Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Divieto di discriminazione religiosa sul lavoro e organizzazioni religiose

di Nicola Colaianni
già consigliere della Corte di cassazione<br>professore di Diritto ecclesiastico, Università di Bari
La Corte di giustizia si occupa per la prima volta dell’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78/CE sui limiti dell’esenzione delle organizzazioni di tendenza religiosa dal divieto di discriminazioni di carattere religioso in materia di lavoro. A fronte di un ordinamento come quello tedesco, che ha dato attuazione piuttosto blanda alla direttiva favorendo ampiamente l’autonomia confessionale e limitando conseguentemente il controllo giurisdizionale alla mera plausibilità del provvedimento confessionale, Corte giust. 17 aprile 2018, causa C-414/16 opta per l’interpretazione rigorosa del carattere essenziale, legittimo e giustificato del nesso tra mansioni del lavoratore e attività dell’ente, da accompagnare con l’applicazione del principio di proporzionalità (dalla stessa direttiva non richiamato espressamente). Il riconoscimento di una cognizione piena ed esauriente da parte del giudice consente una valutazione oggettiva, e non spiritualistica, del rapporto tra lavoro e tendenza in direzione di una tutela più efficace dei cittadini da discriminazioni di carattere religioso.

1. S’era subito caratterizzata per la sua lacunosità la direttiva europea 2000/78/CE sul divieto di discriminazione religiosa, nonché per orientamento sessuale o per disabilità: a differenza della 2000/43/CE sullo stesso divieto per razza o origini etniche (e poi della 2004/113/CE sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di accesso a beni e servizi e la loro fornitura) il divieto non è generale ma solo in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. E non s’è finora realizzato il tentativo della Commissione di una proposta di direttiva del Consiglio, COM (2008) 426 def., per riaffrontare il tema in termini di «pluridiscriminazione».

Ma anche rispetto alla sola discriminazione religiosa con il tempo s’era riscontrata una mancanza di perspicuità della direttiva, dovuta alla serie di limiti e controlimiti previsti, che l’assenza di pronunce della Corte di giustizia non contribuiva a chiarire. In certa misura ha supplito la giurisprudenza di Strasburgo sui diritti della Convenzione Edu, che costituiscono parte integrante del diritto dell’Unione «in quanto principi generali» (art. 6 del trattato di Lisbona). Ma si tratta di giurisprudenza non consolidata, perché limitata a poche pronunce, due delle quali, pubblicate lo stesso giorno, sono apparentemente opposte: invero, lo stesso fatto di vita privata (relazione extraconiugale) è giudicato contrario all’etica dell’organizzazione religiosa nel caso di un importante ufficiale della Chiesa mormone ma non anche in quello dell’organista e maestro del coro di una parrocchia cattolica [1]. Era perciò da tempo auspicato un intervento della Corte di giustizia, attraverso il rinvio pregiudiziale di interpretazione, idoneo ad orientare legislatori e giudici nazionali sulla effettiva portata della normativa eurounitaria sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, in particolare, per il divieto di discriminazione religiosa.

La sentenza appena pubblicata [2] è importante anche per la novità della questione portata pregiudizialmente all’esame della Corte: la discriminazione fondata sulla religione, di cui la ricorrente sostiene di essere stata vittima (ed in effetti tale è stata riconosciuta nei primi due gradi del giudizio), riguarda non un licenziamento ma una procedura di assunzione: profilo, questo, pure rientrante nel campo di applicazione della direttiva («condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro» e ai «corsi di orientamento, formazione, perfezionamento e riqualificazione professionale») ma finora esaminato solo come effetto di una discriminazione potenziale, ravvisata nel fatto che un datore di lavoro dichiari pubblicamente che non assumerà lavoratori dipendenti aventi una determinata origine etnica o razziale, dichiarazione ritenuta idonea «a dissuadere fortemente determinati candidati dal presentare le proprie candidature e, quindi, a ostacolarne l’accesso al mercato del lavoro» [3].

2. Nel caso l’Evangelisches Werk für Diakonie und Entwicklung aveva pubblicato un’offerta di lavoro a tempo determinato per un progetto relativo alla stesura di una relazione parallela a quella dello Stato tedesco sulla convenzione internazionale delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. I compiti da svolgere comprendevano, inoltre, l’accompagnamento del processo di stesura delle relazioni redatte dagli Stati e la rappresentanza, nell’ambito del progetto, della Diaconia tedesca nei confronti del mondo politico, del pubblico e delle organizzazioni di difesa dei diritti umani, nonché la collaborazione nell’ambito dei comitati, l’informazione e il coordinamento del processo di formazione dell’opinione nel settore dell’associazione, l’organizzazione, l’amministrazione e la stesura di relazioni tecniche nel settore di lavoro. L’offerta era destinata ai soli appartenenti alle chiese evangeliche o comunque cristiane mentre la ricorrente non apparteneva ad alcuna religione e perciò veniva esclusa dalla selezione.

La differenza di trattamento basata sulla religione è pacifica ma, a giudizio della Evangelisches Werk, essa sarebbe giustificata dall’articolo 9, paragrafo 1, dell’Allgemeines Gleichbehandlungsgesetz (legge generale sulla parità di trattamento), del 14 agosto 2006 (in prosieguo: l’AGG), attuativa della direttiva 2000/78/CE nel diritto tedesco, che la dichiara «altresì lecita quando una determinata religione o convinzione personale costituisce, tenuto conto delle regole della coscienza ecclesiale della rispettiva comunità religiosa o associazione sotto il profilo del suo diritto all’autodeterminazione o a seconda della natura della sua attività, un requisito giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa». Il diritto di richiedere l’appartenenza a una Chiesa cristiana rientra, secondo l’Evangelisches Werk, appunto nel diritto all’autodeterminazione della Chiesa, tutelato dall’articolo 140 del GrundGesetz (che richiama l’art. 137, paragrafo 3, della Costituzione di Weimar, secondo cui «ogni associazione religiosa disciplina e gestisce in modo autonomo i propri interessi, nei limiti delle leggi generali»), conformemente all’art. 17 Tfue. E, data la natura dell’attività considerata nell’offerta di lavoro, esso è giustificato dalla «coscienza ecclesiale» alla stregua della Grundordnung der Evangelischen Kirche in Deutschland (regolamento fondamentale della Chiesa evangelica di Germania), che consente di derogarvi solo «per compiti che esulano dalla proclamazione del Vangelo, dall’assistenza spirituale, dall’insegnamento o dalle funzioni direttive, qualora non sia possibile trovare altri collaboratori e collaboratrici adeguati».

Di diverso avviso, presumibilmente basato sull’estraneità della relazione oggetto del lavoro a tali compiti strettamente ecclesiali, era l’Arbeitsgericht Berlin, che si limitava solo a ridurre l’entità del risarcimento richiesto, poi confermato dal Landesarbeitsgericht BerlinBrandenburg. Il Bundesarbeitsgericht riteneva, invece, che l’esito della controversia dipendesse dall’interpretazione dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 2000/78, trasposto nel diritto nazionale dall’art. 9 dell’AGG. Di qui tre quesiti posti pregiudizialmente alla Corte di giustizia.

3. Per affermare la rilevanza dell’interpretazione della direttiva risultava, tuttavia, preliminare la questione della sindacabilità dei provvedimenti delle autorità confessionali, collocata infatti come primo dei tre quesiti rivolti alla Corte dal giudice rimettente. La domanda potrebbe sembrare retorica, a porsi dal punto di vista dell’ordinamento italiano, in cui il principio di autonomia confessionale (art. 8 cpv. Cost.; anzi sovranità per la Chiesa cattolica ex art. 7, comma 1) – pur a lungo interpretato nel senso che «tutto ciò che fa la Chiesa è ben fatto» [4] – sfocia in quello di «distinzione degli ordini distinti» (Corte cost. n. 334/1996), che costituisce l’essenza del principio supremo di laicità, per cui sono esenti dal sindacato giurisdizionale i soli atti che esauriscono i loro effetti nell’ambito dell’ordinamento confessionale. Questa conclusione emerge con nitidezza in due casi estremi perché previsti da un trattato internazionale, come quello lateranense del 1929. Il primo riguarda le sentenze ed i provvedimenti emanati da autorità ecclesiastiche circa persone ecclesiastiche in materia spirituale e disciplinare: secondo l’art. 23 di quel trattato essi «avranno senz’altro piena efficacia giuridica, anche a tutti gli effetti civili», ma – ha poi corretto il protocollo addizionale dell’accordo di revisione del 1984 (legge n. 121/1985) – sempre che quegli effetti risultino «in armonia con i diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini italiani». Il secondo caso riguarda gli atti «esenti da ogni ingerenza dello Stato italiano»: sono tali solo quelli degli «enti centrali della Chiesa cattolica» (art. 11 del Trattato), sindacabili, invece, tutti gli altri e, in particolare, i rapporti lavorativi, che non involgono atti compiuti iure imperii [5] e perciò sono soggetti ad un controllo giurisdizionale a cognizione piena ed esauriente, alla stregua, quindi, anche della direttiva europea.

La domanda non è retorica, invece, a porsi dal punto di vista dell’ordinamento tedesco perché il «privilegio di autodeterminazione delle Chiese», stabilito dall’art. 9 AGG, secondo la giurisprudenza costituzionale consente all’autorità giudiziaria un mero «controllo di plausibilità sulla base delle regole della coscienza ecclesiale»: al punto – osserva il giudice a quo – che perfino se tali regole «dovessero implicare che si deve provvedere a coprire tutti i posti di lavoro tenendo conto dell’appartenenza religiosa, e questo indipendentemente dalla natura di tali posti di lavoro, ciò dovrebbe essere accettato senza un approfondito controllo giurisdizionale».

Non a caso mentre la legge italiana riproduce letteralmente i tre caratteri che il requisito della religione deve avere secondo la direttiva – «essenziale, legittimo e giustificato» – quella tedesca richiama solo quest’ultimo, dando così maggior libertà di manovra alle organizzazioni datoriali di tendenza religiosa e limitando conseguentemente il potere di controllo del giudice.

D’altro canto, il favor per l’autonomia confessionale prevale anche nella potenzialmente ausiliaria giurisprudenza della Corte Edu, che così ha rigettato i ricorsi di un’associazione parasindacale di preti ortodossi, vietata in Romania, e di un insegnante di religione nelle scuole spagnole per ritiro del nulla osta da parte della Conferenza episcopale [6]. Per vero, a conferma che quella Corte è giudice dei casi e non della nomofilachia, ce n’è uno in cui essa ha ammesso un controllo giurisdizionale, sia pure mediato, addirittura di un atto della Santa Sede, quale il «gradimento, sotto il profilo religioso», dei professori dell’Università cattolica del sacro cuore: la riconosciuta autonomia confessionale è stata bilanciata con il diritto del docente ad un controllo giurisdizionale del nesso tra le ragioni dello sgradimento e il suo insegnamento [7]. Ma una rondine non fa primavera.

Si capisce perciò l’importanza della risposta affermativa e non scontata di Lussemburgo al quesito preliminare del giudice tedesco: l’allegazione dell’organizzazione confessionale «deve, se del caso, poter essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo al fine di assicurarsi che, nel caso di specie, siano soddisfatti i criteri di cui all’articolo 4, paragrafo 2, della suddetta direttiva». Ciò che esula dal sindacato del giudice è solo l’etica dell’organizzazione religiosa, sostiene la Corte appoggiandosi alla Fernández Martínez della Corte Edu cit. (n. 61), non pure la questione principale: se cioè la religione costituisca, «per la natura dell’attività di cui trattasi o per il contesto in cui viene espletata, un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica di tale Chiesa o di tale organizzazione». Infatti, osserva persuasivamente la Corte, qualora il controllo del rispetto di tali criteri «spettasse, in caso di dubbio, non a un’autorità indipendente, quale un giudice nazionale, bensì alla Chiesa o all’organizzazione che intende mettere in atto una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali, sarebbe svuotato di ogni significato» (n. 46).

Pertanto, non basta una delibazione sommaria, di mera «plausibilità» e senza approfondimento interpretativo, ma occorre un controllo «effettivo», cioè a cognizione piena ed esauriente (non ostacolato, aggiunge la Corte ai nn. 57 ss., dall’art. 17 Tfue, che esprime solo la neutralità dell’Unione nei confronti dell’organizzazione, da parte degli Stati membri, dei loro rapporti con le Chiese e le associazioni o comunità religiose, ma anzi imposto dagli artt. 47 e 51 della Carta di Nizza: n. 49).

4. Una volta ammesso il controllo giurisdizionale effettivo, diventa fondamentale l’interpretazione dei controlimiti posti dalla direttiva al limite di applicabilità in favore delle organizzazioni religiose, che per la prima volta la Corte ha l’occasione di fornire. Non è stato necessario definire i concetti di organizzazione religiosa e di religione, che in diverse sentenze ha impegnato invece la Corte Edu e con esiti al solito non univoci [8], essendo pacifico che tali caratteri fossero nella specie rivestiti dall’ente della Chiesa evangelica.

L’etica non è sindacabile, come detto, lo è, invece, alla luce di essa, il carattere essenziale, legittimo e giustificato del requisito religioso. L’interpretazione fornita dalla Corte ai nn. 65-69 è rigorosa e porta a coerenza l’aggrovigliata formulazione della direttiva in modo da impedire l’abuso del diritto all’etica e all’autonomia confessionale. Il requisito della religione va interpretato, quindi, in senso funzionale a «l’affermazione di tale etica o l’esercizio da parte di tale Chiesa o di tale organizzazione del proprio diritto all’autonomia»: perciò esso dev’essere essenziale, in quanto «necessario, a causa dell’importanza dell’attività professionale di cui trattasi», legittimo, in quanto «non venga utilizzato per un fine estraneo», giustificato dall’organizzazione che lo ha posto, onerata della prova, «alla luce delle circostanze di fatto del caso di specie, che il presunto rischio di lesione per la sua etica o il suo diritto all’autonomia è probabile e serio». Inoltre, tale requisito deve essere conforme al principio di proporzionalità [9]. La Corte risolve così il dubbio sull’applicabilità di tale principio, nominato solo nel primo paragrafo dell’art. 4, anche al secondo paragrafo sulla base della considerazione che esso rientra tra i «principi generali dell’ordinamento comunitario», richiamati in generale dalla direttiva.

Insomma, l’esonero dall’applicazione della direttiva è di interpretazione stretta, legato alla – e non, come secondo la giurisprudenza tedesca riferita dal giudice remittente, prescindente dalla – natura e all’oggettività dell’attività professionale in questione e «non può includere considerazioni estranee a tale etica o al diritto all’autonomia di detta Chiesa o di detta organizzazione». Ciò dovrebbe favorire l’approccio teorico dualistico, che distingue il tendenzträger dagli altri lavoratori, ancorché tra le due categorie permanga un’ampia zona grigia che lascia ampio margine di manovra alla giurisprudenza: per limitarsi ai casi della Corte Edu, ferma l’ascrizione alla prima categoria di un importante ufficiale ecclesiastico, si può ragionevolmente dubitare che lo sia, senza un esame dei concreti contenuti del loro insegnamento, anche quella del professore universitario o dell’educatrice d’infanzia [10] e che viceversa non lo sia quella dell’organista che come maestro del coro può sostituire il prete nella conduzione della preghiera comune [11].

5. Al cospetto di questa rigorosa definizione della portata dell’esonero prevista dal paragrafo 2 dell’articolo 4 della direttiva è di tutta evidenza la divaricazione operata dall’AGG tedesco, che, come rilevato a suo tempo dalla Commissione europea, ha definito troppo largamente l’autonomia delle organizzazioni religiose sì da non realizzare il risultato voluto dalla direttiva. Dei tre caratteri del requisito religioso nella legge tedesca s’è omesso di trasporre la necessità e la legittimità, lasciando solo la giustificatezza, che però, saltato anche il riferimento all’etica dell’organizzazione (come, del resto, nel dPR 216/2003 di attuazione della direttiva in Italia), è priva di parametri legislativi che non siano quelli del diritto (non statuale, ma) confessionale (la ricordata Grundordnung der Evangelischen Kirche in Deutschland). L’obbligo di interpretazione conforme delle leggi nazionali «alla luce della lettera e dello scopo della direttiva» [12] non è stato in grado di bloccare un’interpretazione dell’AGG, come osservato dal giudice rimettente, costantemente incompatibile con il diritto dell’Unione.

Il giudice nazionale ha però, ricorda la Corte, il potere di recuperare la conformità al diritto dell’Unione (n. 73); anzi, anche l’obbligo, dato il carattere imperativo, in quanto principio generale del diritto dell’Unione, del divieto di ogni discriminazione fondata sulla religione o le convinzioni personali, sancito all’articolo 21, paragrafo 1, della Carta di Nizza: «Tale divieto è di per sé sufficiente a conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale nell’ambito di una controversia che li vede opposti in un settore disciplinato dal diritto dell’Unione» (n. 76) e «il giudice nazionale sarebbe tenuto ad assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la tutela giuridica spettante ai singoli in forza degli articoli 21 e 47 della Carta e a garantire la piena efficacia di tali articoli, disapplicando all’occorrenza qualsiasi disposizione nazionale contraria» (n. 79).

6. Il nesso tra il requisito per lo svolgimento dell’attività lavorativa imposto dal datore di lavoro e l’attività stessa nel caso delle organizzazioni religiose risente pesantemente della concezione spiritualistica propria delle stesse confessioni, per cui tutte le mansioni, anche le più neutre, finiscono per essere attratte e caratterizzate dalla tendenza degli enti in modo da imporre un grado di adesione totale, ben superiore al doveroso atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti dell’etica dell’organizzazione della lealtà. Questa sentenza riporta la differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali al diritto comune delle organizzazioni di tendenza, richiedendo che il nesso indicato sia «diretto» e che la sua esistenza sia non soggettivamente ritenuta dall’organizzazione ma «oggettivamente verificabile». E concretamente esemplifica la natura e il contesto, da cui secondo la direttiva deve desumersi il carattere essenziale, legittimo e giustificato dell’attività professionale: «Tale nesso può derivare vuoi dalla natura di tale attività, ad esempio qualora essa comporti di partecipare alla determinazione dell’etica della Chiesa o dell’organizzazione in questione, o di collaborare alla sua missione di proclamazione, vuoi dalle condizioni in cui tale attività deve essere espletata, come la necessità di garantire una rappresentanza credibile della Chiesa o dell’organizzazione all’esterno della stessa» (n. 63).

 Nel caso specifico, essendo pacifica l’estraneità dell’attività di studio richiesta, per giunta su un tema non ecclesiologico (il razzismo), alla missione della Chiesa in senso stretto, è rilevante l’esemplificazione del contesto in cui l’attività viene svolta. Infatti, sia pure in maniera defilata e collaterale rispetto a quello fondamentale della relazione, tra i compiti assegnati compare anche un’attività di «rappresentanza, nell’ambito del progetto, della Diaconia tedesca nei confronti del mondo politico, del pubblico e delle organizzazioni di difesa dei diritti umani, nonché la collaborazione nell’ambito dei comitati». Tale rappresentanza, secondo la Corte, dev’essere «credibile» – e cioè capace di non alimentare dubbi o riserve sull’effettiva corrispondenza delle dichiarazioni alla volontà dell’ente – e si può legittimamente dubitare che tale costantemente appaia quella affidata ad uno studioso neutrale, non membro della stessa Chiesa o almeno di una Chiesa cristiana.

Nella sentenza c’è un altro argomentare che colpisce ed è la insistita riconduzione del divieto contenuto nella direttiva all’art. 21 della Carta dei diritti: una Carta che si apre con l’affermazione della dignità umana e, quindi, dà linfa a quel che viene definito il «nuovo» diritto antidiscriminatorio. Il quale, operando, come nel caso, nel campo dei diritti costituzionalmente garantiti, alla valutazione comparativa, propria del giudizio antidiscriminatorio, assegna come termine di paragone non il trattamento riservato ad altri rispetto ad un determinato standard ma, in assoluto, il trattamento di giustizia o di congruità ipoteticamente dedotto e deducibile dalla Carta e dalla Costituzione, come il nostro art. 3 cpv.: cioè un diritto assoluto a non essere «svantaggiati» e non solo «più svantaggiati» [13].

Si deve proprio alla Corte di giustizia il collegamento, prima di Lisbona, del divieto di discriminazione (nella specie, relativo all’età), svincolato dalla direttiva comunitaria, ad un principio generale dell’ordinamento comunitario, che «trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri» [14]. Che ora la Corte non si faccia sfuggire l’occasione per l’ancoraggio del divieto, ben più che sommariamente in tradizioni costituzionali comuni e in accordi internazionali, specificamente nell’art. 21 della carta di Nizza, che ha lo stesso valore dei trattati, implica che la non discriminazione viene ormai a collocarsi nel sistema delle fonti ad un livello superiore a quello dei principi generali desumibili dalle tradizioni costituzionali comuni e perciò non è resistibile da alcuna normativa eurounitaria o nazionale, offrendo ai giudici la chiave per considerare i cittadini, che assumono di essere discriminati, appunto uti cives e non semplicemente uti mercatores.

 


[1] Corte Edu, 23 settembre 2010, Obst c. Germania e Schüts c. Germania. Vds. criticamente N. Hervieu, Salarié d’une Église, Tu pourras commettre l’adultère ... Enfin pas systématiquement (Cedh 23 septembre 2010, Obst et Schüth c. Allemagne). Licenciement pour cause d’adultère et obligations spécifiques des salariés d’organisations religieuses, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica, 2010, www.statoechiese.it. Al tema delle discriminazioni per ragioni religiose nella organizzazione del lavoro è dedicato un fascicolo speciale della rivista Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2013, n. 1, con contributi sulla giurisprudenza europea di M. Toscano, J. Pasquali Cerioli, F. Botti e G. D’Angelo.

[2] Corte di giustizia Ue, 17 aprile 2018, Egenberger c. Evangelisches Werk für Diakonie und Entwicklung eV, causa C‑414/16 .

[3] Corte di giustizia Ue, 10 luglio 2008, Feryn NV, C-54/07.

[4] Così A.C. Jemolo commentò la giurisprudenza pluridecennale della Cassazione sul matrimonio concordatario in Chiesa e Stato negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1975, p. 513.

[5] Cfr. Cass. 21541/2017, 16847/2011, 1133/2007, a proposito di insegnanti in università pontificie (rispettivamente la Lateranense, l’Americana del Nord e la Gregoriana).

[6] Corte Edu, 9 luglio 2013, Sindicatul Păstorul cel Bun c. Romania, e 12 giugno 2014, Fernández Martínez c. Spagna. Osservazioni critiche, rispettivamente, di L.S. Martucci, Libertà sindacale nelle confessioni religiose. Spunti comparativi, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2014, e di N. Colaianni, Organizzazioni, istituzioni di tendenza religiose e diritti delle parti, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2013, pp. 229 ss.

[7] Corte Edu, 20 ottobre 2009, Lombardi Vallauri c. Italia.

[8] Un sintetico esame sulla giurisprudenza Cedu intorno a questo tema divenuto cruciale in L. Saporito-F. Sorvillo-L. Decimo, Lavoro, discriminazioni religiose e politiche d’integrazione, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 18/2017. Sul concetto di religione nella nostra giurisprudenza costituzionale N. Colaianni, La lotta per la laicità. Stato e Chiesa nell’età dei diritti, Cacucci, Bari, 2017, pp. 85 ss.

[9] Naturale il riferimento a Corte di giustizia Ue, Johnston, 15 maggio 1986, CE-222/84, in tema di limitazione discriminatoria del lavoro delle donne.

[10] Corte Edu, 3 febbraio 2011, Siebenhaar c. Germania. Gli altri due casi sono Lombardi Vallauri e Schüth, già citati.

[11] Così M. Corti, Diritto dell’Unione europea e status delle confessioni religiose Profili lavoristici, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2011.

[12] Corte di giustizia Ue, 13 novembre 1990, Marleasing, C-106/89, e altre.

[13] M. Barbera, Introduzione. Il nuovo diritto antidiscriminatorio: innovazione e continuità, in Il nuovo diritto antidiscriminatorio. Il quadro comunitario e nazionale, a cura di M. Barbera, Giuffrè, Milano, 2007, p. XXXII.

[14] Corte di giustizia Ue, 22 novembre 2005, Mangold c. Helm, C-144/04.

03/05/2018
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