Magistratura democratica
Pillole di CGUE

Giugno 2017

di Alice Pisapia
Prof. a contratto in Diritto dell’UE per l’impresa, Università degli Studi dell’Insubria<br>Prof. a contratto in Diritto europeo della concorrenza, Università degli Studi dell’Insubria<br>Avvocato Foro di Milano
Le più interessanti pronunce della Corte del Lussemburgo emesse a giugno 2017

Cooperazione giudiziaria in materia civile e Diritti fondamentali

Sentenza della CGUE (Quinta Sezione), 8 giugno 2017, causa C-111/17 PPU, OL vs. PQ

Tipo di procedimento: Rinvio pregiudiziale dal Tribunale monocratico di Atene

Oggetto: Cooperazione giudiziaria in materia civile – Sottrazione internazionale di minori – Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 – Reg. 2201/2003 – Art. 11 – Domanda di ritorno – Nozione di “residenza abituale” di un lattante – Minore nato, conformemente alla volontà dei suoi genitori, in uno Stato membro diverso da quello della loro residenza abituale – Soggiorno ininterrotto del minore durante i primi mesi di vita nel suo Stato membro di nascita – Decisione della madre di non far ritorno nello Stato membro dove si trovava la residenza abituale della coppia

OL, cittadino italiano, e PQ, cittadina greca, hanno contratto matrimonio in Italia, Stato membro dove si sono poi stabiliti insieme. All’epoca in cui PQ era incinta di otto mesi, i coniugi hanno convenuto che essa avrebbe dato alla luce il loro figlio ad Atene, e che, in seguito, PQ avrebbe fatto ritorno al domicilio coniugale in Italia con quest’ultimo. Tuttavia, successivamente alla nascita del loro figlio, PQ avrebbe deciso unilateralmente di rimanere in Grecia con il minore.

La Corte è chiamata a fornire l’interpretazione della nozione di “residenza abituale”, ai sensi dell’art. 11, par. 1, del reg.to (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, al fine di determinare se il caso di specie possa essere ricondotto ad un «mancato ritorno illecito».

La nozione di “residenza abituale” costituisce, infatti, un elemento centrale per valutare la fondatezza di una domanda di ritorno, in quanto l’art. 11, par. 1, del reg.to n. 2201/2003 prevede che le disposizioni di detto articolo trovino applicazione quando il titolare del diritto di affidamento adisce le autorità competenti di uno Stato membro, affinché emanino un provvedimento in base alla Convenzione dell’Aja del 1980 per ottenere il ritorno di un minore, che è stato illecitamente trasferito o trattenuto in «uno Stato membro diverso dallo Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima dell’illecito trasferimento o mancato ritorno».

La giurisprudenza della Corte già in passato aveva chiarito che la nozione di “residenza abituale” del minore corrisponde «al luogo che denota una certa integrazione di quest’ultimo in un ambiente sociale e familiare», ambiente «determinato dalla persona o dalle persone di riferimento con le quali vive, che lo custodiscono effettivamente e si prendono cura di lui, e che egli condivide necessariamente l’ambiente sociale e familiare di tale persona o di tali persone». Di conseguenza, quando un lattante è effettivamente custodito da sua madre, in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede abitualmente il padre, occorre prendere in considerazione segnatamente, da un lato, la regolarità, le condizioni e i motivi del soggiorno della genitrice nel territorio del primo Stato membro e, dall’altro, le origini geografiche e familiari della madre nonché le relazioni familiari e sociali intrattenute da quest’ultima e dal minore nel medesimo Stato membro.

Nella sentenza in commento, i giudici di Lussemburgo precisano che la nozione di “residenza abituale”, ai sensi del reg.to n. 2201/2003, riflette essenzialmente una questione di fatto. Pertanto, sarebbe difficilmente conciliabile con tale nozione considerare che l’intenzione iniziale dei genitori (che il minore risieda in un luogo determinato) prevalga sulla circostanza che egli soggiorna ininterrottamente in un altro Stato sin dalla sua nascita.

Considerare l’intenzione inizialmente espressa dai genitori in merito al ritorno della madre in compagnia del minore in un secondo Stato membro, che era quello della loro residenza abituale prima della nascita del minore, come considerazione preponderante, stabilendo di fatto una regola generale e astratta secondo la quale la residenza abituale di un lattante è necessariamente quella dei suoi genitori, secondo la Corte, violerebbe i limiti della nozione di “residenza abituale”, ai sensi del reg.to n. 2201/2003, e sarebbe contraria all’economia, all’efficacia nonché alla finalità della procedura di ritorno.

L’intenzione dei genitori di stabilirsi con il minore in uno Stato membro ben può essere presa in considerazione (quando si esprime mediante determinate misure tangibili quali l’acquisto o la locazione di un alloggio nello Stato membro ospitante), ma tale intenzione rileva alla stregua di un mero “indizio”, da valutarsi alla luce delle altre circostanze rilevanti e senza che possa assumere di per sé rilievo dirimente, al fine di determinare la residenza abituale del minore.

A giudizio della Corte, dunque, in una situazione quale quella di cui al procedimento principale, in cui un minore è nato ed ha soggiornato ininterrottamente con sua madre per diversi mesi, conformemente alla volontà comune dei suoi genitori, in uno Stato membro diverso da quello in cui questi ultimi avevano la loro residenza abituale prima della sua nascita, l’intenzione iniziale dei genitori in merito al ritorno della madre, in compagnia del minore, in quest’ultimo Stato membro non può consentire di ritenere che detto minore abbia ivi la sua “residenza abituale”, ai sensi di detto reg.to. Di conseguenza, in una situazione siffatta, il diniego della madre di far ritorno in questo stesso Stato membro in compagnia del minore non può essere considerato come un «illecito trasferimento o mancato ritorno» del minore, ai sensi di detto art. 11, par. 1.

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Diritti fondamentali e questioni processuali

Sentenza della CGUE (Prima Sezione), 14 giugno 2017, C-75/16, Livio Menini e Maria Antonia Rampanelli/Banco Popolare Società Cooperativa

Tipo di procedimento: Rinvio pregiudiziale dal Tribunale ordinario di Verona

Oggetto: Tutela dei consumatori – Procedure di risoluzione alternativa delle controversie (ADR) – Direttiva 2008/52/CE – Direttiva 2013/11/UE – Art. 3, par. 2 – Opposizione proposta da consumatori nell’ambito di un procedimento per ingiunzione di pagamento promosso da un istituto di credito – Diritto di accesso alla giustizia – Normativa nazionale che prevede il ricorso obbligatorio a una procedura di mediazione – Obbligo di essere assistito da un avvocato – Condizione di procedibilità del ricorso giurisdizionale

Il Banco Popolare che aveva concesso al sig. Menini e alla sig.ra Rampanelli aperture di credito in conto corrente, otteneva successivamente nei confronti degli stessi un decreto ingiuntivo per un importo corrispondente al saldo che, a suo avviso, gli era ancora dovuto sulla base di un contratto per l’apertura di un conto corrente con garanzia ipotecaria. Il sig. Menini e la sig.ra Rampanelli proponevano opposizione a tale decreto, chiedendo la sospensione della provvisoria esecuzione del medesimo. Sennonché nell’ambito di tale giudizio, il Tribunale ordinario di Verona ha rilevato che, ai sensi del diritto nazionale, condizione di procedibilità di una simile opposizione è il previo esperimento ad opera delle parti di una procedura di mediazione, in applicazione dell’art. 5, commi 1-bis e 4, del decreto legislativo n. 28/2010 e che la controversia rientra nell’ambito di applicazione del codice del consumo, come modificato dal decreto legislativo n. 130/2015, che ha recepito la direttiva 2013/11. Il giudice nazionale ritiene che le disposizioni di diritto italiano in materia di mediazione obbligatoria siano in contrasto con la direttiva 2013/11, laddove prevedono, in primo luogo, il ricorso obbligatorio a una procedura di mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale, in secondo luogo, che, nell’ambito di una mediazione siffatta, i consumatori debbano essere assistiti da un avvocato e, in terzo luogo, che i consumatori possano sottrarsi a un previo ricorso alla mediazione solo se dimostrano l’esistenza di un giustificato motivo a sostegno di tale decisione.

A tale riguardo, la Corte evidenzia che, conformemente al suo art. 1, la direttiva 2013/11 è volta a dare ai consumatori la possibilità di presentare, su base volontaria, reclamo nei confronti di professionisti attraverso procedure ADR.

Anche se l’art. 1, prima frase, della direttiva 2013/11 utilizza l’espressione «su base volontaria», si deve rilevare che la seconda frase di detto articolo prevede espressamente la possibilità, per gli Stati membri, di rendere obbligatoria la partecipazione alle procedure ADR, a condizione che una tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accedere al sistema giudiziario.

Il carattere volontario della mediazione consiste, pertanto, non già nella libertà delle parti di ricorrere o meno a tale procedimento, bensì nel fatto che «le parti gestiscono esse stesse il procedimento e possono organizzarlo come desiderano e porvi fine in qualsiasi momento». Assume quindi rilevanza non il carattere obbligatorio o facoltativo del sistema di mediazione, ma il fatto che il diritto di accesso delle parti al sistema giudiziario sia preservato. Pertanto, il fatto che una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale abbia non solo introdotto una procedura di mediazione extragiudiziale, ma abbia, in aggiunta, reso obbligatorio il ricorso a quest’ultima prima di adire un organo giurisdizionale non è tale da pregiudicare la realizzazione dell’obiettivo della direttiva 2013/11.

Quanto all’obbligo, per il consumatore, di essere assistito da un avvocato per promuovere una procedura di mediazione, la risposta a tale questione emerge dalla formulazione dell’art. 8, lettera b), della direttiva 2013/11. L’articolo citato, infatti, relativo all’efficacia della procedura, stabilisce che gli Stati membri garantiscono che le parti abbiano accesso alla procedura ADR senza essere obbligate a ricorrere a un avvocato o a un consulente legale. Inoltre, l’art. 9, par. 1, lettera b), della suddetta direttiva dispone che le parti siano informate del fatto che non sono obbligate a ricorrere a un avvocato o a un consulente legale. Pertanto, una normativa nazionale non può imporre al consumatore che prende parte a una procedura ADR di essere assistito obbligatoriamente da un legale.

Infine, a giudizio della Corte, dalla formulazione dell’art. 9, par. 2, lettera a), della direttiva 2013/11, il quale impone agli Stati membri di garantire che le parti abbiano la possibilità di ritirarsi dalla procedura ADR in qualsiasi momento se non sono soddisfatte delle prestazioni o del funzionamento della procedura, si ricava che l’eventuale ritiro del consumatore dalla procedura ADR non deve avere conseguenze sfavorevoli nei suoi confronti nell’ambito del ricorso giurisdizionale relativo alla controversia che è stata, o avrebbe dovuto essere, oggetto di tale procedura.

Una normativa, come quella in contestazione, che preveda la possibilità di ritirarsi da una procedura di mediazione nel solo caso in cui si dimostri l’esistenza di un giustificato motivo, a pena di sanzioni nell’ambito del successivo procedimento giudiziario, è tale da restringere il diritto di accesso delle parti al sistema giudiziario, contrariamente all’obiettivo perseguito dalla direttiva 2013/11. Di conseguenza, la direttiva 2013/11 deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale che limita il diritto dei consumatori di ritirarsi dalla procedura di mediazione al solo caso in cui dimostrino l’esistenza di un giustificato motivo a sostegno di tale decisione.

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Diritti fondamentali e questioni processuali

Sentenza della CGUE (Seconda Sezione), 21 giugno 2017, causa C-621/15, N. W, L. W, C. W vs. Sanofi Pasteur MSD SNC, Caisse primaire d’assurance maladie des Hauts-de-Seine

Tipo di procedimento: Rinvio pregiudiziale dalla Corte di Cassazione, Francia

Oggetto: Direttiva 85/374/CEE – Responsabilità per danno da prodotti difettosi – Art. 4 – Laboratori farmaceutici – Vaccino contro l’epatite B – Sclerosi multipla – Prove del difetto del vaccino e del nesso di causalità tra il difetto e il danno subito – Onere della prova – Modalità di prova – Mancanza di consenso scientifico – Indizi gravi, precisi e concordanti lasciati alla valutazione del giudice di merito – Ammissibilità – Presupposti

Ai fini della vaccinazione contro l’epatite B, al sig. W è stato somministrato un vaccino prodotto dalla Sanofi Pasteur. Poco più di un mese dopo l’ultima iniezione il sig. W ha iniziato a manifestare vari disturbi, che lo hanno condotto a una diagnosi di sclerosi multipla e al decesso nel giro di qualche anno.

Tre suoi familiari hanno presentato un ricorso diretto ad ottenere la condanna della Sanofi Pasteur al risarcimento del danno da essi lamentato a causa della somministrazione al sig. W del vaccino in questione. A sostegno di tale ricorso, essi hanno richiamato la giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui nel settore della responsabilità dei laboratori farmaceutici per danni ascrivibili ai vaccini dai medesimi prodotti, la prova dell’esistenza di un difetto del vaccino e di un nesso di causalità tra tale difetto e il danno subito dal danneggiato può risultare da presunzioni gravi, precise e concordanti soggette al libero apprezzamento del giudice di merito.

Il giudice del rinvio chiede se l’art. 4 della direttiva 85/374 debba essere interpretato nel senso che osta a un regime probatorio nazionale in base al quale il giudice di merito, chiamato a pronunciarsi su un’azione diretta ad accertare la responsabilità del produttore di un vaccino per danno derivante da un asserito difetto di quest’ultimo, possa ritenere, nell’esercizio del libero apprezzamento conferitogli al riguardo, che, nonostante la constatazione che la ricerca medica non stabilisce né esclude l’esistenza di un nesso tra la somministrazione del vaccino e l’insorgenza della malattia da cui è affetto il danneggiato, taluni elementi in fatto invocati dal ricorrente costituiscano indizi gravi, precisi e concordanti che consentono di ravvisare la sussistenza di un difetto del vaccino e di un nesso di causalità tra detto difetto e tale malattia.

Preliminarmente, la Corte ricorda che mentre l’art. 1 della direttiva 85/374 sancisce il principio secondo cui il produttore è responsabile del danno causato da un difetto del suo prodotto, l’art. 4 di tale direttiva precisa che l’onere di provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno grava sul danneggiato.

Ciò posto, la Corte riconosce che un regime probatorio nazionale come quello descritto sia tale da agevolare il compito del danneggiato chiamato a fornire le prove richieste per consentirgli di far sorgere la responsabilità del produttore. Tuttavia, a giudizio dei giudici, un regime probatorio siffatto non è, di per sé, tale da comportare un’inversione dell’onere della prova gravante sul danneggiato ai sensi dell’art. 4 della direttiva 85/374, poiché tale regime lascia al medesimo l’onere di dimostrare i vari indizi la cui compresenza permetterà eventualmente al giudice adito di fondare il proprio convincimento quanto alla sussistenza di un difetto del vaccino e del nesso di causalità tra quest’ultimo e il danno subito.

Viceversa, un regime probatorio che precluda ogni ricorso a un metodo indiziario e preveda che, per soddisfare l’onere della prova previsto dall’art. 4 della suddetta direttiva, il danneggiato sia tenuto a fornire prova certa, tratta dalla ricerca medica, dell’esistenza di un nesso di causalità tra il difetto attribuito al vaccino e l’insorgenza della malattia sarebbe in contrasto con quanto richiesto dalla stessa direttiva, in quanto uno standard probatorio di tale grado, che finirebbe con l’escludere ogni modalità di prova diversa dalla prova certa tratta dalla ricerca medica, avrebbe l’effetto, di rendere in un numero elevato di situazioni eccessivamente difficile o impossibile l’affermazione della responsabilità del produttore, in tal modo compromettendo l’effetto utile della direttiva 85/374 .

Benché, quindi, un regime probatorio nazionale come quello descritto nel giudizio di rinvio, sia allo stesso tempo neutro per quanto riguarda l’onere della prova previsto all’art. 4 della direttiva 85/374 e, in linea di principio, idoneo a preservare l’effettività del regime di responsabilità sancito da tale direttiva, garantendo nel contempo il rispetto degli obiettivi da questa perseguiti, nondimeno la portata effettiva di un regime siffatto deve essere determinata in considerazione dell’interpretazione datane e dell’applicazione fattane dai giudici nazionali. Così, da un lato, spetta ai giudici nazionali garantire che gli indizi prodotti siano effettivamente sufficientemente gravi, precisi e concordanti da autorizzare la conclusione secondo cui l’esistenza di un difetto del prodotto appare, nonostante gli elementi prodotti e gli argomenti presentati a propria difesa dal produttore, la spiegazione più plausibile dell’insorgenza del danno, di modo che il difetto e il nesso di causalità possano ragionevolmente essere considerati dimostrati. Dall’altro, è necessario che questi stessi giudici facciano in modo che resti impregiudicato il principio secondo cui spetta al danneggiato dimostrare, attraverso tutti i mezzi di prova generalmente ammessi dal diritto nazionale e, come nella fattispecie, segnatamente con la produzione di indizi gravi, precisi e concordanti, l’esistenza di un difetto del vaccino e di un nesso di causalità. Ciò richiede che il giudice si assicuri di preservare il proprio libero apprezzamento quanto al fatto che una simile prova sia stata o meno fornita in modo giuridicamente sufficiente, fino al momento in cui, avendo egli preso conoscenza degli elementi prodotti dalle due parti e degli argomenti scambiati dalle stesse, si ritenga in grado, alla luce dell’insieme delle circostanze pertinenti del caso, di fornire il proprio convincimento definitivo.

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Politiche di concorrenza: Aiuti di stato

Sentenza della CGUE (Grande Sezione), 27 giugno 2017, causa C-74/16, Congregación de Escuelas Pías Provincia Betania vs. Ayuntamiento de Getafe

Tipo di procedimento: Rinvio pregiudiziale dal Tribunale amministrativo n. 4 di Madrid, Spagna

Oggetto: Aiuti di Stato – Art. 107, par. 1, TFUE – Nozione di “aiuto di Stato” – Nozioni di “impresa” e di “attività economica” – Altri presupposti di applicazione dell’art. 107, par. 1, TFUE – Art. 108, paragrafi 1 e 3, TFUE – Nozioni di “aiuti esistenti” e di “aiuti nuovi” – Accordo del 3 gennaio 1979 concluso tra il Regno di Spagna e la Santa Sede – Imposta sulle costruzioni, sugli impianti e sui lavori – Esenzione a beneficio degli immobili della Chiesa cattolica

Il giudice del rinvio si chiede se l’esenzione dall’ICIO (imposta sulle costruzioni) di cui beneficia la Chiesa cattolica, anche quando la destinazione del bene immobile interessato da tale misura rientri nell’esercizio di un’attività economica da parte di quest’ultima, possa costituire un aiuto di Stato, ai sensi dell’art. 107, par. 1, TFUE.

La questione sorge dal rigetto di una domanda di rimborso dell’imposta suddetta presentata da una Congregazione, iscritta nel registro degli enti religiosi tenuto presso il Ministero della giustizia spagnolo e beneficiaria dell’Accordo del 3 gennaio 1979. In particolare, l’ICIO era stata versata a seguito della trasformazione e dell’ampliamento dell’edificio che ospita la sala conferenze di una delle scuole gestite dalla Congregazione, sala destinata allo svolgimento di riunioni, corsi e conferenze.

I giudici di Lussemburgo sono chiamati ad esaminare se, nel caso di specie, sussistano tutte le condizioni enunciate dall’art. 107 par. 1 TFUE ai fini dell’individuazione di un “aiuto di Stato” e quindi, in primo luogo, se la Congregazione possa essere qualificata come “impresa”, ai sensi dell’art. 107, par. 1, TFUE, in secondo luogo, se l’esenzione fiscale controversa nel procedimento principale tenda a concedere un vantaggio economico selettivo alla Congregazione, in terzo luogo, se tale misura costituisca un intervento dello Stato spagnolo o effettuato mediante risorse di tale Stato membro e, infine, in quarto luogo, se l’esenzione di cui sopra sia idonea a incidere sugli scambi tra gli Stati membri e a falsare o a minacciare di falsare la concorrenza nell’ambito del mercato interno.

La Corte ricorda che la nozione di “impresa” è atta a ricomprendere qualsiasi entità che eserciti un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico di tale entità e dalle sue modalità di finanziamento. Laddove, quindi, l’attività svolta da un ente possa essere qualificata come “economica”, la circostanza che essa sia esercitata da una comunità religiosa non impedisce l’applicazione delle norme del Trattato in tema di concorrenza.

A tal proposito, la Corte precisa che costituisce attività economica «qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato», a prescindere dalla natura pubblica o privata dell’entità che la esercita e che costituiscono servizi suscettibili di essere qualificati come attività economiche le prestazioni fornite normalmente dietro remunerazione (aventi, quindi, carattere di corrispettivo).

Alla luce di tali premesse, la Corte osserva che i corsi impartiti da istituti di insegnamento finanziati, essenzialmente, mediante fondi privati non provenienti dal prestatore dei servizi stesso costituiscono servizi, posto che, infatti, lo scopo perseguito da tali istituti consiste nell’offrire un servizio in cambio di una remunerazione. A giudizio della Corte, lo stesso non vale nel caso dei corsi impartiti da taluni istituti che facciano parte di un sistema di insegnamento pubblico e che siano finanziati, interamente o prevalentemente, mediante fondi pubblici, con cui lo Stato non intende impegnarsi in attività remunerate, bensì adempie la propria missione nei settori sociale, culturale e educativo nei confronti della propria popolazione.

In tale contesto, la Corte non esclude che uno stesso istituto possa esercitare più attività, al tempo stesso economiche e non economiche, a condizione che esso tenga una contabilità separata per quanto riguarda i diversi finanziamenti ricevuti, in modo da escludere qualsiasi rischio di sovvenzione “incrociata” delle sue attività economiche mediante fondi pubblici di cui esso beneficia a titolo delle sue attività non economiche.

Nel caso di specie, è pacifico che la Congregazione eserciti tre tipi di attività in seno alla scuola, vale a dire attività strettamente religiose, un insegnamento sovvenzionato dallo Stato spagnolo e un insegnamento libero, senza contributo finanziario di tale Stato membro. Inoltre, tale entità fornisce servizi complementari di ristorazione e di trasporto ai propri studenti. Pertanto, unicamente nel presupposto che il giudice del rinvio giunga a ritenere, sulla base di una valutazione in punto di fatto, che la suddetta sala per conferenze sia destinata ad attività svolte dalla Congregazione che devono qualificarsi come “economiche”, occorre verificare la sussistenza delle quattro condizioni dell’art. 107 TFUE.

In merito alla nozione di “vantaggio economico selettivo”, i giudici di Lussemburgo ricordano che secondo una costante giurisprudenza della Corte, sono considerati aiuti di Stato gli interventi che, sotto qualsiasi forma, sono atti a favorire direttamente o indirettamente determinate imprese, o che devono essere considerati come un vantaggio economico che l’impresa beneficiaria non avrebbe ottenuto in condizioni di mercato normali. A tal proposito, rileva che l’ICIO costituisce un’imposta normalmente dovuta da tutti i contribuenti che effettuano lavori di costruzione o di ristrutturazione interessati da tale imposta e che l’esenzione di cui trattasi nel procedimento principale avrebbe come effetto di alleviare gli oneri che gravano sul bilancio della Congregazione. Di conseguenza, risulta che una siffatta esenzione fiscale conferirebbe un vantaggio economico alla Congregazione.

Relativamente allanozione diaiuto concesso dallo Stato, ovvero mediante risorse statali”, nella sentenza si precisa che ai fini della imputabilità della misura, è sufficiente constatare che l’esenzione fiscale in questione nel procedimento principale discende direttamente dal decreto del 5 giugno 2001, adottato dal Ministero delle finanze dello Stato spagnolo, e trae origine dall’Accordo del 3 gennaio 1979, concluso e attuato dal suddetto Stato membro. È pacifico, inoltre, che l’esenzione controversa nel procedimento principale, la quale determina l’eliminazione di un onere che dovrebbe normalmente gravare sul bilancio della Congregazione, ha come corollario una diminuzione in misura corrispondente delle entrate del Comune.

Infine, la Corte si sofferma sulle nozioni di aiuti che «incidono sugli scambi tra Stati membri» e che «falsano o minacciano di falsare la concorrenza», ricordando che non è necessario dimostrare una reale incidenza dell’aiuto di cui trattasi sugli scambi tra gli Stati membri e un’effettiva distorsione della concorrenza, bensì occorre solo verificare se detto aiuto sia idoneo a incidere su tali scambi e a falsare la concorrenza. In particolare, allorché un aiuto concesso da uno Stato membro rafforza la posizione di alcune imprese rispetto a quella di altre imprese concorrenti negli scambi tra gli Stati membri, tali scambi debbono ritenersi influenzati dall’aiuto. La Corte evidenzia, inoltre, che gli aiuti diretti a sgravare un’impresa dai costi cui essa avrebbe dovuto normalmente far fronte nell’ambito della propria gestione corrente o delle proprie normali attività falsano in linea di principio le condizioni di concorrenza.

Nel procedimento principale, è possibile che l’esenzione dall’ICIO di cui potrebbe beneficiare la Congregazione abbia come effetto di rendere più attraente la fornitura dei suoi servizi di insegnamento rispetto a quella dei servizi offerti da istituti parimenti operanti sul medesimo mercato, ma ricorda che spetta al giudice del rinvio valutare in fatto se l’esenzione controversa nel procedimento principale possa incidere sugli scambi tra gli Stati membri e se il reg.to n. 1998/2006 sugli aiuti d’importanza minore risulti applicabile a tale controversia.

Da ultimo la Corte si sofferma sulle nozioni di “aiuti esistenti” e di “aiuti nuovi”, ai sensi, rispettivamente, dei par. 1 e 3 dell’art. 108 TFUE, chiarendo che integrano “aiuti esistenti” tutti gli aiuti che esistevano prima dell’entrata in vigore del Trattato nello Stato membro, ossia i regimi di aiuti e gli aiuti individuali messi ad esecuzione prima di tale entrata in vigore ed ancora applicabili dopo questa data. Con riferimento al caso di specie, se invero l’art. IV, par. 1, lettera B), dell’Accordo del 3 gennaio 1979, il quale prevede un’esenzione generale dalle imposte reali a favore della Chiesa cattolica spagnola, è antecedente all’adesione del Regno di Spagna all’Unione, resta il fatto che l’ICIO è stata introdotta nell’ordinamento giuridico spagnolo soltanto dopo tale adesione e che l’esenzione fiscale in discussione nel procedimento principale è derivata dal decreto del 5 giugno 2001, sicché qualora il giudice del rinvio dovesse constatare l’esistenza di un aiuto di Stato a beneficio della Congregazione, potrebbe trattarsi soltanto di un aiuto nuovo, ai sensi dell’art. 108, par. 3, TFUE.

13/09/2017
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