1. Soffermandosi a riflettere sulla questione più sentita e dibattuta dell’ultimo anno nei rapporti fra Corti nazionali e Corte di giustizia, e, cioè, quella della doppia pregiudizialità, non può che tornare alla mente, come un flash, la definizione di Lacan del concetto di realtà.
Di fronte ad un pubblico intellettualmente schierato (Sartre, Levi – Strauss, Pontalis) alla domanda che cosa è la realtà, Lacan chiarì il suo pensiero dicendo che la realtà è ciò che ti scivola dalle mani, non ti torna, ti spiazza. “La realtà è quando si inceppa!”.
Se, d’altro canto, si pone attenzione al carattere “nodale” del dialogo nel rapporto tra Corti, sovviene, altresì, il noto verso di Hölderlin sul dialogo “…noi, gli uomini, siamo un dialogo e possiamo ascoltarci l’un l’altro”.
Ma se è appunto questo ciò che si percepisce nell’attuale coacervo di relazioni internazionali, vale a dire, come scrive Heidegger, “il dialogo in quanto autentico accadere, evento del linguaggio/parola” e, pertanto, “fondo e fondamento dell’esserci dell’uomo”, nondimeno, quel meccanismo, talvolta si inceppa…
È ben noto come si siano dipanati negli anni i rapporti fra Corte Edu e Corte di giustizia.
Si ponga attenzione, a titolo esemplificativo, alla sentenza di Strasburgo Goodwin vs. United Kingdom (11 luglio 2002, n. ric. 28957/95) sulla identità di genere nella quale, significativamente, per la prima volta la normativa del Regno Unito relativa allo stato civile viene utilizzata come spartiacque fra la giurisprudenza antecedente e successiva della Corte di Giustizia. Effettivamente, già in P v. S e Cornwall County Council (sentenza della Corte del 30 aprile 1996, Causa C-13/94) i giudici di Lussemburgo, in sintonia con le conclusioni dell’allora Avvocato Generale Tesauro, nell’escludere la legittimità del licenziamento di un transessuale, sottolineavano di aver già più volte affermato che il diritto di non essere discriminato in ragione del proprio sesso costituisce uno dei diritti fondamentali della persona umana, di cui la Corte deve garantire l’ osservanza (v., in tal senso, sentenza 15 giugno 1978, causa 149/77, Defrenne, e sentenza 20 marzo 1984, cause riunite 75/82 e 117/82, Razzouk e Beydoun/Commissione): quella pronunzia, aprirà un nuovo capitolo in tema di non discriminazione che estenderà i propri effetti, come detto, anche a Strasburgo.
Il rapporto fra le due Corti sovranazionali è oggi fluido e gli assist offerti dall’una all’altra Corte sul piano della tutela dei diritti fondamentali consentono una cross fertilization che ha condotto, senza dubbio, ad una massimizzazione delle tutele.
2. È poi noto come si siano sistematizzati i rapporti fra Corte Edu e Corte costituzionale dopo le “sentenze gemelle” e pur nella incertezza – soltanto temporanea – di contrasti rapidamente composti.
Ma cosa si è inceppato nel collaudatissimo meccanismo Granital/Simmenthal a tutti noto con il famoso obiter dictum della sentenza n. 269/17 nel triangolo fatale Corte di giustizia, Corte costituzionale, giudice comune? È sicuramente assodato che la Corte costituzionale abbia voluto giocare un ruolo di attrice protagonista, insinuandosi negli interstizi lasciati liberi dal peculiare self restraint della Corte di giustizia in tema di applicazione diretta della Carta dei diritti fondamentali.
È ormai altresì noto cosa sia accaduto nelle decisioni successive alla 269/17 della Corte costituzionale e come si sia discusso molto della stagione complessa che la Corte vive, pur nella tranquillizzante certezza offerta ai rapporti fra le Corti dai più recenti revirements.
E, tuttavia, qualcosa non torna. Ci spiazza.
Il giudice costituzionale Silvana Sciarra, da acuta studiosa di questi grandi temi ha evidenziato come nel suo rapporto sulla disapplicazione da parte dei giudici interni, in realtà, non si individui un campione particolarmente significativo delle disapplicazioni giudiziali e ha in più occasioni sottolineato la centralità di una interpretazione sistematica come strumento di composizione del sistema.
The European way of life è the way of life fondata sui diritti.
Uno degli orientamenti politici di Von der Leyen è proprio questo... lo dice oggi ma la Corte di giustizia lo diceva a chiare note già nel 1986 con la sentenza Les Verts (Corte giust. Causa 294/83).
Si tratta della concezione europea della vita.
È un unicum ed è la nostra specificità.
Il riferimento ad uno straordinario istituto giuridico del mondo asiatico che si chiama sanook può ulteriormente chiarire questo corollario. In lingua thai, sanook significa avere good time, essere felici e trarre piacere da qualcosa. Ebbene la finalità del benessere è così importante in quel sistema ordinamentale che il lavoratore dipendente che non tragga sanook dal proprio lavoro ha il diritto di lamentarsene con il datore ed il parallelo diritto ad essere destinatario di mansioni diverse.
Ecco: il benessere è la finalità prima del mondo Thai.
La tutela dei diritti l’unicum, lo specifico, la finalità fondamentale dell’Unione Europea.
Le parole sono importanti, certamente. Per alcuni, l’espressione “stile di vita europeo” è un’espressione carica e pregna di significati politici e, per noi operatori del diritto, di importantissimi significati sul piano del diritto e dei diritti.
3. E allora, se le parole sono importanti, due sono, senza dubbio, in base ad un sommario studio statistico, le più ricorrenti affermazioni che si rinvengono ad oggi nelle decisioni della Corte di giustizia: la prima, “spetta al giudice nazionale”; la seconda – che ritroviamo, solo per fare un esempio, nella Grande Sezione del 14 maggio 2019 (causa C – 55/18) in tema di orario di lavoro su rinvio pregiudiziale dell’Audencia Nacional, la Corte centrale spagnola – “nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali chiamati a interpretarlo sono tenuti a prendere in considerazione l’insieme delle norme di tale diritto e ad applicare i criteri ermeneutici riconosciuti dallo stesso al fine di interpretarlo, per quanto più possibile, alla luce della lettera e dello scopo del diritto dell’Unione” – : due richiami costanti all’impegno del giudice nazionale.
L’Unione europea è un’Unione di diritto. La Corte di giustizia, come già accennato, già a partire dalla sentenza Les Verts del 1986 con riferimento alla Comunità dell’epoca, insiste su questa connotazione “costituzionale” della costruzione europea, il che comporta che essa sia fondata non solo sul valore della democrazia, ma anche dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti fondamentali. È evidente che in tale percorso anche le sentenze appartenenti ai primi trent’anni successivi alla firma dei Trattati di Roma siano state indispensabili: nonostante la caratterizzazione spiccatamente economica, l’Unione non sarebbe quella che è oggi se non si fossero affermati, da parte dell’unico giudice cui ciò era consentito, il principio del primato e dell’effetto diretto e l’esistenza di un ordinamento di nuovo genere i cui soggetti non sono solo gli Stati membri ma anche i cittadini.
Ed infatti ben prima del Trattato di Lisbona, si tendeva ad individuare nel binomio “omogeneità europea – identità nazionali” non il limite ma, piuttosto, il fondamento del processo di costituzionalizzazione europeo. Si legittimava, così’, il percorso volto ad una costituzione a più livelli sulla base del processo di integrazione tra i Trattati, da un lato, e le Costituzioni degli Stati membri dall’altro.
A più di un decennio di distanza, anche alla luce delle profonde modificazioni intervenute, i due estremi della omogeneità europea e delle identità nazionali restano strumenti importanti per indagare lo stato di evoluzione della koinè dell’Unione, evoluzione nella quale, nel vuoto delle politiche, la primautè, la prevalenza del diritto europeo sul diritto degli Stati membri, come elaborata dalla Corte di Lussemburgo, ha avuto un ruolo sicuramente nodale.
L’effetto di “federalizzazione” di cui parlava la neo Presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia nel suo intervento nel cinquantesimo anniversario di Van Gend en Loos, di quella che oggi è l’Unione europea, garantito proprio a partire da quella sentenza, ha rappresentato il primo step di una rivoluzione “dolce” da cui è scaturito un soggetto nuovo e diverso da tutti gli altri organismi internazionali: ma il vero punto centrale di quella pronunzia, su cui spesso non ci si sofferma, è da rinvenirsi proprio nell’urgenza di garantire agli individui un ruolo centrale nella costruzione della Comunità Europea; da quel momento la centralità della tutela dell’individuo è costantemente ribadita dalla Corte.
Afferma l’avvocato generale Yves Bot al paragrafo 78 delle sue conclusioni nelle cause riunite Grande Sezione del 6 novembre 2018 Bauer e Willmeroth che il fatto che talune disposizioni di diritto primario si rivolgano, in primis, agli Stati membri non è idoneo a escludere che esse possano applicarsi nei rapporti fra privati, (già la Corte era stata ben chiara in questo senso nella sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger Causa C- 414/16).
La Corte, ci dicono i giudici di Lussemburgo nell’altra imponente sentenza del “pacchetto” sul diritto alle ferie del 6 novembre 2018, la Max Planck (Causa C- 684/16), ha già ammesso – proprio in Egenberger - che il divieto sancito all’articolo 21, paragrafo 1, della Carta e, cioè, il divieto di discriminazioni, è di per sé sufficiente a conferire ai soggetti privati un diritto invocabile in quanto tale in una controversia che li vede opposti a un altro soggetto privato, senza, quindi, che vi osti l’articolo 51, paragrafo 1, della Carta.
Se guardiamo alle sentenze sulle ferie “la vendemmia autunnale” come la definisce Giuseppe Tesauro, non possiamo non prendere sul serio le osservazioni di Massimo Condinanzi secondo cui ciò che la Corte dice sull art 51/1 – e cioè il fatto che la carta vincoli gli Stati non esclude che possa vincolare direttamente anche i cittadini – avrebbe potuto essere tranquillamente esportato sull’ art 288 del trattato. Esattamente questa domanda poneva al Presidente Lenaerts l’Avvocato Generale Szpunar a Lussemburgo nel corso del Forum dei Giudici delle Corti Supreme Europee del 17-19 novembre scorso.
E allora la querelle si sposta sulla efficacia orizzontale delle direttive fino al punto di indurre qualcuno – suggestiva la ricostruzione di Eleanor Spaventa – a chiedersi provocatoriamente perché, in tema di ferie, la Corte di giustizia abbia voluto riconoscere l’efficacia orizzontale ad un articolo della Carta – oltre il mainstreaming divieto di discriminazione – e non abbia invece, più semplicemente, riconosciuto l’efficacia diretta orizzontale delle direttive.
A guardar bene forse il punto della Corte di giustizia sulla Carta in qualche modo andava fatto: come si può riconoscere ad una fonte lo stesso rango giuridico dei Trattati e poi non attribuirle in concreto la medesima efficacia degli stessi?
Resta un nodo: qualcosa è cambiato anzi qualcosa si è “inceppato” ed è necessario allora individuare gli strumenti più adeguati per sbloccare l’impasse e ricondurre il sistema alla migliore delle composizioni possibile.
4. Nella società postmoderna, liquida secondo Zygmunt Bauman, anche le fonti sono liquide e difficilmente circoscrivibili ma c’è un criterio, come vedremo, che tende a ricondurle ad unità.
Non può dimenticarsi che la legge vive nel momento della sua interpretazione e l’unità dell’ordinamento, per dirla con Vezio Crisafulli, non è un dato bell’e pronto, ma una conquista sempre rinnovantesti cui si perviene per il tramite dell’interpretazione.
Parte della dottrina trova la quadra condivisibilmente nella centralità del rinvio pregiudiziale.
L’operatore, soprattutto quando giudice in sede nomofilattica, non può che tentare, ancora prima, una strada diversa.
A tale strada conduce oggi in modo ancora più convinto la sentenza Poplawsky II ( causa C – 573/17), Grande Sezione del 24 giugno 2019.
Tale pronunzia sentenza non ha certo tirato l’operatore fuori dal guado sul punto della disapplicazione: essa, anzi, a guardar bene, riapre ogni querelle lasciando l’interprete solo di fronte ad ostacoli non certo di facile soluzione nell’affermare a chiare lettere che soltanto in presenza di norme dotate di effetto diretto la disapplicazione è possibile.
Eppure una strada c’è.
5. L’interpretazione conforme, ci ricorda la Corte in Poplawsky II, si pone come una estrinsecazione della primazìa, da cui discende direttamente, e della leale collaborazione (secondo il disposto dell’art. 4.3 TUE); essa è “effetto strutturale” della norma comunitaria (per utilizzare le parole dell’allora Avvocato Generale Tizzano, nella causa Mangold, Grande Sezione del 22 novembre 2005, causa C- 144/2004), in quanto diretta ad assicurare il continuo adeguamento del diritto interno al contenuto ed agli obiettivi dell’ordinamento comunitario.
Più in generale, si può osservare che si è distinto fra direct effect, indirect effect e Grimaldi effect per sostenere, muovendo dalla nota pronunzia della Cgue (Grimaldi, Grande Sezione 13 novembre 1989, causa C-322/88) che anche in ordine alle stesse raccomandazioni si impone il ricorso all’interpretazione conforme.
L’interpretazione conforme è inerente al sistema del Trattato e si estende all’ordinamento nazionale nel suo complesso (anche ai contratti collettivi come affermato dalla Corte di Giustizia in Pfeiffer (Grande Sezione del 5 ottobre 2004, causa C- 397/01). Questa sentenza destò ampio interesse – proprio nel momento in cui Federico Mancini stigmatizzava la provinciale chiusura della cultura giuridica italiana, che si manifesta nel testardo rifiuto all’impiego delle fonti internazionali – perché apriva finalmente lo scrutinio del giudice ai contratti collettivi.
Già nel 1984 con l’enucleazione del noto principio Von Colson (Grande Sezione 10 aprile 1984, Causa 14/83) la Corte di giustizia sanzionava l’impegno per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell’ambito della loro competenza, quelli giurisdizionali, di conseguire il risultato contemplato dalla direttiva, come pure l’obbligo, imposto dall’art. 5 del Trattato, (poi 10, ora 4 Tue) di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale impegno.
L’interpretazione conforme, infatti, si estrinseca nell’obbligo gravante su tutti gli interpreti del diritto nazionale di prendere in considerazione tutte le norme del diritto interno – ed utilizzare tutti i metodi di interpretazione ad esso riconosciuti- per addivenire ad un risultato conforme a quello voluto dall’ordinamento comunitario.
Nella elaborazione giurisprudenziale comunitaria, molta strada è stata fatta da quando la Corte, nel 1963, proclamava il principio degli effetti diretti del Trattato, quale fonte di diritti per i singoli azionabili dinanzi alle Corti degli Stati membri. Passando per l’affermazione dell’obbligo di interpretazione della normativa interna in conformità alle direttive comunitarie come operante “as far as possibile”, secondo il principio Marleasing, Causa 13 novembre 1990 C- 106/89) la Corte ha poi di recente confermato, (prima nella discussa Mangold (causa C- 144/04 cit.) ma poi, in Kücükdeveci (Grande Sezione 19 gennaio 2010, causa C- 555/07, Dominguez, Grande Sezione del 23 gennaio 2012, causa C 282/10, Dansk Industri, Grande Sezione 19 aprile 2016, causa C- 441/14 e oggi in Poplawsky II ( causa C – 573/17 cit.) il ruolo centrale dell’interpretazione conforme quale strumento di soluzione delle antinomie.
6. Se consideriamo l’attività ermeneutica del giudice non possiamo non sottolineare che non esiste un’interpretazione unica ed oggettiva se non in casi rarissimi: nella maggior parte delle ipotesi è possibile ricavare più norme da una singola disposizione.
I giudici comuni utilizzano i tradizionali criteri di soluzione delle antinomie (cronologico, gerarchico, di specialità, di competenza) e gli strumenti ermeneutici previsti dalle disposizioni sulla legge in generale (interpretazione letterale, interpretazione logico-sistematica, interpretazione teleologica, estensiva e analogia).
Ed è proprio la tendenziale insufficienza di tali strumenti ermeneutici e di soluzione delle antinomie e, in particolare, l’inidoneità del criterio gerarchico con riferimento ai rapporti fra ordinamento interno e ordinamenti sovranazionali e, quindi, fra norme interne e norme esterne, ad aver indotto alla straordinaria fioritura dell’interpretazione conforme come strumento di chiusura del sistema.
Colpisce molto la domanda di pronuncia pregiudiziale del 23 agosto scorso, proposta da una Corte non suprema polacca nella quale si chiede ai giudici di Lussemburgo se gli effetti delle direttive e la pertinente giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea al riguardo, quale Rasmussen, C 441/14,; Pfeiffer, da C 397/01 a C 403/01 cit.; Kücükdeveci, C 555/07 cit.; Impact, C 268/06; Dominguez, C 282/10, e Association de médiation sociale, C 176/12,, ostino ad una prassi nazionale in base alla quale il giudice nazionale è giunto alla conclusione circa l’interpretazione conforme al diritto dell’UE senza impiegare metodi interpretativi anzidetti (gli strumenti polacchi sono assai simili a quelli italiani) e senza una debita motivazione: insomma, il giudice si chiede se può arrivare ad una decisione riguardo l’interpretazione conforme ma solo una volta esperiti compiutamente tutti i canoni interpretativi riconosciuti dal sistema, pena, si potrebbe arguire, la responsabilità ex Francovich (Cass. 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90).
L’obbligo di interpretazione conforme ha nel tempo acquisito sempre maggiori spazi di applicazione: l’esempio più evidente del progressivo ampliamento, operato per via pretoria, del campo d’applicazione dell’obbligo in discorso è rappresentato dalla sua estensione anche al cd. terzo pilastro. La Corte di giustizia ha stabilito infatti che «il principio di interpretazione conforme si impone riguardo alle decisioni quadro adottate nell’ambito del titolo VI del Trattato sull’Unione europea» (fra le più recenti, Corte Giust. 10 agosto 2017 Tadas Tipikas e oggi Poplawsky II cit.).
Nella Grande Sezione Dansk Industri del 19 aprile 2016, (causa C- 441/14)la Corte stabiliva che né il principio della certezza del diritto, né quello della tutela del legittimo affidamento né la possibilità per il privato che si ritenga leso dall’applicazione di una disposizione nazionale contraria al diritto dell’Unione di far valere la responsabilità dello Stato membro interessato per violazione del diritto dell’Unione possano incidere sull’obbligo per il giudice nazionale di assicurare un risultato conforme a quello voluto dalla direttiva.
Ma già prima, in Dominguez l’ordine dei fattori era stato significativamente mutato: per la prima volta, a chiare lettere, la Corte di giustizia disegnava la disapplicazione come extrema ratio, insistendo in quella che sarà poi la summa dei suoi dettami in tema di interpretazione conforme, sulla assoluta centralità dell’impegno del giudice nazionale di fare tutto ciò che rientra nelle proprie competenze per addivenire ad un risultato conforme a quello del diritto dell’Unione.
7. Che cosa cambia in Poplawsky II, la Grande Sezione del 24 giugno scorso?
Nihil novi sub sole potrebbe dirsi, eppure qualcosa di nuovo c’è ed è nel basso continuo della Corte proprio sulla centralità dell’interpretazione conforme in quanto estrinsecazione del principio del primato.
In Poplawsky II quella interconnessione fra primato e interpretazione conforme diventa totalizzante.
Afferma la Corte in Poplawsky II che, al fine di garantire l’effettività dell’insieme delle disposizioni del diritto dell’Unione, il principio del primato impone, in particolare, ai giudici nazionali di interpretare, per quanto possibile, il loro diritto interno in modo conforme al diritto dell’Unione e di riconoscere ai singoli la possibilità di ottenere un risarcimento qualora i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto dell’Unione imputabile a uno Stato membro (La Corte evidenzia subito che ci tiene a richiamare la giurisprudenza Francovich, negli ultimi tempi apparentemente caduta nel dimenticatoio).
Ed è sempre in base al principio del primato che, ove non possa procedere a un’interpretazione della normativa nazionale conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione, il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di tale diritto ha l’obbligo di garantire la piena efficacia delle medesime, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale.
Il principio del primato del diritto dell’Unione d’altro canto, ed è questo il vero punctum pruriens che sembra lasciarci inermi di fronte alle ipotesi di doppia pregudizialità, osserva la Corte, non può condurre a rimettere in discussione la distinzione essenziale tra le disposizioni del diritto dell’Unione dotate di effetto diretto e quelle che ne sono prive, né, pertanto, a instaurare un regime unico di applicazione di tutte le disposizioni del diritto dell’Unione da parte dei giudici nazionali: una disposizione del diritto dell’Unione che sia priva di effetto diretto non può essere fatta valere, in quanto tale, nell’ambito di una controversia rientrante nel diritto dell’Unione, al fine di escludere l’applicazione di una disposizione di diritto nazionale ad essa contraria.
Conseguentemente, il giudice nazionale non è tenuto, sulla sola base del diritto dell’Unione, a disapplicare una disposizione del diritto nazionale incompatibile con una disposizione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, come il suo articolo 27, sia priva di effetto diretto.
D’altro canto, anche se chiara, precisa e incondizionata, una disposizione di una direttiva non consente al giudice nazionale di disapplicare una disposizione del suo diritto interno ad essa contraria se, in tal modo, venisse imposto un obbligo aggiuntivo a un singolo.
Quindi, dice la Corte, poiché le decisioni quadro sono prive di effetto diretto in forza del Trattato UE stesso, un giudice di uno Stato membro non è tenuto, sulla sola base del diritto dell’Unione, a disapplicare una disposizione del suo diritto nazionale contraria a tali decisioni quadro. Nondimeno, anche se le decisioni quadro non possono avere effetto diretto, il loro carattere vincolante comporta tuttavia in capo alle autorità nazionali un obbligo di interpretazione conforme del loro diritto interno a partire dalla data di scadenza del termine di recepimento di tali decisioni quadro, ovviamente purché tale interpretazione non si traduca in interpretazione contra legem del diritto nazionale.
Conseguentemente, un giudice nazionale non può, in particolare, validamente ritenere di trovarsi nell’impossibilità di interpretare una disposizione nazionale conformemente al diritto dell’Unione per il solo fatto che detta disposizione è stata costantemente interpretata in un senso che è incompatibile con tale diritto o è applicata in un modo siffatto dalle autorità nazionali competenti e, soprattutto, quanto al caso di specie, la circostanza che un’interpretazione della legge nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione sia sostenuta dal Ministro non osta in alcun caso all’obbligo di interpretazione conforme gravante sul giudice del rinvio.
Ciò vale a maggior ragione in quanto la decisione quadro 2002/584 istituisce un meccanismo di cooperazione tra le autorità giudiziarie degli Stati membri, e in quanto la decisione relativa all’esecuzione di un MAE deve essere adottata da un’autorità giudiziaria che soddisfi i requisiti inerenti a una tutela giurisdizionale effettiva, fra i quali rientra la garanzia d’indipendenza, in modo che l’intera procedura prevista da tale decisione quadro sia esercitata sotto controllo giudiziario.
8. Il rapporto osmotico fra interpretazione e disapplicazione quale extrema ratio appare di grande evidenza nella decisione resa dalla Corte di cassazione in sede di rinvio nella nota vicenda Abercrombie e Fitch.
Tornata la questione dalla Corte di giustizia in seguito a rinvio pregiudiziale, il Collegio della Corte di cassazione (Sez. Lav., n. 4223 del 21/02/2018) esordisce evidenziando che la Cgue ha offerto una risposta univoca ed esaustiva ai quesiti formulati in sede di rinvio, nell’escludere che le norme di fonte UE ostino ad una disposizione nazionale come quella oggetto del procedimento principale che autorizza la conclusione di contratti di lavoro con giovani infraventicinquenni.
La Corte di legittimità allora, alla luce dell’art. 267 TFUE e dell’obbligo di collaborazione sancito dall’art. 4 comma terzo TUE in base al quale gli Stati membri adottano ogni misura atta a garantire l’esecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione, nonché dello stesso art. 19 TUE, non può che attenersi a quanto accertato dalla Corte di giustizia, non avendo il potere di darne una interpretazione diversa, in quanto il giudizio di rinvio non si configura come una sede nella quale sia possibile contestare od impugnare quanto deciso dalla Corte di giustizia.
Nell’esaminare, poi, le censure avanzate dalla difesa del lavoratore, il Collegio esclude la possibilità di ricorrere nuovamente in via pregiudiziale alla Corte di giustizia, per avere quest’ultima esaminato tutti gli aspetti rilevanti in sede sovranazionale della vicenda e ritenuto la disposizione oggetto di censura “appropriata e necessaria”. Ma il Collegio ritiene, altresì, di disattendere anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, alla luce dell’art. 3 Cost., sottopostale per difetto di ragionevolezza della previsione di estinzione del rapporto.
Non vi sono ragioni, afferma il Collegio, per ritenere che la Carta costituzionale offra una tutela antidiscriminatoria più incisiva di quella derivante dalle fonti sovranazionali, soprattutto alla luce delle più recenti evenienze legislative, volte a rafforzare le politiche e gli strumenti di contrasto alla discriminazione sul lavoro, facendone un momento prioritario di regolazione da parte dell’Unione, oltre che oggetto di supervisione mediante l’Agenzia per i diritti fondamentali e i periodici Report della Commissione e del Parlamento sul rispetto della Carta dei diritti.
Il Collegio richiama, a questo punto, le più recenti ed accreditate opinioni dottrinali per affermare che, proprio nel settore del contrasto alla discriminazione deve ritenersi verificata una “fusione di orizzonti tra il livello interno, sovranazionale ed anche quello convenzionale (attestato dalle moltissime decisioni della Corte costituzionale che hanno applicato negli ultimi anni l’art. 14 della Cedu), reso più spontaneo ed efficace dal carattere particolarmente intenso delle tutele previste dall’Unione … Pertanto non vi è alcuna evidenza e nemmeno plausibilità a favore della tesi per cui il nostro ordinamento possa offrire una diversa soluzione della questione del carattere discriminatorio (anche sotto il profilo della irrazionalità) della disposizione qui in discussione, non solo perché nel settore le politiche dell’Unione sono particolarmente avanzate, ma anche in quanto gli obiettivi sociali menzionati dalla Corte di giustizia sono comuni al nostro ordinamento costituzionale”.
9. Questo, lo straordinario punto di sutura, quello che consente davvero di rendere meno “drammatica” ogni querelle in tema di rapporti fra ordinamenti e che è in grado di ridurre, in modo “indolore”, il sistema ad unità: i diversi orizzonti ordinamentali che tendono a convergere affiancandosi senza confliggere né sovrapporsi.
La massima espansione delle tutele trova allora nell’integrazione fra le fonti il proprio grimaldello: per dirla con la stessa Corte costituzionale italiana nella sentenza n. 194/2018, si realizza, in tal modo, un’integrazione tra fonti e – ciò che più rileva – tra le tutele da esse garantite.
Daniele Gallo, nella sua pregevole ricostruzione dei rapporti sistematici fra le Corti, nella parte nodale opina come segue: la struttura del rinvio pregiudiziale e le sue finalità, implicano che i giudici dell’Unione abbiano il compito di verificare se una disposizione abbia effetto diretto, ma, anche, che in assenza di prova del contrario, le previsioni del diritto dell’Unione devono essere considerate come munite di esso e che, comunque, l’ultima parola al riguardo spetta alla Corte di giustizia.
L’operatore del diritto cerca di individuare anche un’ulteriore strada, quella più “liquida” per il giudice ma, sicuramente, quella che ab origine ha rappresentato e, senza dubbio, continua a rappresentare, lo strumento di chiusura del sistema.
Entrambe le strade muovono da un assioma, quello del primato. La strada che si cerca qui di proporre si dipana, tuttavia, lungo i binari dell’obbligo di collaborazione declinato nella sua chiave interpretativa più rilevante, quella dell’interpretazione conforme.
In questo contesto, quella che echeggiando Weiler potremmo definire “conversazione” fra le Corti è andata arricchendosi e complicandosi nel tempo, imponendo ad ogni giudice di adempiere all’obbligo di leale collaborazione impostogli dall’art. 4 del Trattato, declinandolo quotidianamente, nell’esaminare il caso concreto, in una serie di sfaccettature e di tutele un tempo inimmaginabili.
Tutta la difficile vicenda sulla doppia pregiudizialità può trovare un’utile mezzo di composizione nella centralità della interpretazione conforme come strumento di sutura, centralità che ha trovato nella sentenza Poplasky II della Corte di giustizia il proprio crisma sollevando ancora una volta gli interpreti dall’impasse e rendendo meno drammatica tutta la questione degli effetti diretti della Carta dei diritti fondamentali.
Ovviamente tutto ciò si risolve in una rinnovata responsabilità per il giudice che non può facilmente esimersi da impegni interpretativi cogenti, rinviando all’una o all’altra Corte, ma conserva e rafforza il proprio ruolo centrale come organo di base dello spazio giudiziario europeo.
E se tale corollario venisse a configurarsi, oggi, se utilizzato in modo serio e convinto, come strumento di primario ausilio per il giudice nazionale in vista di una nuova e più consapevole applicazione della giurisprudenza Cilfit ( Cass. 6 ottobre 1982, causa 283/81), anch’essa, si immagina, in attesa di attualizzazione parte della Corte di giustizia?
10. È ben noto come, dopo Francovich, Cilfit, e Traghetti del Mediterraneo (Corte giust. 13 giugno 2006, causa C173/03) il giudice di ultima istanza si sia sentito non solo più che motivato nell’instaurare un dialogo diretto con la Corte di giustizia, ma, talora, quasi nell’impossibilità di scegliere altra strada, dando la stura ad una vera “esplosione” di rinvii pregiudiziali.
È altresì noto che la Corte di giustizia, in Cilfit rispondeva al quesito rivoltole in via pregiudiziale dalla Corte di cassazione italiana affermando che l’art. 177, 3 comma, va interpretato nel senso che una giurisdizione le cui decisioni non sono impugnabili secondo l’ordinamento interno, è tenuta, qualora una questione di diritto comunitario si ponga dinanzi ad essa, ad adempiere al suo obbligo di rinvio, salvo che non abbia constatato che la questione non è pertinente o che la disposizione comunitaria di cui è causa ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte ovvero che la corretta applicazione del diritto comunitario si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi; la configurabilità di tale eventualità va valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto comunitario, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze di giurisprudenza all’interno della Comunità.
Un obbligo di rinvio pregiudiziale, come è evidente, a maglie larghissime…
La Corte, in sostanza, osserva che l’obbligo di sottoporre alla Corte di giustizia le questioni d’interpretazione del Trattato rientra nell’ambito dell’obbligo di collaborazione, al fine della corretta ed uniforme applicazione delle norme comunitarie fra giudici nazionali e Corte di giustizia e che l’art. 177 mira più particolarmente ad evitare che si producano divergenze giurisprudenziali all’interno della Comunità su questioni di diritto comunitario.
Eppure, nel tempo, l’autorità giurisdizionale di ultima istanza si è mostrata sempre più consapevole del proprio ruolo di organo di base dello spazio giudiziario europeo, di interprete, talora primo ed ultimo del sistema ordinamentale integrato, ovvero del rapporto fra legislazione interna e legislazione dell’Unione e fondamentale e, in tale percorso, si è rivelato un sempre più serio e convinto uso dell’interpretazione conforme.
Si ponga attenzione, solo per fare un esempio concreto, alle decisioni della Corte di cassazione nn. 6679 e 6680 del 19 marzo 2019 in tema di contratti di lavoro a termine alle dipendenze del Teatro dell’Opera di Roma; si è ivi ritenuto, con riguardo al blocco delle assunzioni riconducibile alle leggi finanziarie relative agli anni 2006 e 2007 nell’ambito delle Fondazioni Liriche, che si imponesse l’interpretazione conforme della normativa considerata all’ultima parte della decisione resa dalla Corte di giustizia nella causa Sciotto, (Corte di giust. 25 ottobre 2018, causa C-331/17) ed alla necessità di evitare gravi disparità di trattamento anche alla luce della dottrina Milkova (V. Corte Giust. 9 marzo 2017, Causa C- 406/15) dovendo scongiurarsi il rischio che la distinzione operata da una normativa nazionale tra i lavoratori subordinati a tempo determinato alle dipendenze di un qualsiasi datore di lavoro privato e quelli che svolgano le medesime mansioni alle dipendenze di una Fondazione lirica, non risultasse adeguata al fine perseguito da tale normativa.
È ciò che il giudice di ultima istanza deve sforzarsi di fare, ogni qualvolta gli riesca non solo di evitare il coinvolgimento della Corte di giustizia, ma, anche, della stessa Corte costituzionale, pur in presenza di questioni che, nel rispetto dell’art. 51 CDFUE, involgano la Carta, poiché solo in tal modo si interpreterà fino in fondo l’obbligo di leale collaborazione gravante sull’interprete ai sensi dell’art 4 del Trattato.
11. D’altra parte, da quanto argomentato dalla Corte di giustizia nella Poplasky II, sono derivate conseguenze di non poco momento.
Di fronte al timore delle Corti Supreme nazionali per una tendenza dei giudici verso una sorta di sindacato diffuso di costituzionalità operato per il tramite della Carta, il richiamo dell’interpretazione conforme come diretta emanazione del principio del primato non poteva che condurre ad una esaltazione del ruolo nodale dell’interpretazione e, nel suo ambito, della interpretazione conforme, nel percorso spesso delicato e complesso volto alla soluzione delle antinomie.
A fronte di tale intenso impegno interpretativo, la querelle relativa agli effetti diretti perde drammaticità se non addirittura consistenza.
L’interpretazione adeguatrice, non solo al diritto costituzionale ma anche al diritto dell’Unione si configura come lo straordinario punto di sutura, quello che consente davvero di rendere meno “drammatica” ogni querelle in tema di rapporti fra ordinamenti e che è in grado di ridurre, in modo “indolore”, il sistema ad unità: i diversi orizzonti ordinamentali che tendono a convergere affiancandosi senza confliggere né sovrapporsi nell’immanenza del principio secondo cui più tutele garantiscono una maggior tutela dei diritti fondamentali.
Sovvengono le parole del Presidente del Consiglio di Stato: Filippo Patroni Griffi nella sua prolusione significativamente intitolata “Convergenza fra carte e criticità fra Corti nel dialogo fra giudici supremi” si domanda se nell’attuale realtà multilivello sia ancora opportuno parlare di giudici supremi o se, piuttosto, debba parlarsi di “giudici superiori” per descrivere i rapporti non certo improntati da una connotazione gerarchica ma piuttosto informati ai canoni del dialogo e del confronto fra giudici appartenenti a ordinamenti diversi.
Giudici che non solo rappresentano lo strumento nodale delle tutele dei diritti fondamentali in Europa, ma rappresentano anche, nel vuoto delle politiche, come direbbe Stefano Rodotà e come oggi ribadisce Van Caneghen, lo strumento centrale dell’integrazione europea.