Magistratura democratica

Introduzione
«A cosa serve la Corte di cassazione?»

di Carlo De Chiara

All’interrogativo che dà il titolo a questo obiettivo potrebbero aggiungersene altri come corollari: cosa si aspettano dalla Corte di cassazione i magistrati di merito, gli avvocati, la dottrina? È, la Corte, capace di corrispondere alle loro aspettative? E cosa si può fare per migliorare la sua funzionalità?

Per cercare delle risposte abbiamo dato voce sia a magistrati che operano nella Corte o presso la Corte, sia a giuristi portatori di punti di vista esterni alla Corte stessa, quelli della dottrina, dell’avvocatura, della magistratura di merito.

Il contributo che apre la serie degli articoli che seguono, quello di Luigi de Ruggiero, esprime il punto di vista di un giudice di appello volutamente datato (risale al 2012), per cogliere diacronicamente i tratti di continuità o discontinuità con riflessioni più recenti di altri giudici di merito, come quelle di Giulio Cataldi, per il civile, e Bruna Rizzardi, per il penale. Il lettore potrà notare, quale tratto di continuità fra i tre contributi, l’attenzione per il tema della massimazione delle sentenze di legittimità e per quello contiguo delle banche dati che la organizzano e la diffondono. Temi sui quali ulteriori approfondimenti, questa volta “dal didentro”, sono offerti dagli articoli di Camilla Di Iasi, per l’Ufficio del massimario, e di Vincenzo Di Cerbo, per il Ced.

Ma il vero filo che lega un po’ tutte le riflessioni che compongono questo obiettivo è quello della crisi della Corte di cassazione e della sua funzione di nomofilachia. Crisi che è un aspetto della più generale crisi della giustizia italiana, ma che ha tratti peculiari che meritano un approfondimento specifico, perché specifica è la funzione e la struttura della Corte.

Il nostro Paese ha scelto, storicamente, di dotarsi di una Corte suprema di sola legittimità, con il compito principale di assicurare «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge» e «l’unità del diritto oggettivo nazionale» (secondo la formula dell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario del 1941). Dunque la distinzione tra fatto e diritto (chiara in astratto, non di rado sfuggente in concreto) anima da sempre l’attività della Corte di cassazione, e la tensione tra i due poli della tutela dei diritti soggettivi e della tutela dell’ordinamento (ius litigatoris e ius constitutionis della fortunata definizione corrente) connota da sempre la problematicità del suo ruolo.

Queste caratteristiche della Cassazione sono comuni ai settori civile e penale, come conferma la lettura degli articoli di Claudio Consolo e Domenico Pulitanò, contenenti riflessioni di respiro sistematico rispettivamente per l’uno e l’altro settore. Le discussioni sull’eccesso o difetto di sindacato sul fatto o sull’eccesso o difetto di attenzione alla specificità dei singoli casi più che all’astratta regola di diritto, sono infatti trasversali e sembrano promosse da diversità di cultura o di punti di vista, più che dal settore di appartenenza dei protagonisti.

Certo, nel penale, l’attenzione al fatto è maggiore, ma le stesse regole dell’accertamento del fatto sono più sofisticate, e più rigoroso è il criterio di valutazione della prova («al di là di ogni ragionevole dubbio»), e del resto, al netto delle ovvie specificità, la tentazione – non solo nelle perorazioni degli avvocati – di trasformare quello di legittimità in un terzo grado di giudizio è nelle umane corde sia civilistiche che penalistiche.

Vero è, inoltre, che la discussione sul ruolo della Corte di cassazione e sulla conseguente ampiezza del suo sindacato sulle decisioni di merito non può svolgersi in vitro, astraendo dalla pressione della realtà storica e dai concreti problemi che questa pone con l’urgenza e la cruda oggettività dei fatti. E la realtà registra, da tempo, l’affollarsi davanti alla Corte – per una serie di fattori di varia natura, anche costituzionale – di una massa abnorme di ricorsi, con la quale occorre necessariamente misurarsi.

Anche a tale riguardo, peraltro, i settori civile e penale, come emerge dagli articoli rispettivamente di Piero Curzio e di Carlo Brusco, sono accomunati da difficoltà analoghe, con qualche tratto significativo di specificità – di carattere storico, appunto – per il settore civile (il che spiega, tra l’altro, la prevalenza numerica dei contributi che seguono dedicati a quel settore rispetto ai contributi dei penalisti).

Nel settore penale la Corte ha per tempo elaborato e realizzato efficaci strategie di contrasto del formarsi di un arretrato, grazie alle quali i ricorsi vengono definiti ampiamente entro un anno dal deposito. Ciò ha comportato il pagamento di inevitabili prezzi, ma non può negarsi la sostanziale tenuta del sistema sul piano della tempestività della risposta alla domanda individuale di giustizia.

Nel civile, invece, l’impatto di due riforme – la privatizzazione dei rapporti di pubblico impiego e l’estensione del ricorso per cassazione alle controversie tributarie – improvvidamente introdotte “a costo zero” nonostante il prevedibile enorme aumento del numero dei ricorsi che esse avrebbero determinato, ha reso oltremodo ardua l’adozione di analoghe strategie organizzative di contrasto dell’arretrato. Si sono così succeduti, nell’ultimo decennio, plurimi tentativi di soluzione del problema mediante riforme di carattere processuale, che tuttavia non hanno prodotto, almeno sinora, gli effetti sperati (anche perché concepite pur’esse “a costo zero”).

Del contenuto di tali riforme, nonché dei connessi provvedimenti organizzativi della presidenza della Corte e dei protocolli d’intesa sottoscritti con la Procura generale, il Consiglio nazionale forense e l’Avvocatura dello Stato, si legge negli articoli, non privi di accenti critici, di Claudio Consolo, Andrea Pasqualin, Piero Curzio e Piero Gaeta, redatti dai punti di vista della dottrina, dell’avvocatura e della Corte stessa. Qui preme soltanto evidenziare come il segno delle riforme in questione sia oggettivamente restrittivo dei poteri e facoltà di partecipazione dei difensori – e della Procura generale – al giudizio di cassazione (il rito camerale non partecipato è divenuto la regola davanti alle sezioni semplici), nonché dell’ambito del sindacato della Corte sulle statuizioni in fatto del giudice di merito (si è ritornati alla formulazione originaria dell’art. 360, n. 5, cpc, quella del 1942). Certamente degne di grande attenzione sono, pertanto, le riserve di chi vede in tutto ciò una regressione sul piano delle garanzie processuali, con il rischio di una involuzione dagli sviluppi imprevedibili. Nel raccogliere questo allarme, tuttavia, non può non sottolinearsi che è indispensabile, al tempo stesso, avere consapevolezza che una risposta al problema dell’abnorme arretrato, ormai stabilizzatosi sui centomila ricorsi civili, non può assolutamente essere elusa e richiede delle scelte (attente, equilibrate, ma anche) coraggiose.

È opinione sempre più largamente condivisa che il rigore della previsione costituzionale del diritto al ricorso per cassazione contro tutte le sentenze debba essere temperato. Ma al di là della prospettiva di una revisione costituzionale certamente non immediata né, allo stato, probabile, è doveroso sforzarsi di ottimizzare gli strumenti esistenti, cercare di trovare in essi anche delle opportunità, pur senza trascurarne le criticità, da assorbire, queste ultime, mediante l’adozione di adeguate prassi applicative tutte le volte che sia possibile.

Vale allora la pena di chiedersi se, ad esempio, non possa farsi in modo, grazie ad uno spoglio esperto, accurato e trasparente, che il rito camerale non partecipato sia effettivamente riservato a quei ricorsi (la grande maggioranza, come insegna l’esperienza) per i quali davvero non è richiesto alcun contributo nomofilattico, ma soltanto la doverosa risposta di giustizia alle domande individuali; e se per le motivazioni delle relative decisioni non possano adottarsi – fatto salvo l’imprescindibile studio accurato delle carte – modalità davvero scheletriche (del resto in Camera di consiglio bastano al relatore, di solito, poche battute per far comprendere al Collegio i termini delle questioni e le soluzioni proposte). Insomma, un “doppio binario” in cui sia ben chiara la distinzione che la Corte opera tra decisioni di rilievo nomofilattico – quelle emesse all’esito della pubblica udienza – e decisioni deliberatamente prive di tale rilievo. Il che gioverebbe anche alla chiarezza della giurisprudenza e attenuerebbe il “rumore” negli archivi informatici.

In questa prospettiva, forse, potrebbe anche cessare la demonizzazione, talvolta eccessiva, del vizio di motivazione quale fonte di soverchio aggravio per la Corte. Se una censura eccede i limiti di cui all’art. 360, n. 5, cpc, per motivarne l’inammissibilità basterà dire questo, al più aggiungendo pochissime parole che richiamino le categorie tipizzate dalla prassi (mancata specificazione del fatto non esaminato dal giudice di merito, carattere non decisivo dello stesso, sostanziale richiesta di rivalutazione dei dati istruttori, ecc.), senza indugiare in “riassunti” tanto laboriosi quanto inutili.

Certamente su una prospettiva di questo genere sarà necessario chiedere la “comprensione” anzitutto del Foro, affinché accetti motivazioni assai lontane dagli standard tradizionali, che andranno riservati alle sole sentenze pronunciate all’esito di pubblica udienza. È una richiesta legittima, ma anche ragionevole, perché può offrirsi agli avvocati – il cui apporto dialettico alla nomofilachia è giustamente sottolineato nell’articolo di Andrea Mascherin – una seria contropartita: l’interazione con una Corte che decide in tempi ragionevoli, vale a dire la non inutilità del loro mandato difensivo.              

Va da sé, infine, che nessun rimedio, tra quelli sinora escogitati o escogitabili in futuro, potrà mai rivelarsi, da solo, decisivo per consentire al giudizio civile di cassazione il rispetto dei canoni della ragionevole durata e della funzione nomofilattica, e che occorrerà mettere in campo risorse finanziarie, misure organizzative, la stessa revisione dell’art. 111 Cost. cui si è fatto cenno. Tuttavia non può mancare, da parte di tutti e in particolare dei magistrati della Corte di cassazione e della Procura generale, una costante attenzione a tale obiettivo nelle scelte da compiere anche nella situazione data, perché il sistema non può tollerare a lungo livelli tanto elevati di ineffettività, con la conseguenza che in caso di insuccesso si imporrebbero col tempo, fatalmente, soluzioni alternative, non necessariamente di segno più avanzato.