A Parigi, nella sera del 13 novembre 2015 alcuni gruppi di terroristi seminano morte e dolore con esplosioni di ordigni allo Stade de France e con fucilazioni di massa in tre ristoranti ed in una sala di concerto nel X ed XI Arrondissement. L’orrore, che viene rivendicato dall’Isis, dura meno di mezz’ora ma contabilizza 130 vittime ed oltre 400 feriti.
Poco prima di mezzanotte, mentre è in corso la gigantesca mobilitazione per bonificare la città e soccorrere gli scampati, il Presidente Hollande si rivolge ai francesi per comunicare «la terribile prova che, ancora una volta, ci ha assalito e per chiedere a tutti di reagire con compassione, solidarietà, unità e sangue freddo». Nel contempo, annuncia due immediate iniziative sul territorio nazionale: la chiusura delle frontiere e la decretazione dell’état d’urgence. Non tarda neppure la risposta militare quando, ad appena quarantotto ore dagli attentati, dieci aerei da caccia bombardano pesantemente le installazioni dell’IS a Raqqa in Siria, così intensificando la campagna che la Francia ha avviato già dal settembre 2015.
A quattordici mesi dalla tragica sera di Parigi l’état d’urgence resta in vigore – e lo rimarrà fino al 15 luglio 2017– in forza delle quattro proroghe che l’Assemblea nazionale decide con leggi approvate a larghissima maggioranza il 19 febbraio, il 20 maggio, il 20 luglio ed il 14 dicembre 2016. Per tutto questo anno la Francia continua a subire attacchi terroristici, sempre rivendicati dall’IS: così il 13 giugno, a Magnanville, una coppia di funzionari di polizia viene uccisa all’arma bianca; il 14 luglio, a Nizza, un autocarro investe la folla abbattendo 86 persone e ferendone 434; il 26 luglio, nei pressi di Rouen, in una chiesa 5 fedeli sono sequestrati ed un sacerdote trucidato. E poi, sempre, nel 2016 – oltre alle molte centinaia di vittime degli attentati compiuti nel vicino e lontano Oriente nonché in Nord America – c’è il vicinissimo Belgio dove il 22 marzo due esplosioni all’aeroporto e nella metropolitana di Bruxelles provocano la morte di 32 persone ed il ferimento di 340. E nell’altrettanto prossima Germania il 20 dicembre, a Berlino, altre 12 persone perdono la vita e 48 rimangono ferite investite, di nuovo, da un camion omicida.
In passato Questione Giustizia ha avuto modo di occuparsi dell’état d’urgence. Adesso, chi sia interessato ad approfondirlo (ed abbia familiarità con la lingua di Daniel Pennac ed Emmanuelle Carrère), può leggere il libro di Paul Cassia, Contre l’état d’urgence, pubblicato da Dalloz nell’ottobre 2016. Il titolo riflette fedelmente il giudizio radicalmente negativo che l’autore esprime nei confronti del dispositivo di controllo sociale affidato alle autorità amministrativa e di polizia dopo i fatti del Bataclan. Così, secondo il docente di Diritto pubblico all’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne, «l’unico valore aggiunto scientificamente apprezzabile dello stato di emergenza consiste nell’averne definitivamente dimostrato l’inefficacia in materia di prevenzione del turbamento grave all’ordine pubblico in generale, e del terrorismo in particolare». Lo scritto è percorso da robusta vis polemica, ma (ed è questo ciò che conta) la critica viene condotta con rigore e padronanza del quadro normativo, del dibattito politico-istituzionale, delle peculiarità del terrorismo di stampo jihadista e dei risultati sin qui ottenuti con la messa in opera dello stato di emergenza. Non sorprende che molte delle pagine contro vengano dedicate alle due principali – e maggiormente intrusive – misure introdotte dall’état d’urgence, e cioè l’assignation à résidence e la perquisition administrative.
La prima misura viene applicata dal ministro dell’interno su proposta del prefetto nei confronti di persona la cui «condotta si rivela pericolosa per la sicurezza e l’ordine pubblico». Essa consiste nel soggiorno obbligato, suscettibile di essere aggravato da ulteriori obblighi tra cui quello di presentazione periodica alla polizia. Peraltro, Paul Cassia è perentorio nel negare alla assignation qualsiasi reale forza di prevenzione della minaccia terroristica. Persino scontata (ma difficile da controbattere) è la sua osservazione per cui chi intenda compiere atti con finalità di terrorismo non può certo venir dissuaso – e tantomeno impedito – da un provvedimento ammnistrativo che altro non può comportare se non la limitazione – e non l’annullamento – della libertà di movimento dell’individuo. Del resto le fitte statistiche con cui l’autore si confronta indicano che il ricorso al soggiorno obbligato, se raggiunge il picco di qualche centinaia di casi nel primo semestre dopo il 13 novembre 2015, declina nel periodo sucessivo per poi attestarsi su soli 82 nell’estate 2016. È dunque ragionevole inferire da questa curva al ribasso che lo stesso Ministero dell’interno faccia della misura un uso sempre meno convinto, consapevole che essa, sulla distanza, esaurisce inevitabilmente la capacità a produrre gli effetti sperati. Ed anzi il rischio è che se ne producano altri di segno contrario, come traspare dal richiamo a quanto esposto da magistrato di punta dell’anti-terrorismo che, di fronte alla Commissione d’inchiesta dell’Assemblea nazionale, ammette che «l’assignation lo inquieta in quanto applicandola ad un individuo perché non si hanno delle prove contro di lui – ché in tal caso verrebbe sottoposto a procedura giudiziaria - non lo si spinge nelle braccia dello Stato Islamico? Forse che tale misura renderà dei giovani che sono ancora in bilico meno ostili nei nostri confronti?».
Ancor più netta è l’opposizione espressa nel volume alla perquisition admministrative che i prefetti possono ordinare in luogo per cui «esistano delle serie ragioni per pensare che sia frequentato da persona il cui comportamento costituisca una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico». Anche qui l’analisi viene svolta sul doppio registro del difetto di efficacia e di garanzia. Quanto al primo, la constatazione di partenza è che, dopo gli accadimenti di Parigi nel novembre 2015, di tale misura si faccia uso massiccio quale vero e proprio rimedio d’urto preventivo come attestato dai 3594 casi di applicazione nei primi 6 mesi. Peraltro, il dato che 3427 di essi siano concentrati nel primo periodo che va fino a tutto il febbraio 2016 – mentre i restanti 167 lo siano nel successivo trimestre – segnala come la (pretesa) efficacia della perquisition admministrative poggi in gran parte sull’effetto sorpresa, e ciò soprattutto a fronte di potenziali terroristi o fiancheggiatori che come tali non ignorano di certo le più elementari contromisure di clandestinità e dissimulazione. Ma se con il passare del tempo tale efficacia inevitabilmente decade, diventa allora priva di qualsiasi coerenza ed utilità la strategia di cronicizzare – con le ripetute proroghe – lo stato d’emergenza. Del resto, venendo ai risultati, non sfugge la loro modestia, tanto più se confrontata all’imponente impiego di risorse richiesto dall’esecuzione delle migliaia di perquisizioni amministrative. In particolare, colpisce che le quasi 3600 operazioni sopra menzionate abbiano portato al sequestro di appena 18 armi da guerra nonchè all’avvio di procedimenti conclusi con sole 67 condanne in tutto. Vale aggiungere che l’originaria disciplina della perquisition consente alle forze di polizia operanti di procedere – non al sequestro del materiale informatico ivi rinvenuto, ma - all’aspiration – e cioè alla copiatura – dei dati raccolti in tutti i dispositivi elettronici trovati sul posto, quale che ne sia il proprietario ed il contenuto – senza cioè che sia necessario un qualche collegamento con la minaccia terroristica. Sennonché nel febbraio 2016 questo peculiare elemento di forza della perquisizione – utile alla raccolta di quantità immense di informazioni – viene bruscamente meno in forza della decisione del Consiglio costituzionale che censura il Legislatore per non aver «previsto delle garanzie idonee a garantire la composizione equilibrata tra l’obbiettivo di rango costituzionale di tutela dell’ordine pubblico e il diritto al rispetto della vita privata».
Quanto al deficit di garanzia sofferto dalla perquisition administrative, Paul Cassia lo coglie (come prevedibile) nel fatto che la decisione di eseguirla sia sottratta a qualsivoglia controllo ex ante – o autorizzazione – da parte dell’autorità giudiziaria. E che essa sia suscettibile di rimedio ex post da parte della sola giustizia ammnistrativa, talora più sensibile alla nozione dell’interesse generale – ed alla «messa in sicurezza dell’azione dei pubblici poteri» – che non al principio di legalità.
Vigoroso nella critica, Paul Cassia mantiene comunque freddezza nel collocare l’état d’urgence in un contesto – non tanto di crisi della legalità quanto piuttosto – di legalità di crisi: lo stato di diritto non viene meno con lo stato di emergenza, ma è la sua qualità che muta in senso sfavorevole alle libertà individuali con l’irrobustimento – a fini di sicurezza – dei poteri amministrativi.