Una nuova condanna per l’Italia viene ancora dall’Europa.
Questa volta, sempre nell’ambito del Consiglio d’Europa, la decisione è resa nell’ambito del sistema della Carta sociale europea, dal Comitato relativo previsto dall’art. 25 della Carta.
Il Comitato europeo dei diritti sociali, infatti, con decisione dell’11 aprile 2016, ha accolto il ricorso n. 91/2013 della CGIL ed ha accertato la violazione dell’art. 11 (che protegge il diritto alla salute) letto insieme all’art. E (che stabilisce il divieto di discriminazione), dell’art. 1 par. 2 primo profilo (che tutela le condizioni di lavoro) e dell’art. 26 par. 2 della Carta (che protegge la dignità sul lavoro).
La CGIL aveva in particolare lamentato che la disciplina dell’obiezione di coscienza dei medici in relazione all’aborto non fosse applicata adeguatamente nella pratica, importando violazione sia del diritto delle donne ad accedere ai servizi abortivi , sia per altro verso del diritto al lavoro e del diritto alla dignità nel lavoro dei medici non obiettori.
Secondo i dati forniti, aggiornati al 2011, oltre il 70% dei ginecologi, il 51% degli anestesisti ed il 44 % del personale non medico sono obiettori, (e tali percentuali erano il risultato di un trend assolutamente crescente nel corso degli anni), sicché gli ospedali in pratica dovevano rivolgersi frequentemente a personale privato esterno per assicurare il servizio.
Con riferimento al diritto delle donne di accesso ai servizi abortivi, il Comitato ha osservato che:
a) persistono carenze nella fornitura di servizi di aborto in Italia a causa dell’obiezione di coscienza e spesso difficoltà pratiche di accesso a tali servizi per le donne che intendono abortire; accade non di rado che, dato il carattere urgente delle procedure necessarie, le donne che intendono chiedere un aborto sono costrette a spostarsi in altre strutture sanitarie, in Italia o all'estero, ovvero decidono di interrompere la gravidanza senza il supporto o il controllo delle autorità sanitarie competenti, o sono comunque dissuase ad accedere ai servizi di aborto, per i quali invece hanno un diritto protetto dalla legge n° 194/1978;
b) le strutture sanitarie continuano a non adottare le misure necessarie al fine di compensare le carenze di fornitura del servizio causate dal personale sanitario che invoca il diritto all'obiezione di coscienza, ovvero le misure adottate sono insufficienti;
c) in questi casi, le autorità di vigilanza regionali competenti non garantiscono un'implementazione soddisfacente della disciplina legale.
Il Comitato ha quindi sottolineato che queste situazioni possono comportare notevoli rischi per la salute e il benessere delle donne, il che è in contrasto con il diritto alla tutela della salute, come garantito dall'articolo 11 della Carta sociale europea. Ne deriva l’accertamento della violazione dell'articolo 11§1 della Carta.
La decisione ha richiamato i precedenti della Corte europea dei diritti dell’uomo, che hanno affermato l’obbligo positivo degli Stati di strutturare il servizio sanitario in modo da non limitare in alcun modo le reali possibilità di ottenere l’aborto, e, per altro verso, di assicurare che l’obiezione di coscienza dei medici non impedisca in concreto l’accesso ai servizi abortivi cui le pazienti hanno diritto (CEDU P.e S. v. Portogallo, 20.10.12; CEDU RR v. Polonia, 20.11.2011; CEDU Tysiac v. Polonia 20.3.2007; CEDU A.B.C. c. Irlanda, 16.12.2010).
Sotto un secondo profilo, il ricorso della CGIL aveva lamentato altresì che i medici non obiettori sono discriminati in termini di carico di lavoro, opportunità di carriera e di tutela della salute e della sicurezza, non essendo poste in essere misure appropriate per garantire che tutto il personale medico possano effettivamente esercitare i suoi diritti lavorativi compiutamente e che tali diritti siano realmente accessibili anche al personale medico non obiettore.
Anche sotto tale profilo il ricorso è stato accolto, evidenziando il Comitato europeo che la differenza di trattamento tra medici obiettori e professionisti non obiettori costituisce una discriminazione in violazione dell'articolo 1§2 della Carta.
La decisione invece ha rigettato i capi del ricorso che lamentavano la violazione del divieto di lavoro forzato (risultando decisiva nell’ottica del Comitato la libertà della scelta dell’attività medica), del diritto a giuste e sicure condizioni di lavoro (ma solo in quanto l’organizzazione ricorrente non aveva offerto prove adeguate e analitiche sul punto).
Infine, il Comitato ha condiviso le deduzioni attoree in ordine alla violazione del diritto alla dignità del lavoro dei medici non obiettori.
La CGIL aveva in particolare sottolineato che, a causa dell'applicazione inadeguata della sezione 9 della legge n. 194/1978 e alti tassi di medici obiettori, i pochi che non erano obiettori sono costretti ad eseguire l'intero carico di lavoro di tutte le procedure di aborto richieste, il che comporta in particolare attività ripetitive abortive, spesso al di fuori del campo di formazione e specializzazione dei medici, con effetti negativi evidenti anche sulla formazione dei titoli utili per la carriera.
La situazione, secondo la CGIL, colpisce la carriera e la dignità dei medici non obiettori, in violazione del diritto alla dignità al lavoro sancito dall'articolo 26 della Carta, letto da solo o in combinato disposto con la clausola di non discriminazione di cui all'articolo E.
Per altro verso, l’organizzazione ricorrente lamentava la marginalizzazione sul lavoro del personale medico non obiettore, in concreto decisamente minoritario.
Il Comitato ha condiviso l’impostazione solo indirettamente, attraverso la mera valorizzazione del divieto di ambienti di lavoro ostili ed accertando la violazione della norma che vieta le molestie morali sul luogo di lavoro ed impone misure positive preventive adeguate.
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