo c'è qualcosa di più che “un andare e venire dello sguardo”. Norma e fatto si decidono l'una in base all'altro: non si può nemmeno dire quale sia la premessa maggiore e quale la minore, data la loro dipendenza reciproca.
Questo ormai si sa, ma c'è di più: non si può neppure rappresentare l'interpretazione della norma e del fatto come “premesse” rispetto ad una “conclusione”; anche tra premesse e conclusione c'è un rapporto circolare, dal momento che anch'esse si “interrogano” a vicenda: la logica di ogni comprensione è fatta di domande e risposte.
Come si svolge, in fatto, l'attività mentale del giudice di reperimento della soluzione giuridica? Secondo la medesima struttura empirica, legata al caso (il diritto è scienza “casistica” per eccellenza), di ogni giudizio di tipo etico-pratico, che prende direttamente di mira quella che appare la soluzione ottimale e poi la verifica, giustificandola oppure rilevandone l'inadeguatezza.
Nel che si nascondono indubbiamente dei pericoli, dei quali non tratto; qui voglio solo dire che non si può negare la presenza – e sarebbe ipocrita scandalizzarsene – di un iniziale orientamento decisionale (generato da “orizzonti di attesa” che trascendono la nostra soggettività) che inevitabilmente – anche quando non ne siamo consapevoli – indirizza la struttura conoscitiva di ogni scienza pratica e quindi anche le nostre decisioni. Perciò si parla, accanto o “al di là” del circolo ermeneutico conoscitivo, di un circolo ermeneutico applicativo: l'applicazione, cioè la soluzione del caso, dipende dalle possibilità di interpretazione della norma e del fatto, ma le interpretazioni della norma e del fatto dipendono a loro volta dalla rappresentazione da parte dell'interprete della loro eventuale applicazione. Si potrebbe dire che il giudice “tasta” anticipatamente l'una o l'altra soluzione (cioè, in pratica, un ipotetico dispositivo della sentenza) e poi, per un verso, essendo un “tecnico”, valuta la legittimità dell'interpretazione della norma e del fatto che a quella soluzione conduce; per altro verso, non essendo solo uno studioso teorico ma dovendo dare un “comando pratico”, confronta quella soluzione con l'orizzonte delle attese sociali da lui percepite. L’esempio classico di un tal modo di procedere, ricorrente in qualsiasi camera di consiglio penale, è quello della determinazione dell'entità della pena: si propone una sanzione che ci appare complessivamente adeguata e solo dopo si fa in modo che, tra pena-base, aggravanti, attenuanti, si arrivi all’entità indicata; se, invece, fatti i conti con le norme, a quell’entità non si può per legge pervenire, si cambia la pena e ci si riprova...
Insomma, Signori Giudici della Cassazione, quando leggete le nostre sentenze non dimenticate questa verità: ogni sentenza è determinata più da una strategia del risultato che da una strategia della sua costruzione logica o dogmatica. Ed è inevitabile che sia così.
A monte del comprendere del giudice e quindi della sua stessa scelta della soluzione, vi sono, come vi accennavo, un'anticipazione ed un'attesa di significato determinate dalla sua precomprensione. Qui non c'è tempo per trattare dei non omogenei e non statici elementi che costituiscono la precomprensione del giudice (l'istruzione professionale, gli standards della coscienza morale, la concezione del proprio ruolo, la consolidazione dogmatica del sistema giuridico ...): basta dire che la precomprensione del giudice non si sostanzia solo di anticipazioni teoretiche, ma anche e soprattutto di anticipazioni dell'applicazione pratica, cioè di anticipazioni – per quanto “problematiche”, provvisorie ed ancora da controllare – del risultato ritenuto giuridicamente adeguato. La rappresentazione mentale di questo risultato delimita, in effetti, prima ancora di ogni questione interpretativa, l'àmbito e la direzione in cui vengono poi impiegati i canoni ermeneutici o fatti valere i precedenti giudiziali o le formule della dottrina.
In altri termini, la norma esiste, assume significato solo nella sua applicazione ed è l'applicazione che costituisce il fattore determinante, il motore della sua conoscenza. Non è esatto dire che una norma prima la si comprende e poi la si applica: la si comprende solo se ed in quanto la si applica. Di qui, tra l’altro – a livello teoretico – l'importanza decisiva dei precedenti, in quanto casi di già avvenuta applicazione della norma; essi non servono semplicemente ad “arricchire” la conoscenza della norma, ma sono elementi costitutivi della conoscenza della norma. D'altra parte, una norma senza precedenti, cioè mai applicata, non è una norma positiva, ma un enunciato prescrittivo astratto. Senza il sostegno ed il condizionamento dei precedenti, il diritto scritto non funzionerebbe. Nel lavoro del giudice, in quel territorio, molto ampio ma non privo di confini, che si spalanca tra “legge” e “decisione”, i precedenti sono allora protagonisti decisivi.
Dalla prospettiva teoretica l'affermazione, pur corretta secondo il nostro ordinamento, secondo cui i precedenti non costituiscono una fonte del diritto appare dunque una finzione o, meglio, è esatta solo nel senso che non sono una fonte vincolante.
Ora, il maggior fornitore di precedenti è la Cassazione. Maggiore non tanto in senso quantitativo (ché i precedenti ce li forniamo anche da soli o all'interno della nostra sezione attraverso i casi simili già trattati), ma certo nel senso di fornitore più autorevole. Autorevole ed accessibile. Quel che è avvenuto in questi anni mi pare straordinario: quando ho iniziato, la ricerca di un precedente della Cassazione era un'impresa anche fisicamente faticosa tra le alte spalliere delle annualità rilegate delle riviste giuridiche; oggi basta muovere un dito sulla tastiera del computer, è perfino più comodo che prendere il codice. Senza accorgercene – devo provocare il dibattito ! – stiamo diventando di fatto un sistema di common-law (mentre proprio in quei sistemi si riduce il ruolo dei precedenti e si moltiplicano le codificazioni). Più di una volta mi è capitato in camera di consiglio, attorno a un tavolo ingombro dalle stampe di massime, di insinuare: “ma il codice...?” e di far constatare che la diretta lettura di un articolo riservava sorprese chiarificatrici!
E facciamo un grande uso di massime o, per meglio dire, di citazioni di massime, il più delle volte quasi per un bisogno di rassicurazione, come per suggerire al lettore – o suggestionare noi stessi – che la soluzione indicata gode di un già affermato ed autorevole consenso (il che è una sciocchezza, perché la Cassazione quel nostro nuovo caso evidentemente non l'ha ancora esaminato). L'importante, invece, non è trovare nella rassegna di giurisprudenza un improbabile caso “identico”, ma comprendere il criterio della valutazione operata dalla Cassazione, quale indizio per verificare l'adeguatezza della nostra soluzione: non importa un risultato uguale, ma tutt'al più l'uguaglianza del criterio. Forse dobbiamo scoprire un altro significato nascosto dell'espressione “soggetti soltanto alla legge”, nel senso che la Costituzione non vuole che siamo soggetti ai precedenti!
Il fatto è che, appena muovendo quel dito, il carniere della ricerca si riempie subito, ma di fin troppe prede, non tutte pregiate, cioè non tutte precedenti “veraci” e spesso “geneticamente modificate”.
Mi spiego. È evidente che solo poche sentenze della Cassazione esprimano un principio generale di diritto in senso proprio (art. 12 preleggi), cioè una norma generale dell'ordinamento non espressa dal legislatore ma ricavabile per induzione dal coordinamento di singole disposizioni coerenti; il più delle volte le sentenze della Cassazione semplicemente indicano la corretta regola di giudizio di quel caso concreto; è questo il significato dell'espressione “principio di diritto” impiegata dall'art. 384 cpc, anche nella sua nuova formulazione. Ma la massimazione, quasi per sua natura, tende a trasformare geneticamente una regola del caso concreto in un principio di diritto espresso in termini di fallace assolutezza o in una sorta di norma di dettaglio aggiunta al dettato testuale della norma del codice. Le raccolte di giurisprudenza con le loro massime scritte nel lessico precettivo generale e astratto sembrano edizioni “maggiori” dei codici.
Ecco, allora, la mia richiesta alla Cassazione: vorrei che le massime fossero repertate per quel che normalmente sono: la corretta soluzione di un determinato caso giudiziario; vorrei che le massime di questo tipo cominciassero sempre con le parole: “nel caso in cui...” e con l'indicazione dei dati essenziali del fatto sottoposto al giudizio della Corte.
Ma forse non è “colpa” dei massimatori, che fanno un lavoro improbo (che probabilmente va quantitativamente ridotto); forse è la stessa Suprema corte che deve, per così dire, moderare la percezione di sé. Leggo, ad esempio, nel volume delle «Lezioni dei magistrati della Cassazione civile», teorizzazioni secondo cui la «regola di giudizio usata come criterio di decisione di una fattispecie concreta» quando è condivisa dalla Suprema corte «è sussunta come principio di diritto» da formulare «come le norme di legge in termini generali e astratti». Mi permetto di dissentire: così si fabbricano ogni anno migliaia di false “normettine”! Questa prassi – oltre che favorire ricorsi artificiosi – confonde le idee a noi giudici di merito, risultando quasi un invito alla pigrizia, perché il vero compito del “giudice del caso successivo” (cioè il nostro, dopo aver consultato un precedente) sarebbe proprio quello di stabilire se si tratta di un precedente o no, cioè di valutare se esso può essere utilizzato come criterio di decisione in ragione dell'analogia tra i fatti del primo e del secondo caso. Il ragionamento che conduce a servirsi di un precedente dovrebbe essere fondato sull'analisi dei fatti. E invece di solito nelle nostre sentenze che pur offrono una cascata di citazioni di massime questa analisi non c'è, sia perché spesso le enunciazioni delle massime a loro volta non includono i fatti oggetto della decisione, sia perché il cacciatore pigro vuol catturare non un criterio su cui riflettere, ma appunto una sorta di norma di dettaglio, “precisa-precisa” per il suo caso, che evidentemente il legislatore si era dimenticato di scrivere...
La seconda richiesta alla Cassazione non la faccio io, ma il legislatore, con la riforma degli artt. 132 cpc e 118 disp. att.
Che significa aver sostituito la parola «motivi» con la parola «ragioni»? Non è la stessa cosa, come ancor di recente la vostra giurisprudenza sembra ritenere; certamente esagero se dico che il legislatore italiano ha aderito alla filosofia ermeneutica, ma è altrettanto certo che abbia abiurato al modello di sentenza analitico-argomentativo. Non richiede più una motivazione (breve o lunga che sia) sviluppata secondo i canoni o metodi tradizionali dell'art. 12 preleggi (pur rimasto in vigore), ma chiede al giudice di mettere in evidenza soltanto il fattore o i fattori decisionali della sua volizione specifica. La sentenza non è più valutata in quanto documento, ma come espressione di un'attività decisionale, non enunciazione logico-formale, ma decisione pratica. I due termini, «ragioni» e «decisione», evocano infatti un rigoroso rapporto di funzionalità delle une rispetto all’altra; il legislatore dice al giudice di merito: spiega solo quanto basta, ma che sia la spiegazione “vera”! Il peccato mortale è la motivazione apparente, quella che non mostra il ragionamento effettivamente sotteso al risultato/dispositivo. Dunque, «ragioni» non è qualcosa di meno di «motivi», ma qualcosa di diverso; non sto sgravando il giudice dall’argomentare, ma se mai esigendo che quello che abbiamo visto accadere nella testa del giudice si mostri all’esterno (nella teoria dell’argomentazione lo si definisce come il passaggio dalla giustificazione interna a quella esterna), come in uno “specchio” sincero, non opaco, né deformante.
Dunque, chi interpreta una sentenza civile (la Cassazione, più di ogni altro) non può, non deve farne una valutazione analitica, ma sinteticamente intenderne il decisum e la sua o le sue ragioni (se, ovviamente, è possibile intenderle...). Il giudizio sulla sentenza riguarda ora appunto la ragionevolezza della decisione (intesa come congruità del deciso rispetto alla ragione esposta) e la sua compatibilità con l'ordinamento (poi, certo, resta che per lo stesso caso si possono dare più decisioni diverse, tutte ragionevoli e compatibili, perché la giurisdizione non è una scienza esatta, un’operazione con un “unico risultato necessario”... ed è questo scarto che a volte nutre la tentazione interventista dei Supremi Giudici).
L'indicazione del legislatore ribalta quindi quell'approccio della Cassazione ancien regime, che non giustificava nessuna decisione, pur giusta e funzionale, se ogni suo passaggio non fosse stato correttamente motivato, se vi fossero “salti” logico-deduttivi, se le norme citate non fossero state correttamente interpretate. Pesava il severo ammonimento di Emilio Betti, massimo maestro italiano della teoria dell'interpretazione: «una sentenza che decide bene, ma ragiona male, non appaga il bisogno di giustizia».
Quale dovrebbe essere ora, invece, l'approccio della Cassazione che vorrei? Vorrei una Cassazione che dicesse: «intendo il senso della sentenza impugnata, colgo la ragione della decisione (sempre se ci riesco...) e ne valuto la compatibilità od incompatibilità con l'ordinamento».
Per dirla con un paradosso ancora volutamente provocatorio: se non sono più richiesti i «motivi» della sentenza, come può esserci un vizio di insufficiente motivazione? Se la motivazione – quale espressione testuale da analizzare nella sua completezza formale – non è più un requisito indispensabile della sentenza, non può essere questo l'oggetto dell'esame della Cassazione. Se il legislatore dice al giudice di merito: non motivare ogni passaggio, ma spiega quanto basta, deve cambiare anche il metro di valutazione delle sentenze di merito. Sono davvero curioso di vedere quel che succederà quando saranno impugnate le sentenze che in appello abbiamo cominciato a redigere ex art. 281 sexies: cosa pensa di trovare la Cassazione in quella paginetta di testo? Se pretendesse di applicare il canone della “completezza dei dati”, sarebbero dolori...
È appunto il metodo giuridico ermeneutico di interpretazione-valutazione delle sentenze civili quello che prescinde – diversamente dal metodo formalistico-cognitivo – dalla ricerca di un rapporto tra le singole premesse normative e le conseguenze logiche di queste premesse, che tiene a verificare la validità del procedimento decisionale, della volizione del giudice, non la completezza-logicità della sua attività conoscitiva.
È dunque possibile ed ora doveroso che il controllo da parte della Cassazione riguardi la validità-giustificazione della decisione, anche se essa non appaia adeguatamente motivata ad un'analisi cognitiva del testo. L'approccio linguistico-logico-analitico va superato.
E mi sembra che ancora non lo sia del tutto, se è vero che alla novità legislativa del 2009 la Cassazione sta rispondendo cominciando ad ammettere, con cautela, vuoti o rinvii argomentativi, ma sempre purché sia possibile «il controllo di completezza e logicità della motivazione»; comincia ad ammettere la possibilità di reciproca integrazione tra le motivazioni di primo e di secondo grado, ma continua a chiedere che «il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante». Siamo ancora a Betti?
Credo invece – e concludo con questa provocazione che potrebbe rivelarsi in concreto dirompente – che la novità legislativa, con la scomparsa del riferimento ai «motivi», possa incoraggiarci a superare quel tabù che è l'assillo di tutti i giudici d'appello: cioè quello della “omessa pronuncia su alcuni dei motivi d'appello” che tradizionalmente la Cassazione sanziona come error in procedendo per violazione dell'articolo 112 cpc. A parte che non ogni motivo d'appello integra una domanda o un'eccezione cui riferire il precetto dell’articolo 112, mi fa ben sperare questa vostra recente indicazione: «il modello di cui all'articolo 132 non richiede la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio posti a base della decisione o di quelli non ritenuti significativi ... basta che il raggiunto convincimento risulti da un riferimento logico e coerente alle prospettazioni delle parti o alle emergenze istruttorie vagliate nel loro complesso che siano state ritenute di per se sole idonee e sufficienti a giustificarlo ...».
E siccome alla schiavitù del “... con il decimo motivo si denunzia il vizio ...” sono soggetti anche i magistrati della Cassazione, posso invocare una sollevazione comune dei giudici di legittimità e di merito: Consiglieri di tutta Italia, unitevi!
[1] Tra i primi Josef Esser nel 1970, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, trad. it. Ed. Scientifiche Italiane, 1983.
[2] Verità e Metodo di H.G. Gadamer, che nella sua prima edizione è del 1960 – trad. it. Fratelli Fabbri Editori, 1972 – dovrebbe essere un libro di testo per tutti i magistrati, quali “specie” del “genere” degli interpreti.