Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Che non succeda mai più

La sentenza del TAR del Lazio sull'obbligo della Presidenza del Consiglio dei Ministri di consentire la visione della documentazione relativa ai DPCM sull'emergenza sanitaria è l’occasione per riflettere di nuovo su emergenza, Costituzione, stato di diritto

1. La vicenda che ha contrapposto la Fondazioni Luigi Einaudi con la Presidenza del Consiglio dei Ministri

Questo il fatto. La Fondazioni Luigi Einaudi, a mezzo di suoi giuristi, chiedeva alla Presidenza del Consiglio dei Ministri l’accesso ai verbali relativi ai pareri dei Comitati tecnico-scientifici sulla base dei quali erano stati emanati i vari decreti COVID 19.

La Presidenza del Consiglio dei Ministri opponeva il diniego all’accesso ai sensi dell’art. 24, 1° comma, lettera c), l. 241/1990, in quanto, a suo parere, escluso «nei confronti delle attività della pubblica amministrazione dirette all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione».

La Fondazione Luigi Einaudi impugnava allora il diniego dinanzi al TAR Lazio facendo valere cinque motivi di ricorso.

In particolare si sosteneva che i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottati per far fronte all’emergenza epidemiologica, e per i quali erano state richieste le valutazioni tecnico-scientifiche del citato Comitato, non costituivano atti normativi o amministrativi generali ma più semplicemente ordinanze contingibili e urgenti. Si sosteneva altresì che, anche a ritenere detti decreti «atti amministrativi generali», non per questo il cittadino perdeva il suo diritto alla trasparenza, perché al contrario la legge escludeva l’accesso agli atti con la menzionata lettera c) dell’art. 24 l. 241/1990 semplicemente perché in quei casi il diritto alla trasparenza è regolato da norme speciali.

In ogni caso si evidenziava che quei verbali avevano rappresentato il supporto tecnico per l’emanazione di provvedimenti del tutto straordinari, che avevano ridotto ai minimi termini i diritti costituzionalmente garantiti di esercizio della libertà personale, della libertà di movimento, della libertà di riunione, della libertà religiosa, della libertà di impresa e del diritto al lavoro, cosicché la mancata conoscenza di essi avrebbe inciso sotto il profilo del diritto di difesa e di controllo politico-democratico. Ed infine si rilevava che accedere agli atti della pubblica amministrazione costituisce diritto riconosciuto dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), e pertanto le pubbliche amministrazioni possono disciplinare i profili procedurali ed organizzativi di questo diritto, ma giammai escluderlo.

Si costituiva nel giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri, la quale insisteva sulle proprie posizioni e sulla legittimità dell’esclusione all’accesso dei verbali del Comitato tecnico-scientifico quali atti prodromici all’emanazione di atti normativi e/o amministrativi generali.

Il TAR Lazio, con la sentenza in oggetto, assorbiti gli altri motivi, riteneva fondato il primo.

Il TAR Lazio, premesso che gli atti amministrativi generali sono «sottratti alla disciplina di accesso in esame ai sensi delle disposizioni richiamate non per intrinseche esigenze di segretezza, quanto piuttosto perché la legge assicura agli atti amministrativi generali e agli atti di pianificazione particolari forme di pubblicità e trasparenza», sentenziava che «Quanto ai DDPCM va evidenziata la peculiare atipicità,  che si connota per caratteristiche ben più assonanti con le ordinanze contingibili ed urgenti, in quanto si tratta di provvedimenti adottati sulla base di presupposti assolutamente eccezionali e temporalmente limitati che, a differenza degli atti amministrativi generali tout court, consentono di derogare all’ordinamento giuridico anche imponendo, come nel caso in esame, obblighi di fare e di non fare». 

Ed inoltre il TAR Lazio evidenziava che: «Giova evidenziare che l’Amministrazione ha opposto all’ostensione dei richiamati verbali solo motivi formali, attinenti alla qualificazione degli stessi come atti amministrativi generali, ma non ha opposto ragioni sostanziali attinenti ad esigenze oggettive di segretezza o comunque di riservatezza degli stessi al fine di tutelare differenti e prevalenti interessi pubblici o privati, tali da poter ritenere recessivo l’interesse alla trasparenza rispetto a quello della riservatezza».

Dunque il TAR Lazio dichiarava «l’obbligo della Presidenza del Consiglio dei Ministri di consentire alla parte ricorrente di prendere visione ed estrarre copia della documentazione richiesta con l’istanza di accesso». 

 

2. Il diritto dei cittadini all’accesso agli atti della pubblica amministrazione soprattutto quando finalizzato a controllare provvedimenti che abbiano inciso su libertà fondamentali

Questo il fatto, e si tratta, a nostro sommesso parere, di vicenda davvero imbarazzante. A fronte di provvedimenti che lo stesso TAR Lazio definisce «atipici» (ovvero, ricordiamo, di provvedimenti riconducibili al solo Presidente del Consiglio dei Ministri, privi del controllo del Parlamento e della Presidenza della Repubblica), la Presidenza del Consiglio dei Ministri non opponeva al diritto di accesso il Segreto di Stato, perché il Segreto di Stato è disciplinato dalla lettera a) dell’art. 24 della l. 241/1990, e non dalla lettera c), bensì si limitava ad affermare che non consentiva la pubblicità della documentazione perché, a suo parere, avente natura di atto normativo e/o amministrativo generale.

Dunque, si opponeva, non per «ragioni sostanziali attinenti ad esigenze oggettive di segretezza» bensì «solo per motivi formali» (così il TAR Lazio). 

Ora, noi troviamo sinceramente deprimente immaginare che una questione di questa importanza possa risolversi sulla base di una discussione di puro diritto amministrativo, ove, se i DPCM sono da considerare riconducibili, come li ha ritenuti il TAR Lazio, alle ordinanze contingibili ed urgenti, allora i cittadini hanno diritto all’accesso agli atti, mentre se gli stessi vanno invece preferibilmente ricondotti agli atti amministrativi generali, allora il diritto di accesso è escluso.

Non sta, né può stare, in questi termini, la questione.

Il TAR Lazio ha accolto il primo motivo dei ricorrenti quale questione più liquida, assorbite le altre, e sia consentito un plauso, per coraggio e indipendenza, ai tre giudici, donne, che hanno preso questa decisione; ma certamente, in un caso quale quello in esame, prima del diritto amministrativo viene quello costituzionale e comunitario, e prima di ogni possibile discussione giuridica sta l’evidente principio secondo il quale è inammissibile che in uno Stato di diritto il Presidente del Consiglio dei Ministri possa sospendere i diritti costituzionali dei cittadini per ragioni sanitarie senza rendere accessibile agli stessi la documentazione scientifica che ha posto alla base di simili decisioni; ed anzi, richiesto di ciò, si rifiuti.

Ciò può avvenire in uno Stato totalitario, non in uno democratico.

L’art. 24 della l. 241/90 avente ad oggetto le esclusioni del diritto di accesso è strutturato, come è noto, sulla base del conseguenziale diritto dei cittadini ad impugnare gli atti amministrativi, e per questo esclude l’accesso avverso gli atti normativi, che non consentono simili impugnazioni.

Ma è evidente che, nel caso di specie, dinanzi ad atti e presupposti assolutamente eccezionali e temporalmente limitati, e soprattutto incidenti su diritti fondamentali assicurati dalla costituzione, un simile limite non può funzionare, poiché il diritto di accesso, in questi casi, ha a che fare con la stessa tenuta democratica del sistema, e deve essere riconosciuto anche solo in forza dell’art. 10 CEDU e artt.. 1, 2, 3, 13, 24 e 41 Cost.

I cittadini non dovrebbero nemmeno vedersi costretti a fare simili richieste, perché dovrebbe essere lo stesso potere esecutivo, da solo, ad avvertire la necessità di rendere pubblici, insieme ai decreti, anche i pareri scientifici che li hanno motivati.

Peraltro, gli atti amministrativi generali sono quelli privi del carattere dell’astrattezza e della novità, nonché, per queste ragioni, privi della possibilità di considerarsi fonti di diritto; nei manuali di diritto amministrativo si trovano, tra gli esempi,  i bandi di gara o i bandi di concorso.

Troviamo difficile assimilare i decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri in questione con dei bandi di gara o di concorso, e speriamo che, sulla questione, non debba ancora suonare il monito di Publilio Siro, il quale, ormai tanti anni fa, ricordava che «Nimium altercando veritas amittitur» (il troppo discutere nasconde la verità).

Tutti noi, semplicemente, dovremmo invece ritenere, con forza e convinzione, che costituisce specifico e inderogabile dovere dello Stato quello di giustificare ai suoi cittadini le ragioni per le quali li ha privati per un tempo non breve, e li ha privati in un certo modo, dei loro diritti costituzionali.

E la circostanza che fatti di questa gravità non siano stati riportati in adeguato modo dalla stampa, e vi siano state addirittura importanti testate nazionali che nemmeno hanno dato la notizia, costituisce, sempre a nostro sommesso parere, ulteriore elemento di forte preoccupazione. 

 

3. La necessità che, anche in periodo di emergenza, lo Stato democratico non imiti i comportamenti dello Stato autoritario e rispetti le regole poste dal sistema costituzionale

Questa vicenda conferma peraltro una sensazione già avuta, ovvero quella che per alcuni, evidentemente, lo Stato di emergenza può mettere in discussione lo Stato democratico, e tutto può esser fatto, in emergenza, senza spiegazioni e con la totale ubbidienza dei cittadini.

Al contrario, anche in una fase di emergenza, i principi dello Stato democratico non possono venir meno, e seppur sia chiaro che le regole medico-sanitarie non si differenziano passando da Stato a Stato, parimenti deve essere chiaro che l’emergenza sanitaria, in uno Stato quale il nostro, non può essere affrontata al pari di come l’affronti uno Stato autoritario.

Questo è, purtroppo, l’altro aspetto che merita un cenno.

Con il COVID 19 si è visto in più di una occasione, e per la verità non solo in Italia, adottare tecniche e misure prese ad imitazione degli Stati autoritari, senza chiedersi in modo adeguato se quelle tecniche e quelle misure potessero essere compatibili con la nostra democrazia.

Non tutto è lecito per il sol fatto di trovarsi in un momento emergenziale.

Lo ha ricordato la stessa Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen, a Bruxelles, il 31 marzo 2020, dichiarando che: «L’Unione europea è fondata sui valori di libertà, di democrazia, di Stato di diritto e di rispetto dei diritti dell’uomo. Questi valori ci sono comuni. Noi dobbiamo rispettarli e difenderli anche in questi tempi difficili» (Le Figaro, 1 aprile 2020).

Al tempo stesso è poi specifico dovere di tutti vigilare affinché una ragione sanitaria non si trasformi in un pretesto per il raggiungimento di altri obiettivi che con le ragioni sanitarie non hanno niente a che vedere, e ciò è tanto più importante quanto più si avverte di vivere in un momento in cui i valori di democrazia e di centralità della persona sembrano messi in discussione.

Non a caso, il Commissario europeo alla giustizia, Didier Reynders, alla domanda «La crisi del coronavirus ha messo a dura prova i diritti fondamentali degli europei. C’è un rischio di vedere certi paesi della UE di utilizzarla per compromettere lo stato di diritto?», ha risposto: «Sì, è per quello che la Commissione ha detto fin dall’inizio che le misure devono essere necessarie, proporzionate e limitate nel tempo. Ci può essere una tentazione di porle troppo lontano nel contenuto e nel tempo. In questo senso la crisi del COVID 19 costituisce una sorta di rilevatore circa le inquietudini che si possono avere in certi ambienti. Le misure nazionali che hanno posto questioni, figureranno tutte nel primo rapporto annuale dello Stato di diritto che la Commissione presenterà in settembre» (Le Figaro, 10 luglio 2020).

Noi abbiamo avuto una serie di decreti legge i quali, seppur legittimati dalla necessità ed urgenza del momento, contenevano per lo più principi generali, e delegavano la disciplina più specifica ad atti del Presidente del Consiglio dei Ministri, integrati, di volta in volta, con circolari ministeriali, protocolli di intesa tra Stato e Regioni, leggi regionali, protocolli regionali, allegati ai protocolli nazionali e/o regionali, e così di seguito; di modo che, se taluno voleva valutare in concreto la normativa, essa si rinveniva con una certa difficoltà, ed in ogni caso più facilmente in atti normativi secondari, poiché i primari semplicemente contenevano dei generici rinvii o generiche deleghe di attribuzione del potere ad altri.

Ciò è stato,  a parere di molti, e anche a parere nostro, di dubbia costituzionalità, poiché nella misura in cui si pone deroga a libertà costituzionali, noi ci troviamo sempre, e necessariamente, di fronte ad un bivio: a) o la libertà costituzionale è inviolabile, e allora l’atto normativo è sempre incostituzionale (e noi, a proposito di questo, abbiamo già scritto circa i dubbi di costituzionalità delle restrizioni alla libertà personale, che confliggono con l’art. 13 Cost.); b) oppure la libertà costituzionale può essere limitata da una legge ordinaria, perché la norma costituzionale contiene una c.d. riserva di legge (v., ad esempio, gli artt. 16 e 32 Cost.); ma, egualmente, in questi casi, è l’atto normativo primario a dover regolare l’eccezione alla libertà costituzionale, e non è consentito che l’atto avente forza di legge semplicemente contenga una nuova delega oltre quella già fissata in costituzione e poi la regolamentazione del fenomeno, e la restrizione della libertà costituzionale, venga disciplinata con altri provvedimenti non aventi detta qualificazione.

Ciò è in contrasto con lo stesso principio di riserva di legge, che, quando attiene a libertà costituzionali, è sempre da considerare assoluta o rinforzata, ovvero non ulteriormente delegabile.

Nell’augurarsi, dunque, che cose di questo genere non succedano mai più, e nel ribadire che, a fronte di tutto ciò, è certamente imprescindibile il diritto dei cittadini all’accesso agli atti quale elemento coessenziale al mantenimento del sistema democratico, a noi ora interessa aggiungere qualcosa su due temi di particolare rilevanza, anche in una ottica futura, visto che molti temono la c.d. seconda ondata, e che sono quelli della tracciabilità dei movimenti e della disciplina del diritto alla salute.

 

4. Segue: sulla tracciabilità dei movimenti e sulle c.d. App Immuni

Il tema della tracciabilità dei movimenti e delle App Immuni necessita, a nostro parere, di due premesse:

a) la prima è che detta tracciabilità, sic et simpliciter, è di dubbia costituzionalità, poiché tracciare i movimenti delle persone costituisce restrizione della loro libertà personale, e porre limiti alla libertà personale è vietato dall’art. 13 della Costituzione.

Taluno può essere tracciato nei suoi movimenti solo se a ciò presta consenso consapevole, ma nessuno può esserne obbligato, poiché tale obbligo confligge con un principio di libertà garantito dalla costituzione con una doppia riserva di legge e di giurisdizione.

b) La seconda è che con l’argomento pochissimo, o addirittura niente, ha a che vedere il tema della privacy, e porre l’accento su questo aspetto, come è stato fatto, semplicemente tende a deviare l’attenzione da quelle che sono invece le questioni da affrontare.

Non si tratta, infatti, per il cittadino, di evitare che terzi, in nome di un diritto alla privacy, conoscano i suoi movimenti; si tratta, per il cittadino, di sapere se lo Stato, o altri enti pubblici, possano conoscere i suoi movimenti a prescindere dal suo consenso; e poiché nei confronti della pubblica amministrazione nessuna privacy è garantita, proprio perché lo scopo della tracciabilità è quello, in deroga alla privacy, di consentire al contrario la conoscenza dei movimenti e degli incontri di ognuno, va da sé che poca rilevanza ha asserire che la tracciabilità viene realizzata nel rispetto della privacy di soggetti terzi diversa dalla pubblica amministrazione. 

Anzi, la circostanza che sulla tracciabilità dei movimenti possa invocarsi la privacy dei terzi costituisce aggravante della misura, poiché ciò consente allo Stato, o all’ente pubblico interessato, di non fornire alcun chiarimento al cittadino che si veda indicato come colui che ha avuto contatti con persona a rischio.

 

4.1. Sul funzionamento delle c.d. App Immuni non si sa molto, ne’ in concreto ad oggi è stato spiegato in modo chiaro come dovrebbero operare, con quali limiti, e con quali funzioni, e quasi sempre ci si perde in disquisizioni fuorvianti, inutili e piene di inglesismi. E ciò conferma una certa opacità dell’attuale potere esecutivo, che bene si coordina con la scelta della Presidenza del Consiglio dei Ministri di non consentire l’accesso ai documenti tecnico-scientifici relativi ai rischi sanitari.

Ad ogni modo, le App Immuni non potranno avere alcuna funzione preventiva, ovvero non potranno avvertire chi le usa che si sta avvicinando a persona a rischio al fine di evitare il contatto (funzione, questa, che sarebbe la più importante e interessante), poiché la App Immuni non potrà sapere se un suo utente è a rischio finché ciò non sia stato clinicamente accertato, ma, una volta clinicamente accertato, la persona a rischio non sarà, probabilmente, più a giro, e quindi la App Immuni non potrà funzionare in tal senso.

L’App Immuni, allora, avrà solo una funzione a posteriori, ovvero, una volta individuata una persona come affetta da malattia, con App Immuni si individueranno tutti i contatti che questa persona ha precedentemente avuto, e ciò consentirà a chi di dovere di contattare queste persone e ad ognuna di esse imporre un trattamento sanitario consequenziale.

Ebbene, se questo è il funzionamento delle App Immuni, si tratta di pratica di dubbia costituzionalità se obbligatoria, e ciò per due evidenti ragioni: a) perché al soggetto cui venga notificata la notizia di aver avuto un contatto a rischio non vengono forniti ne’ circostanze di fatto ne’ elementi di prova sulla verità del fatto, e ciò proprio per ragioni di  privacy; b) e perché in questo modo a questo soggetto verrebbe imposto un trattamento sanitario sulla base di fatti che non consentono verifica ne’ contraddittorio, ne’ tanto meno tutela giurisdizionale, e quindi, nella sostanza, detta pratica attribuirebbe alla pubblica amministrazione diritto assoluto e non discutibile di imporre a taluno limitazioni alla libertà personale. 

In breve, immaginare si possa dire ad una persona senza fornire alcun dato di fatto che ha avuto un contatto a rischio ed imporre conseguentemente a questa persona un trattamento sanitario obbligatorio in assenza di ogni possibile contraddittorio, controllo e/o tutela giurisdizionale, appare cosa, ripetiamo, di dubbia costituzionalità a fronte degli artt. 2, 13, 24 e 32 Cost.; presuppone un patto di totale fiducia tra cittadino e Stato, che un regime democratico può chiedere ma non pretendere.

 

4.2. Il problema è che una sorta di tracciabilità dei movimenti è stata già messa in atto con riferimento a molteplici aspetti della vita quotidiana.

E’ stato fatto in modo più velato, ma non per questo meno efficace; e valga il vero.

Il d.l. 16 maggio 2020 n. 33 ha disposto, con l’art. 1, punto 14 che «le attività economiche, produttive e sociali devono svolgersi nel rispetto dei contenuti dei protocolli o linee guida idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel settore di riferimento in ambiti analoghi, adottati dalle regioni nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o linee guida nazionali». In base all’art. 2, poi, il mancato rispetto del decreto, salvo che il fatto non costituisca reato, è soggetto a sanzione amministrativa e a chiusura dell’attività economica, produttiva o sociale.

Parallelamente a ciò il Governo ha stipulato in data 15 maggio 2020 un protocollo di intesa con la conferenza delle regioni titolato Linee di indirizzo per la riapertura delle attività economiche, produttive e ricreative.

Si premette che «le presenti schede tecniche contengono indirizzi operativi specifici per i singoli settori di attività» e seguono poi una serie di schede tecniche che dettano comportamenti che i gestori di attività economiche e produttive sono tenuti a rispettare.

La prima scheda è dedicata alla ristorazione, ed essa prevede, oltre alla possibilità di rilevare la temperatura corporea dei clienti impedendo l’accesso in caso di temperatura superiore a 37,5, oltre all’obbligo delle mascherine e a quello del rispetto del distanziamento sociale, di «mantenere l’elenco dei soggetti che hanno prenotato, per un periodo di 14 giorni».

La regola, oltre che per i ristoratori, vale anche per trattorie, pizzerie, self-service, bar, pub, pasticcerie, gelaterie, rosticcerie, nonché per le attività di catering.

Passando a leggere le altre schede si nota che tale precetto è contenuto in altre attività: ad esempio turistiche e stabilimenti balneari e spiagge, di nuovo si legge che il gestore deve «mantenere l’elenco delle presenze per un periodo di 14 giorni». Lo stesso dicasi per acconciatori ed estetisti: «consentire l’accesso dei clienti solo tramite prenotazione, Mantenere l’elenco delle presenze per un periodo di 14 giorni»; lo stesso vale per la frequentazione di piscine, per le palestre, centri benessere, strutture termali, musei, archivi e biblioteche; ma lo stesso vale se ci si reca dal dentista, oppure si lascia l’automobile ad un posteggiatore, o ancora ci si reca ad un circolo culturale o ricreativo.

Le varie Regioni, poi, con propria ordinanza hanno recepito il protocollo e reso normativa regionale gli accordi presi e le regole fissate negli allegati. 

Ora, seppur la cosa sia passata sotto silenzio, e vissuta dai più come normale, si tratta di far emergere due questioni:

a) la prima è che il principio secondo il quale la tracciabilità dei movimenti è subordinata al consenso della parte, in questo caso non è stato rispettato, poiché, con riferimento a moltissimi movimenti della vita quotidiana, dal ristorante all’estetista, dal parrucchiere al dentista, ecc…. la tracciabilità è stata invece imposta, poiché con riferimento a molti movimenti della vita quotidiana il cittadino viene tracciato a prescindere dal suo consenso, e spesso senza che lo stesso abbia piena informazione, e/o piena consapevolezza, che il suo movimento è stato, appunto, tracciato.

b) La fonte normativa di tali tracciamenti è poi davvero singolare.

Un decreto legge asserisce che le attività economiche debbano svolgersi nel rispetto di protocolli regionali che devono conformarsi a protocolli nazionali; il governo poi stipula un protocollo nazionale d’intesa con le regioni; ne’ il decreto legge, ne’ i protocolli prevedono alcunché circa la tracciabilità di chi si rechi presso attività economiche, produttive o sociali; il precetto si trova solo in un allegato del protocollo nazionale; poiché poi il protocollo di intesa tra Governo e Regioni non ha alcuna forza normativa per i cittadini, e si tratta, appunto, solo di Linee di indirizzo per la riapertura delle attività economiche, produttive e ricreative, le Regioni emanano corrispondenti ordinanze, ove il precetto relativo alla tracciabilità dei movimenti dei cittadini si trova in un allegato di una ordinanza regionale.

Dunque, in estrema sintesi: ciò che costituisce limite e restrizione ad una libertà personale si trova in un allegato di un protocollo di una legge regionale.

Come la cosa sia in contrasto con ogni regola della riserva di legge non v’è bisogno di dibattere.

Così come si pone la regola di sanificare un tavolo, si pone quella di tracciare le persone; entrambi servono per prevenire contagi, ma nel frattempo si è persa la differenza tra l’uno e l’altro strumento.

 

5. Segue: sul diritto alla salute e sulla centralità della persona

Circa il diritto alla salute va in primo luogo sottolineato come esso, in tutti i paesi democratici, sia rimesso alla libera determinazione della persona.

Ognuno di noi ha, e deve avere, il diritto di curarsi come meglio crede, quando crede, dove crede.

Ognuno di noi ha, e deve avere, il diritto di scegliere con chi curarsi, di quale medico fidarsi, in quale ospedale recarsi, ed ha altresì diritto, se lo ritiene, di non curarsi affatto, se questa è la sua volontà, financo di lasciarsi morire, poiché anche la possibilità di lasciarsi morire costituisce diritto della persona.

Ha diritto di stabilire quali rischi sanitari correre e quali invece evitare, e ha altresì diritto di non subire imposizioni o trattamenti sanitari obbligatori, se non negli strettissimi limiti espressamente previsti dalla legge per evitare comportamenti pregiudizievoli per i terzi, e soprattutto ha il diritto di non credere all’efficacia di certe cure, se questa è la sua cosciente convinzione.

Lo Stato, in tutto questo, non ha il potere di intervenire, ma solo quello di informare; è compito dello Stato, infatti, dare ai cittadini la corretta informazione delle malattie, delle loro cause, delle loro conseguenze, e dei modi con i quali curarle.

Ma lo Stato non può andare oltre l’informazione, e non si deve preoccupare della salute dei singoli, poiché in uno Stato libero ogni cittadino pensa da sé alla propria salute, ed ha il diritto di non subire ingerenze.

Ne’ lo Stato deve tenere nei confronti dei cittadini atteggiamenti protezionistici che non siano voluti, poiché in democrazia ognuno si protegge da sé, e perché il confine tra protezionismo e autoritarismo è labile, e non mancano casi, appunto, dove l’autoritarismo viene fatto passare per protezionismo.

E parimenti lo Stato al dovere di far in modo che queste libertà di cura siano assicurate anche ai cittadini meno abbienti, e quindi ha il dovere di prestare quell’assistenza economica e quella gratuità dei servizi che consente a tutti, e non solo alle classi benestanti, di poter avere corretta informazione sanitaria e integra libertà di autodeterminazione.

Nel nostro sistema questa libertà di cura è assicurata in primo luogo dalla carta costituzionale con l’art. 32, e prima ancora con l’art. 2 della Costituzione, che pone l’uomo, e non lo Stato, al centro della vita sociale, e dalla CEDU con gli artt. 2 e 8, nonché, a livello di normativa ordinaria, dalla legge 22 dicembre 2017 n. 219, detta del “consenso informato”, la quale statuisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata.

Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha inoltre il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. 

E questa diritto di libertà di cura è stato più volte considerato protetto dalla nostra costituzione dalla stessa Corte costituzionale, la quale ha statuito con le sentenze 23 dicembre 2008 n. 438 e 30 luglio 2009 n. 253, anteriori addirittura alla legge c.d. del consenso informato, e più recentemente con le sentenze 16 novembre 2018 n. 207 e 22 novembre 2019 n. 242, che «il consenso informato riveste natura di principio fondamentale in materia di tutela della salute in virtù della sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona; quello all’autodeterminazione e quello alla salute». 

E soprattutto in questo contesto va ricordata la Corte di cassazione, la quale, in tempi ben anteriori alla legge sul consenso informato, e precisamente con Cass. 16 ottobre 2007 n. 21748, statuiva che: «Il Collegio ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativa-coattiva. Il compito dell’ordinamento è quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza, e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico».

 

5.1. Il diritto costituzionale alla libertà della cura non è scalfito, ma solo integrato, dalla legge sul trattamento sanitario obbligatorio disciplinato dagli artt. 33 e ss. l. 23 dicembre 1978 n. 833.

Il TSO si riferisce, essenzialmente, alle «persone affette da malattie mentali», e se il trattamento sanitario obbligatorio deve avvenire in degenza ospedaliera è necessario l’intervento del Giudice Tutelare.

E’ evidente che tale disciplina non contrasta con i principi di libertà sopra descritti, poiché essi, evidentemente, presuppongono la capacità di intendere e volere della persona che li esercita, mentre se la parte è mentalmente incapace  va da sé che in quei casi lo Stato possa intervenire.

La legge, tuttavia, non afferma che il TSO si pratica solo nei confronti delle persone con deficit mentali, cosicché taluno, in forza della riserva di legge di cui all’art. 32 Cost., può affermare che una legge ordinaria ben può disporre trattamenti sanitari obbligatori oltre tali ipotesi.

Ciò è teoricamente vero, tuttavia è bene ricordare che l’imposizione del trattamento sanitario alla persona capace di intendere e volere, oltre a dover discendere da legge ordinaria, deve sottostare ad una serie numerosa e grave di presupposti anche in base alla giurisprudenza sopra richiamata.

E così:

a) in primo luogo a nessuno può essere imposto un trattamento sanitario che gli sia pregiudizievole, ma anzi esso deve essere utile anche alla salute di chi lo riceve, con stretta osservanza di un principio di eguaglianza.

b) In secondo luogo nessun trattamento sanitario può essere imposto se sulla sua utilità sussistono seri contrasti scientifici. 

c) In terzo luogo il trattamento che si impone deve essere specifico e riferito ad una specifica persona in quanto malata; nessun trattamento può essere imposto in modo generale ad un insieme indistinto di persone, a prescindere dal loro stato di salute.

d) In quarto luogo, e soprattutto, chi subisca il trattamento deve aver conoscenza, e dimostrazione con dati certi, dei presupposti e delle condizioni che lo legittimano, e deve poter aver contro di essi diritto al contraddittorio e tutela giurisdizionale. 

Fuori da queste condizioni imporre ai cittadini trattamenti sanitari che questi non vogliono è andare oltre lo Stato democratico, e porsi fuori dai nostri limiti costituzionali.

[**]

Maria Giuliana Civinini, presidente del Tribunale di Pisa

Giuliano Scarselli, ordinario di diritto processuale civile nell'Università di Siena, avvocato

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05/10/2021
Questione Giustizia chiama in giudizio Il Giornale. Per difendere la libertà di informazione

Domani la Rivista riapre dopo la pausa estiva. Ma prima di riprendere il flusso delle pubblicazioni dobbiamo dare notizia di una iniziativa. Questione Giustizia ha deciso di chiamare il quotidiano Il Giornale dinanzi al giudice civile per rispondere sia dell’articolo a firma di Luca Fazzo pubblicato il 14 agosto 2021, intitolato «Chiamata alla rivolta. GOLPE DEI MAGISTRATI CONTRO IL GREEN PASS» e sottotitolato «Le toghe rosse di Md: “E’ una misura anticostituzionale, non va applicata. Il rifiuto dei no vax è da proteggere”» sia del successivo rilancio dell’operazione denigratoria con un articolo, sempre a firma di Luca Fazzo, del 15 agosto. E’ un’azione a difesa della verità e della libertà della Rivista e di quanti vi scrivono. Se, infatti, nello scrivere o nel decidere di pubblicare articoli, saggi o documenti, si dovesse paventare l’infinita gamma di possibili falsificazioni attuate a partire da tali pubblicazioni, il risultato sarebbe la scelta del silenzio o dell’autocensura. Prospettive, entrambe, alle quali non intendiamo soggiacere. Di qui la decisione obbligata di agire in giudizio per accertare i fatti. In difesa della libertà di informazione. 

31/08/2021