La sfida della rappresentanza
Questa candidatura segna il mio ritorno all’impegno diretto nell’associazionismo e nell’autogoverno, dopo alcuni anni dedicati alla giurisprudenza civile, ai valori costitutivi della giurisdizione, al suo radicamento costituzionale e sovranazionale, oltre che al laboratorio di idee rappresentato da questa Rivista.
Al contempo essa è stata l’occasione per rileggere un percorso che ha una matrice risalente nel tempo, per riannodare relazioni ed esperienze personali e collettive, per aggiornare il mio personale contributo al progetto di autogoverno per la giurisdizione.
Ma provare a rappresentare nell’autogoverno i magistrati, donne e uomini, impegnati con soddisfazione ma anche con grande fatica, nella giurisdizione, è stata una scelta, per quanto mi riguarda, molto più impegnativa di altre precedenti.
Una scelta dettata in primo luogo dalla sofferenza morale, per le vicende che, seppur non per la prima volta, hanno colpito la credibilità e l’immagine dei magistrati, con riflessi seri all’interno ed all’esterno del mondo della giurisdizione.
L’ombra cupa dello scandalo
I fatti accertati nelle indagini di Perugia hanno rivelato condotte gravissime, che hanno dimostrato la ricorrente capacità d’infiltrazione d’interessi abusivi all’interno della giurisdizione e dell’autogoverno dei magistrati. Prescindendo dal loro eventuale rilievo penale, emergono condotte di probabile rilievo disciplinare, assieme ad altre condotte gravi solo sotto il profilo deontologico, ma destinate tutte ad appannare l’immagine complessiva della magistratura oltre che a danneggiare in concreto il buon funzionamento della nostra amministrazione.
Anche in passato ci siamo trovati di fronte a situazioni che rivelavano opacità ed illegalità nella nostra magistratura e mi sono impegnato personalmente a contrastarle, tanto in prima persona quanto assieme ad altre colleghe e colleghi.
Proprio il vivido ricordo degli aspri conflitti già vissuti (segnati da vittorie e sconfitte) mi ha aiutato in queste settimane a trovare la forza per rappresentare, alle centinaia di colleghi incontrati, il rischio insito nella resa, nel disimpegno, nel ripiegamento individuale. Un rischio diffusosi, dopo le ripetute ondate di indignazione, man mano che trapelavano le notizie sull’indagine perugina.
Ripartire sempre dal basso
Un’altra convinzione maturata nella mia intera esperienza professionale è che la qualità dell’autogoverno non dipende solo dalla, seppur decisiva, attività del CSM, ma affonda le sue radici nei rami bassi della giurisdizione.
Di qui l’impegno nell’autogoverno dal basso. A partire dai primi passi dell’Osservatorio sulla Giustizia civile di Firenze e della rete nazionale degli Osservatori sulla giustizia civile.
Quello rappresentato dal contesto attuale non è il primo bivio che incontra la magistratura dopo l’ostica riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006, ma è certamente quello che presenta più difficoltà.
La direzione degli uffici giudiziari
Al centro di questo bivio si impone la questione della direzione degli uffici giudiziari (intesa come attività) e della dirigenza (intesa come ruolo).
Oggi il tema della responsabilità e dei poteri dei dirigenti, che la legge prevede selezionati in base al merito, deve trovare un nuovo punto di equilibrio, poiché c’è il rischio di un nuovo appannamento del principio consacrato nell’art. 107 della Cost. secondo il quale i magistrati si distinguono solo sulla base delle funzioni giudiziarie che svolgono.
Occorre evitare che la “dirigenza” sia inseguita come espressione di una tappa della “carriera” che, oltre ad essere del tutto in contrasto con il principio appena ricordato, ha prodotto distorsioni che hanno alterato il rapporto dei magistrati con il loro governo autonomo.
Questo nuovo punto di equilibrio è, a mio parere, quello di una responsabilità condivisa, governata attraverso la funzione di coordinamento. Non, dunque, il modello della decisione calata dall’alto, ma quello della decisone responsabile frutto del confronto e della partecipazione dei componenti dell'ufficio, che saranno destinatari ed interpreti di quella decisione.
La centralità della giurisdizione tra gestione dell’arretrato e innovazione tecnologica
Avendo sempre svolto attività giurisdizionale in uffici di primo grado, con o senza assegnazione specializzata dei procedimenti, sempre a contatto con i destinatari finali dell’attività giurisdizionale, ho avuto modo di acquisire consapevolezza delle realtà diversificate, talvolta molto impegnative, che un magistrato giudicante o requirente è costretto ad affrontare per gettare, in primo grado, le fondamenta della giurisdizione.
In questi anni ho visto radicalmente cambiare, spesso in meglio, il modo di lavorare, di interpretare il ruolo del magistrato, di fare giurisdizione civile e penale.
La giustizia civile è quella che più ha avuto modo di far maturare le ragioni e gli scopi del suo cambiamento. Con impegno straordinario per quantità e qualità da parte dei suoi giudici.
La giustizia penale ha sofferto maggiormente i conflitti istituzionali, politici e sociali di un trentennio di profonde crisi del sistema politico ed anche degli assetti dell’economia italiana. Ha sofferto e soffre di una maggiore tensione che intercorre tra le parti e tra le parti ed il giudice.
Oggi ritengo che, senza rinnegare l’impegno organizzativo profuso, sia necessario tornare alla centralità della giurisdizione messa a dura prova dai cambiamenti in atto, in particolare dalle esigenze di smaltimento dell’arretrato, che pur permane, anche se in misura molto differenziata.
Il carico di lavoro organizzativo che grava sui magistrati e non solo sui magistrati dirigenti è oggi molto significativo. E’ stato decisivo ma anche molto costoso l’impegno dei Rid, dei Mag. Rif., delle Commissioni Flussi, della Sto. Ma oggi anche grazie a quel prezioso lavoro possiamo sperare di recuperare risorse per la giurisdizione puntando, più che su incarichi e strutture permanenti, su tavoli tecnici e progettuali integrati con le strutture ministeriali nell’imminente fase di progettazione degli interventi previsti nell’ambito del Recovery Fund.
Anche attraverso di essi, occorre chiedere al Ministero della Giustizia di investire maggiormente in risorse umane di qualità ed in processi - non solo tecnologici - di innovazione. In modo tale da trasformare la crisi determinata dalla pandemia in occasione di miglioramento dell’amministrazione della giustizia e con l’obiettivo di ridurre il peso di questo impegno sulla giurisdizione, ma senza perdere come magistrati la capacità di governo dell’innovazione organizzativa.
Il contributo che la tecnologia ha offerto è elevatissimo. Ma la tecnologia o è condivisa o costituisce è un pericolo. Condivisa sia nel senso di accettata, sia nel senso di socializzata, messa in comune.
La tecnologia offre strumenti di guida, di monitoraggio, di orientamento dell’attività giurisdizionale, nella gestione dei ruoli, delle sezioni, dei pool di magistrati, nella costruzione delle conoscenze degli uffici giudiziari. Ed in questi anni abbiamo visto cambiare radicalmente in meglio il lavoro dei giudici anche grazie ad un uso intelligente della tecnologia.
Oggi la tecnologia è il luogo dove si fondono giurisdizione e amministrazione della giustizia. Intorno al quale si sta costruendo un nuovo rapporto tra Ministero e Autogoverno diffuso, tra autonomia del Giudice e responsabilità organizzativa.
Gli uffici giudiziari sono titolari di un patrimonio prezioso: le decisioni giudiziarie e gli atti su cui sono fondate, contengono dati sensibili da proteggere nell’interesse della libertà individuale, ma anche da condividere con altre istituzioni con le debite accortezze.
Nel mondo dei big data e della profilazione attraverso la gestione delle informazioni sulle persone, le decisioni e le storie giudiziarie sono un patrimonio inestimabile. Per questo, la costruzione di strumenti di rappresentazione dei contenuti della realtà giudiziaria è divenuta una necessità indifferibile e che ha poco a che vedere con la pubblicazione delle migliori decisioni dell’ufficio.
Il CSM deve seguire da vicino i progetti ed i tavoli tecnici ministeriali dandosi strumenti di intervento efficaci a garanzia della qualità della giurisdizione. In questa prospettiva le tecnologie devono esser messe al servizio della conoscenza e della decisione consapevole evitando il rischio che essa appanni la consapevolezza della decisione del singolo caso giudiziario e produca massificazione di comportamenti e decisioni stereotipate.
Ad evitare quest’ultimo rischio ispirai l’impegno, oltre dieci anni fa, nello studio degli strumenti di valutazione della (qualità della) laboriosità dei giudici e dei PM all’interno del gruppo standard di rendimento per la valutazione di professionalità, costituito presso la IV Commissione del CSM dal 2010 al 2013. In quel laboratorio di idee si è cominciato a costruire una cultura di analisi qualitativa del dato.
I “numeri” sono essenziali per fornire la base sulla quale elaborare le nostre analisi e decisioni organizzative, ma quegli stessi “numeri” possono anche schiacciare la qualità, soffocare la giurisdizione. Per questo devono esser governati, conosciuti, compresi ed analizzati dentro il sistema dell’autogoverno, in tutti gli uffici che generano i flussi di lavoro che si vogliono misurare.
La formazione permanente
Nel mio percorso professionale ho visto crescere e trasformarsi la formazione iniziale e permanente dei magistrati. Un tempo rimessa al singolo affidatario non sempre all’altezza della situazione. Negli anni, sempre più condivisa e strutturata sino alla nascita del Comitato scientifico del Csm e, poi, della SSM.
Nella mia esperienza di uditore e poi di affidatario di magistrati ordinari in tirocinio, di tutor presso la Scuola superiore della magistratura, di relatore o di coordinatore di gruppi, sia nella formazione decentrata che in quella centrale, ho maturato la convinzione che, pur se con alcune possibilità di miglioramento, la formazione dei magistrati sia, ancora oggi, uno dei principali presidi difensivi della autonomia ed indipendenza della giurisdizione, oltre che della sua qualità.
Anche se è vero che, soprattutto dal punto di vista della integrazione della formazione decentrata con quella nazionale o internazionale, ma anche sotto il profilo del maggior coordinamento tra formazione iniziale presso la SSM e formazione in affiancamento al magistrato, è ancora possibile fare ulteriori passi avanti.
Ma non c’è dubbio che uno degli aspetti più affascinanti del nostro lavoro, sia proprio la sua dimensione formativa. Permanentemente formativa, in ogni funzione, in ogni sede, in ogni grado. Impariamo da ogni fascicolo che trattiamo, da ogni interlocuzione processuale con colleghi, con avvocati, con periti e consulenti. Impariamo dai fatti e dalle persone. E impariamo insieme, perché anche la professionalità e la specializzazione, se non condivisa, rischia di chiudere il giudice in una torre d’avorio che alla lunga può inaridire il suo lavoro, la sua cultura.
Ho sempre inteso come fondamentale la formazione comune dei giuristi, in particolare quella con l’Avvocatura. Il modello di formazione partecipata, che nella mia esperienza risale ai primi anni ‘90 e reca l’impronta di Carlo Verardi è anche il luogo privilegiato di formazione del formatore. Non è un caso che la partecipazione alla nostra formazione sia così ambita dai relatori dell’Accademia e dell’Avvocatura.
Nella mia esperienza, pur avendo trattato molte materie, ho vissuto intensamente due esperienze di forte specializzazione: il fallimentare negli anni ’90 e la protezione internazionale negli ultimi cinque anni. Due straordinarie occasioni di crescita e di relazione con colleghe e colleghi, nonché con studiose e studiosi di molteplici discipline assolutamente straordinari, impegnati in settori molto diversi, ma che hanno un tratto comune: la necessità di avvalersi di competenze diverse da quelle giuridiche.
Un’attitudine, quella della interlocuzione con saperi e professionalità non giuridiche, che sarà uno dei connotati essenziali del magistrato del futuro.
Oggi i magistrati chiedono una maggiore formazione internazionale, una maggiore condivisione di esperienze con i colleghi europei e non solo. Esiste, infatti, un terreno fertile da coltivare che valorizzi le preziose esperienze già in atto.
Le ultime generazioni di magistrati sono composte da nativi europei, che sono e si percepiscono magistrati d’Europa. E le sfide per la giurisdizione e per la tenuta dello stato di diritto coinvolgono oggi tutta la magistratura europea.
La magistratura italiana può offrire un grande contributo alla giurisdizione europea. Possiamo trovare strumenti ulteriori? La mia esperienza di formatore Easo (Agenzia Ue per il diritto di asilo) mi suggerisce di sì: lo scambio e la formazione internazionale possono ancora crescere e diffondersi tra un numero maggiori di colleghi.
L’associazionismo giudiziario all’interno ed a fianco dell’Anm
L’associazionismo giudiziario deve rifondare la propria ragion d’esser nella diffusione della cultura della giurisdizione. Se del caso valorizzando approcci ed approdi differenti.
Il ruolo assunto in questa prospettiva dalle diverse Riviste è una pagina importante dell’associazionismo giudiziario.
Vogliamo sperare che questo impegno cresca ancora, non solo nella magistratura progressista ma anche negli altri gruppi associativi. In generale tra i magistrati tutti, nelle forme che essi vorranno dare al loro impegno collettivo, all’interno o a fianco dell’Anm.
Personalmente non ho avuto in passato occasione di ricoprire incarichi nell’ANM, alla quale non ho fatto però mancare il personale sostegno ed apporto di elaborazione, in sede locale o nazionale, direttamente od attraverso Magistratura democratica ed Area democratica per la giustizia.
Ma l’associazionismo va anche oltre le aggregazioni interne all’Anm.
Si compone di esperienze di settore, di gruppi di interesse, di momenti di collaborazione con l’Avvocatura, come gli Osservatori sulla Giustizia civile.
All’associazionismo giudiziario non ho mai chiesto altro se non di rappresentare il luogo di espressione pluralistica dei magistrati onesti e laboriosi, perché tali sono la stragrande maggioranza dei magistrati italiani. E di continuare ad essere il luogo di una comune crescita culturale di tutta la magistratura, unita intorno ai principi costituzionali.
Il momento del voto
Il viaggio, in gran parte virtuale, dei candidati negli uffici giudiziari di tutta Italia ha consentito di ascoltare le idee, i dubbi, le critiche, anche aspre, dei magistrati.
E’ stato un confronto non demagogico, concreto, serio e trasparente.
Una campagna elettorale sui progetti, anche su quelli più concreti.
Centinaia di magistrati hanno incontrato i candidati nei dibattiti organizzati dalle sezioni distrettuali dell’ANM e ciò dimostra che resiste e si rinnova con molti giovani colleghi, mostratisi tra i più attivi nella interlocuzione, un ampio nucleo di magistrati donne e uomini, impegnati anche nell’associazionismo a sostegno della giurisdizione.
Vogliamo sperare che questo confronto preelettorale getti le basi per una coda di consiliatura coerente con il registro formale osservato in queste settimane. E ponga le condizioni per un eguale tenore del prossimo confronto. Anche all’interno delle aree di riferimento il cui procedimento di selezione delle nuove candidature non può esser indipendente dai contenuti proposti. Ma anche con riferimento al confronto tra le diverse aree culturali.
A pochi giorni dal voto, la speranza che serbo in me è che questa importante coda di consiliatura sia in ogni caso costruttivamente rivolta non a regolare i conti con il passato, né a preparare rivincite per quando il ricordo dello scandalo sarà attenuato, ma a creare le condizioni progettuali per la consiliatura futura, pur alla luce degli insegnamenti della recente drammatica esperienza vissuta.
In questa prospettiva ognuno di noi candidati si è proposto, in modo diretto ed autentico, all’attenzione e alla valutazione delle colleghe e dei colleghi, alle quali spetta ora scegliere.
Una scelta difficile, con un meccanismo imperfetto e da modificare, ma alla quale non vogliamo rinunciare.