Magistratura democratica
Pillole di CGUE

Secondo quadrimestre 2023

Le più interessanti pronunce del secondo quadrimestre del 2023

GIUDICI

Sentenza della Corte dell’11 maggio 2023 nella causa C-817/21, InspecţiaJudiciară (Indipendenza ed imparzialità dell’organo disciplinare)

La sentenza in epigrafe ha affermato che l’organo responsabile dei procedimenti disciplinari nei confronti dei giudici deve essere indipendente e imparziale. 

La vicenda ha luogo in Romania ed ha origine in alcuni esposti disciplinari presentati all’Ispettorato giudiziario contro magistrati da una persona che era parte di diversi procedimenti penali. Gli esposti erano stati archiviati ed analoga sorte aveva avuto l’esposto presentato contro l’ispettore capo. La Corte d’appello di Bucarest, investita dell’opposizione avverso l’ultima archiviazione, ha quindi chiesto in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia se la concentrazione di poteri nella figura dell’ispettore capo fosse o meno contraria al diritto dell’Unione. 

La Corte europea, confermando la sua giurisprudenza secondo la quale, sebbene l’organizzazione della giustizia sia di competenza degli Stati membri, l’esercizio di tale competenza deve essere conforme al diritto dell’Unione, ha affermato che il regime disciplinare applicabile ai giudici deve presentare le garanzie necessarie al fine di evitare qualsiasi rischio di utilizzo di tale regime disciplinare come strumento di controllo politico delle loro attività. Nel demandare al giudice del rinvio l’accertamento relativo, ed in particolare se ed in che misura i poteri di cui dispongono al riguardo gli organi giurisdizionali rumeni consentano l’esercizio effettivo di azioni disciplinari nei confronti dell’ispettore capo nonché un trattamento efficace ed imparziale degli esposti contro quest’ultimo e della idoneità del relativo procedimento a condurre, se del caso, all’annullamento della decisione di archiviazione, la Corte ha osservato che nel sistema rumeno da un lato le decisioni relative all’ispettore capo possono essere riesaminate dal vice ispettore capo, che è stato designato dall’ispettore capo e il cui mandato terminerà contemporaneamente a quello di quest’ultimo, e, dall’altro lato, che un’azione disciplinare destinata a reprimere abusi commessi dall’ispettore capo può essere avviata solo da un agente la cui carriera dipende, in larga misura, dalle decisioni dell’ispettore capo. 

 

Sentenza della Corte del 5 giugno 2023 nella causa C-204/21, Commissione / Polonia (Indipendenza e vita privata dei giudici) 

Sentenza della Corte del 13 luglio 2023 nelle cause riunite C-615/20, YP e a. e C-671/20 | M.M. (Revoca dell’immunità di un giudice e sospensione dalle sue funzioni)

A seguito dell’adozione da parte della Polonia, il 20 dicembre 2019, di una legge che ha modificato le norme nazionali relative all’organizzazione degli organi giurisdizionali ordinari, degli organi giurisdizionali amministrativi e della Corte suprema, la Commissione europea ha proposto un ricorso per inadempimento (causa C‑204/21), chiedendo alla Corte di giustizia di dichiarare che il regime istituito da tale legge viola diverse disposizioni del diritto dell’Unione. La Commissione ha ritenuto che la legge di modifica, nei limiti in cui attribuisce alla Sezione disciplinare della Corte suprema polacca, la cui indipendenza e la cui imparzialità non sono garantite, la competenza a decidere in merito a controversie aventi incidenza diretta sullo status e sull’esercizio delle funzioni di giudice, pregiudichi la loro indipendenza. 

Con ordinanza del 14 luglio 2021, Commissione/Polonia (C‑204/21 R), la vicepresidente della Corte aveva ordinato alla Repubblica di Polonia, fino alla pronuncia della sentenza che porrà fine al giudizio nella causa C‑204/21, di sospendere l’applicazione delle disposizioni dell’articolo 27, paragrafo 1, punto 1a, della legge sulla Corte suprema, in forza delle quali la Sezione disciplinare è competente a pronunciarsi, sia in primo che in secondo grado di giudizio, sulle domande di autorizzazione ad avviare un procedimento penale contro i giudici o giudici ausiliari. 

Con l’importantissima sentenza del 15 luglio 2021, Commissione/Polonia (Regime disciplinare dei giudici), C-791/19), la Corte ha quindi, in altra causa, ritenuto che: 

1) – Non garantendo l’indipendenza e l’imparzialità dell’Izba Dyscyplinarna (Sezione disciplinare) del Sąd Najwyższy (Corte suprema, Polonia), alla quale spetta il controllo delle decisioni adottate nei procedimenti disciplinari a carico dei giudici; – consentendo che il contenuto delle decisioni giudiziarie possa essere qualificato come illecito disciplinare riguardante i giudici degli organi giurisdizionali ordinari; – conferendo al presidente dell’Izba Dyscyplinarna il potere discrezionale di designare il tribunale disciplinare competente in primo grado nelle cause riguardanti i giudici degli organi giurisdizionali ordinari e, pertanto, non garantendo che le cause disciplinari siano esaminate da un giudice «costituito per legge», e – non garantendo che le cause disciplinari riguardanti i giudici degli organi giurisdizionali ordinari siano esaminate entro un termine ragionevole, nonché prevedendo che gli atti connessi alla nomina di un difensore e all’espletamento da parte di quest’ultimo dell’attività difensiva non sospendono il corso del procedimento disciplinare e che il tribunale disciplinare conduce il procedimento anche in caso di assenza giustificata del giudice accusato, informato al riguardo, o del suo difensore, e, pertanto, non garantendo il rispetto dei diritti della difesa dei giudici accusati degli organi giurisdizionali ordinari; la Repubblica di Polonia è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE.

2) Consentendo che il diritto degli organi giurisdizionali di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea domande di pronuncia pregiudiziale sia limitato dalla possibilità di avviare un procedimento disciplinare, la Repubblica di Polonia è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 267, secondo e terzo comma, TFUE.

Con l’ordinanza cautelare del 27 ottobre 2021, relativa al caso riferito in premessa c-204/21, il vicepresidente della Corte aveva quindi condannato la Repubblica di Polonia a pagare alla Commissione una penalità di EUR 1 000 000 al giorno, a decorrere dalla data di notifica di tale ordinanza a detto Stato membro e fino al giorno in cui quest’ultimo si fosse conformato agli obblighi derivanti dall’ordinanza del 14 luglio 2021 o, in mancanza, fino al giorno della pronuncia della sentenza che avrebbe posto fine al giudizio nella causa C‑204/21.

Con ordinanza del VicePresidente della Corte del 21 aprile 2023 la domanda di revoca della predetta ordinanza del 27 ottobre 2021 è stata respinta, e l’importo della penalità dovuta dalla Repubblica di Polonia era stata ridotta a EUR 500 000 al giorno.

Con sentenza del 5 giugno 2023 la Corte ha quindi la Corte ha quindi accolto anche l’ulteriore ricorso della Commissione. In primo luogo, la Corte ha confermato che il controllo del rispetto, da parte di uno Stato membro, di valori e principi come lo Stato di diritto, la tutela giurisdizionale effettiva e l’indipendenza della giustizia rientra appieno nella sua competenza. In secondo luogo, la Corte ha ribadito (in linea con il proprio precedente su richiamato) che la Sezione disciplinare della Corte suprema non soddisfa il necessario requisito di indipendenza e di imparzialità. Essa ne deduce che la semplice prospettiva, per i giudici chiamati ad applicare il diritto dell’Unione, di correre il rischio che un siffatto organo possa decidere in merito a questioni relative al loro status e all’esercizio delle loro funzioni, in particolare autorizzando l’avvio di procedimenti penali nei loro confronti o il loro arresto oppure adottando decisioni riguardanti aspetti fondamentali dei regimi di diritto del lavoro, di previdenza sociale o di pensionamento ad essi applicabili, è idonea a pregiudicare la loro indipendenza.

La sentenza è importante anche perché ha esaminato altro problema, affermando che le disposizioni nazionali che impongono ai giudici di presentare una dichiarazione scritta indicante la loro eventuale appartenenza a un’associazione, a una fondazione senza scopo di lucro o a un partito politico e che prevedono la pubblicazione on-line di tali informazioni violano i diritti fondamentali di tali giudici alla tutela dei dati personali e al rispetto della vita privata. 

Secondo la Corte, infatti, la pubblicazione on-line di simili dati presenta diversi inconvenienti e soprattutto non è idonea a raggiungere l’obiettivo indicato, diretto a rafforzare l’imparzialità dei giudici, anzi potendo comportare l’esposizione dei giudici a rischi di stigmatizzazione indebita, pregiudicando in modo ingiustificato la percezione degli stessi da parte sia dei singoli, che del pubblico in generale.

La Sezione disciplinare polacca è stata quindi soppressa dal legislatore nazionale polacco. Restava –tra l’altro- il problema degli effetti delle pronunce della stessa in relazione ai processi in corso assegnati ad altri giudici (quale riassegnazione a seguito della sospensione disciplinare a carico del giudice originariamente assegnatario).

La seconda decisione richiamata in epigrafe, che fa seguito alle vicende e pronunce su descritte, afferma quindi che gli organi giurisdizionali nazionali sono tenuti a disapplicare un atto che dispone, in violazione del diritto dell’Unione, la sospensione di un giudice dalle funzioni.

Il caso si specie riguardava un procedimento penale a carico di un giudice polacco, con sospensione dalle funzioni e riduzione della retribuzione per la durata della sospensione. La misura era stata disposta dalla Sezione disciplinare della Corte suprema polacca; a seguito di tale decisione, le cause inizialmente trattate dal giudice accusato erano state riassegnate ad altri collegi giudicanti, ad eccezione di una causa penale, nell’ambito della quale il giudice medesimo ha sollevato dubbi quanto all’indipendenza e all’imparzialità della Sezione disciplinare e, per altro verso, quanto alla possibilità che il detto organo possa revocare l’immunità penale dei giudici e sospenderli dalle loro funzioni, con effetti nelle cause assegnate; in altra causa, analoga questione pregiudiziale era sollevata dal giudice assegnatario di causa inizialmente assegnata al giudice accusato e quindi riassegnata al remittente.

Con la sentenza di luglio in epigrafe la Corte ha quindi ribadito che la sezione disciplinare non aveva adeguate garanzie di indipendenza e imparzialità, sì da essere contraria all’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, del Trattato sull’Unione europea, norma che ha efficacia diretta cosicché i giudici nazionali debbano trarne ogni conseguenza, anche in mancanza di provvedimenti legislativi nazionali, disapplicando ogni at.to interno contrastante con le norme europee. 

 

IMMIGRAZIONE

Sentenze della Corte del 6 luglio 2023 nelle cause C-8/22, Commissairegénéralauxréfugiés et auxapatrides, C-663/21 BundesamtfürFremdenwesen und Asyl, C-402/22 Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid (Revoca e rifiuto del riconoscimento dello status di rifugiato conseguente alla commissione di reati di particolare gravità)

Secondo le sentenze, il diritto dell’Unione consente ad un paese membro di rifiutare lo status di rifugiato nei confronti di un cittadino di un paese terzo e, se riconosciuto, di revocarlo, nel caso che il richiedente sia stato condannato per gravi reati.

Con le tre sentenze in commento La Corte, investita delle domande pregiudiziali dalle autorità giudiziarie del Belgio, Austria e Paesi Bassi, ha precisato portata e limiti di detto principio.

In particolare, nella causa C-8/22, su domanda del Consiglio di Stato del Belgio, La Corte ha precisato che per l’adozione di una misura di revoca è necessario che siano soddisfatte due condizioni: da un lato, che la persona interessata sia stata condannata con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità e, dall’altro, che sia dimostratala sua attuale e concreta pericolosità per la comunità dello Stato membro in cui si trova; detta pericolosità deve essere poi così grave da pregiudicare un interesse fondamentale per la comunità stessa, previa valutazione di tutte le circostanze specifiche del caso di cui trattasi. 

Quando le due condizioni sono soddisfatte, uno Stato membro dispone della facoltà di revocare lo status di rifugiato, pur senza, tuttavia, esservi tenuto, nel rispetto del principio di proporzionalità. 

Nella causa C-663/21, su domanda della Corte amministrativa austriaca, la Corte ha precisato che il principio di proporzionalità opera sul piano della gravità della minaccia che l’interessato rappresenta per un interesse fondamentale della comunità dello Stato membro in cui si trova, e non anche sul piano dei rischi a cui lo stesso sarebbe esposto in caso di suo rimpatrio.

Infine, nella causa C-402/22, su domanda del Consiglio di Stato dei Paesi Bassi, la Corte ha precisato la nozione di «condanna con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità», rilevando che una misura di revoca/rifiuto può essere applicata solo al cittadino di un paese terzo condannato con sentenza passata in giudicato per un reato le cui caratteristiche specifiche consentano di ritenerlo connotato da eccezionale gravità, in quanto rientrante fra i reati che pregiudicano maggiormente l'ordinamento giuridico della comunità interessata. Tale livello di gravità non può essere raggiunto da un cumulo di infrazioni diverse di cui nessuna, in sé considerata, costituisca un reato di particolare gravità, ed implica una valutazione di tutte le circostanze specifiche quali: la natura e il quantum della pena comminata, la natura del reato commesso, le eventuali circostanze attenuanti o aggravanti, l’intenzionalità, o meno, del reato, la natura e l’entità dei danni causati da detto reato, o ancora il tipo di procedura penale applicata per reprimere il reato.

 

Sentenza della Corte del 22 giugno 2023 nella causa C-823/21, Commissione/Ungheria (Dichiarazione d’intenti preliminare a una domanda di asilo)

Con la decisione che si segnala la Corte ha accertato che l’Ungheria ha indebitamente ostacolato la possibilità di presentare una domanda di asilo.

Con il propagarsi a livello globale dell’infezione di Covid-19, nel 2020 l’Ungheria ha emanato una legge che impone ai cittadini di paesi terzi o apolidi che intendono presentare domanda di protezione internazionale, di recarsi presso l’ambasciata ungherese a Belgrado (Serbia) o a Kiev (Ucraina) e depositarvi personalmente una dichiarazione d’intenti relativa alla presentazione di una domanda di protezione internazionale. 

Solo dopo l’esame di tale dichiarazione, le autorità ungheresi possono rilasciare un documento di viaggio che consenta l’ingresso nello Stato membro al fine di formalizzare la domanda di protezione internazionale in quel paese. 

La Commissione europea ha ritenuto chel’Ungheria, introducendo questa procedura, sia venuta meno ai suoi obblighi imposti dalla direttiva recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale. 

Contro la decisione della Commissione, l’Ungheria ha proposto ricorso per inadempimento alla Corte, lamentando preliminarmente la inapplicabilità del diritto dell’Unione, dal momento che gli interessati alla procedura sono cittadini di paesi terzi, e che le rappresentanze diplomatiche di Belgrado e Kievsono situare fuori dal territorio dell’Unione stessa.

La Corte, disattendendo la censura del paese ricorrente, ha preliminarmente riconosciuto sia la propria giurisdizione che l’applicazione del diritto dell’Unione.

Nel merito, la Corte ha affermato che l’Ungheria è venuta meno agli obblighi nascenti dal diritto dell’Unione sotto più aspetti. 

In primo luogo, perché la condizione relativa al previo deposito di una dichiarazione d’intenti non è prevista dalla direttiva e contrasta con il suo obiettivo di garantire un accesso effettivo, facile e rapido alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale. 

In secondo luogo, perché tale normativa priva i cittadini di paesi terzi o gli apolidi interessati del godimento effettivo dei loro diritto di chiedere asilo all’Ungheria, quale sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. 

In terzo luogo, perché detta procedura non può ritenersi giustificata dall’obiettivo di tutela della sanità pubblica contro la propagazione del Covid-19, essendo i sacrifici imposti dalle modalità di presentazione della domanda sproporzionati rispetto al perseguimento degli obiettivi dichiarati. Al riguardo, lo Stato ricorrente non ha dimostrato che non potessero essere adottate altre misure idoneea conciliare adeguatamente l’effettività del diritto di asilo con la lotta contro malattie contagiose.

 

PRIVACY

Sentenza della Corte del 22 giugno 2023 nella causa C-579/21, Pankki S.

La decisione afferma che chiunque ha il diritto di conoscere la data e le ragioni per cui i suoi dati personali sono stati consultati. 

Nel 2014 un correntista della banca Pankki S, nella quale era stato impiegato prima di essere licenziato è venuto a conoscenza che i suoi dati personali erano stati consultati da altri dipendenti della stessa banca; nel 2018, questi ha chiesto alla banca di comunicargli l’identità delle persone che avevano consultato i suoi dati, le date esatte delle consultazioni nonché le finalità del trattamento di detti dati. La Pankki S, ha motivato il proprio rifiuto, assumendo che tali informazioni costituivano dati personali degli impiegati.

Il richiedente ha perciò proposto ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo della Finlandia orientale, che ha chiesto alla Corte di giustizia di interpretare l’articolo 15 del regolamento generale sulla protezione dei dati (RGPD).

La Corte rileva, anzitutto, che il RGPD, applicabile dal 25 maggio 2018, si applica a una domanda presentata successivamente a tale data allorché essa riguardi operazioni di trattamento di dati personali effettuate anteriormente. 

Nel merito, la Corte da una parte afferma che le informazioni relative a operazioni di consultazione dei dati personali di una persona, riguardanti le date e le finalità di tali operazioni, costituiscono informazioni che detta persona ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento; ma ,dall’altra, rileva che il RGPD non riconosce un siffatto diritto con riferimento alle informazioni relative all’identità dei dipendenti che hanno svolto tali operazioni conformemente alle istruzioni del titolare del trattamento, a meno che tali informazioni siano indispensabili per consentire all’interessato di esercitare effettivamente i diritti che gli sono conferiti da tale regolamento e a condizione che si tenga debito conto dei diritti e delle libertà di tali dipendenti. 

In caso di conflitto, ove possibile, occorre scegliere modalità che non ledano tali diritti o libertà. A tal fine non assume rilevanza che il titolare del trattamento eserciti un’attività bancaria, né che la persona i cui dati personali sono stati trattati in qualità di cliente sia stata anche dipendente di detto titolare.

 

[**]

Francesco Buffa, consigliere della Corte di cassazione
 
Salvatore Centonze, avvocato del Foro di Lecce

06/10/2023
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