Appalti
Tipo di procedimento: Rinvio pregiudiziale dal Consiglio di Stato
Oggetto: Appalti pubblici di servizi – Aggiudicazione dell’appalto senza indizione di una procedura di gara – Affidamento detto “in house” – Svolgimento dell’attività prevalente – Attività svolta altresì a favore di enti territoriali non soci – Attività imposta da un’autorità pubblica non socia
La Corte di Lussemburgo, dopo aver individuato nella direttiva 2004/18 la normativa applicabile ratione temporis, ribadisce che la libera circolazione delle merci e dei servizi e l’apertura alla libera concorrenza impongono il rispetto del principio dell’evidenza pubblica ogniqualvolta un’amministrazione aggiudicatrice intenda concludere un contratto a titolo oneroso con una entità giuridicamente distinta, indipendentemente dal fatto che tale entità sia a sua volta una pubblica amministrazione aggiudicatrice.
La Corte annovera tra le deroghe al principio dell’evidenza pubblica “l’eccezione relativa agli affidamenti detti in house”. In tal caso, infatti, benché l’ente affidatario sia soggetto formalmente distinto dall’ente pubblico controllante, risulta essere da quest’ultimo controllato in modo così penetrante da potersi considerare un tutt’uno con esso, realizzando una sorta di autoproduzione (c.d. delegazione interorganica). Alla luce della giurisprudenza comunitaria, affinché si possa parlare di gestione in house, sono necessari i due requisiti del controllo analogo (l’ente esercita sulla società in house un controllo analogo a quello che viene normalmente esercitato sui suoi uffici/servizi) e della dedizione prevalente (la parte più importante dell’attività è rivolta principalmente all’ente/i controllante). In particolare, solo qualora le prestazioni della società, che proprio per tale ragione può definirsi in house, sono sostanzialmente destinate in via esclusiva all’ente o agli enti controllanti, appare giustificato derogare alle regole dell’evidenza pubblica di cui alla direttiva 2004/18, dettate dall’intento di tutelare una concorrenza che, in tal caso, non ha più ragione d’essere. Con particolare riferimento al requisito delle dedizione prevalente, la Corte afferma che al fine di accertare se l’ente affidatario svolga l’attività prevalente per l’amministrazione aggiudicatrice, segnatamente per gli enti territoriali che siano suoi soci e che lo controllino, non si deve ricomprendere in tale attività quella imposta a detto ente da un’amministrazione pubblica, non sua socia, a favore di enti territoriali a loro volta non soci di detto ente e che non esercitino su di esso alcun controllo. Pertanto, tale ultima attività deve essere considerata come un’attività svolta a favore di terzi.
La Corte evidenzia che al fine di stabilire se l’ente affidatario svolga l’attività prevalente per gli enti territoriali che siano suoi soci e che esercitino su di esso, congiuntamente, un controllo analogo a quello esercitato sui loro stessi servizi, occorre tener conto di tutte le circostanze del caso di specie, tra le quali, all’occorrenza, l’attività che il medesimo ente affidatario abbia svolto per detti enti territoriali prima che divenisse effettivo tale controllo congiunto.
Tutela dei diritti fondamentali: tutela dati personali
Tipo di procedimento: Rinvio pregiudiziale dal Kammarrätten i Stockholm
Oggetto: Comunicazioni elettroniche – Trattamento dei dati personali – Riservatezza delle comunicazioni elettroniche – Obbligo riguardante la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione.
La Corte si pronuncia sull’interpretazione dell’art. 15, par. 1 della direttiva 2002/58/CE, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche, letta alla luce degli artt. 7 e 8 nonché dell’art. 52, par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (di seguito, la Carta). La normativa nazionale la cui conformità al diritto UE è discussa nel procedimento principale era stata emanata in attuazione della direttiva 2006/24 – poi dichiarata invalida dalla celebre sentenza Digital Rights- e prevede per finalità di lotta contro la criminalità, una conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e all’ubicazione di tutti gli abbonati concernente tutti i mezzi di comunicazione elettronica.
La Corte, dopo aver chiarito che la materia rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 2002/58, evidenzia che l’art. 5 di detta direttiva stabilisce che gli Stati membri debbano garantire, mediante norme nazionali, la riservatezza delle comunicazioni effettuate per il tramite una rete pubblica di comunicazione e di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico, nonché la riservatezza dei relativi dati sul traffico. L’art.15, par. 1 della direttiva consente agli Stati membri di introdurre eccezioni al suddetto obbligo, ma tali deroghe al principio di riservatezza devono rispondere agli obiettivi espressamente indicati dal medesimo articolo, nonché rispettare i diritti fondamentali della Carta – in particolare l’ art. 7 che tutela il rispetto della vita privata, l’art. 8 sul diritto alla protezione dei dati personali e l’ art.11 sul diritto alla libertà di espressione.
La conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati, senza alcuna eccezione, che permette di trarre conclusioni molto precise riguardo alla vita privata delle persone, determina un’ingerenza nei diritti fondamentali di vasta portata e particolarmente grave, idonea a ingenerare nell’utente la sensazione che la sua vita privata sia oggetto di una sorveglianza continua. Aggiunge la Corte che la conservazione di tali dati potrebbe incidere sull’utilizzazione dei mezzi di comunicazione, pregiudicando i diritti di cui all’art. 11 della Carta. Per contro, l’art. 15, par. 1 della direttiva 2002/58, letto in combinato disposto con gli artt. 7, 8 e 11 nonché con l’art. 52, par. 1 della Carta, non osta a che uno Stato membro adotti una normativa la quale consenta, a titolo preventivo, “la conservazione mirata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, per finalità di lotta contro la criminalità grave, a condizione che la conservazione dei dati sia, per quanto riguarda le categorie di dati da conservare, i mezzi di comunicazione interessati, le persone riguardate, nonché la durata di conservazione prevista, limitata allo stretto necessario”. Secondo la Corte inoltre non è conforme al diritto dell’Unione una normativa nazionale che disciplini l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati conservati, senza limitare – pur nell’ambito della lotta contro la criminalità – tale accesso alle sole finalità di lotta contro la criminalità grave, senza sottoporre detto accesso ad un controllo preventivo da parte di un giudice o di un’autorità amministrativa indipendente, e senza esigere che i dati di cui trattasi siano conservati nel territorio dell’Unione.
Infine, viene evidenziato che non rappresentando ad oggi ancora la CEDU uno strumento giuridico formalmente integrato nell’ordinamento giuridico Ue, l’interpretazione della direttiva 2002/58 deve essere effettuata unicamente alla luce dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta.
Mercato interno: libera circolazione delle persone
Tipo di procedimento: Rinvio pregiudiziale dalla Cour Administrative de Luxembourg
Oggetto: Libera circolazione delle persone – Diritti dei lavoratori – Parità di trattamento – Vantaggi sociali – Sussidio economico per il compimento di studi superiori – Requisito di filiazione – Nozione di “figlio” – Figlio del coniuge o del partner registrato – Contributo al mantenimento.
I procedimenti principali si riferiscono ai requisiti per la concessione da parte dello Stato lussemburghese dei sussidi economici a studenti non residenti in Lussemburgo per il compimento degli studi superiori. Ai sensi del diritto nazionale richiamato, tali sussidi sono concessi agli studenti che non risiedono in Lussemburgo a condizione, da un lato, che essi siano figli di un lavoratore subordinato o autonomo, cittadino lussemburghese o cittadino dell’Unione, e dall’altro, che il lavoratore in questione sia stato occupato o abbia esercitato la propria attività in Lussemburgo per un periodo ininterrotto di almeno cinque anni al momento della domanda di sussidio. Nel caso di specie l’accesso ai sussidi era stato negato poiché gli studenti richiedenti non potevano essere qualificati “figli” di un lavoratore frontaliero, in quanto unicamente i loro padri acquisiti lavoravano in Lussemburgo.
Secondo la Corte di Giustizia l’art. 45 TFUE e l’art. 7, par. 2 del regolamento n. 492/2011 vanno interpretati nel senso che deve intendersi per figlio di un lavoratore frontaliero che può beneficiare indirettamente dei vantaggi sociali di cui a quest’ultima disposizione, quali il finanziamento degli studi concesso da uno Stato membro ai figli dei lavoratori che esercitano o hanno esercitato la propria attività in tale Stato, non solo il figlio che ha un legame di filiazione con il lavoratore in parola, ma altresì il figlio del coniuge o del partner registrato del lavoratore suddetto, laddove quest’ultimo provveda al mantenimento di tale figlio. Quest’ultimo requisito risulta da una situazione di fatto, che spetta all’amministrazione e, se del caso, ai giudici nazionali, verificare.
In particolare, la qualità di familiare di un lavoratore frontaliero che è a carico di quest’ultimo può risultare da elementi oggettivi come la sussistenza di un domicilio comune tra il lavoratore e lo studente, senza che sia necessario determinare le ragioni della partecipazione del lavoratore frontaliero al mantenimento dello studente, né quantificarne la precisa entità.
Mercato interno: libera circolazione delle persone
Tipo di procedimento: Rinvio pregiudiziale dal Tribunal administratif de Luxembourg
Oggetto: Libera circolazione delle persone – Parità di trattamento – Vantaggi sociali – Sussidio economico per studi superiori – Discriminazione indiretta.
Il sig. Verruga, studente all’università del Belgio, riede con i genitori in Francia. Questi ultimi, salvo brevi interruzioni, hanno lavorato come transfrontalieri in Lussemburgo per più di otto anni. Lo Stato lussemburghese ha negato al sig. Verruga la concessione di un sussidio economico per studi superiori, a causa della mancanza del requisito richiesto dalla legge nazionale per i lavoratori transfrontalieri. La normativa lussemburghese, infatti, subordina la concessione del suddetto sussidio economico al requisito della residenza dello studente nel territorio lussemburghese o, per gli studenti non residenti in tale territorio, al requisito di essere figlio di lavoratori impiegati o che abbiano esercitato la propria attività professionale in Lussemburgo per un periodo minimo e ininterrotto di cinque anni alla data della domanda di sussidio economico. Anche se si applica indistintamente ai cittadini lussemburghesi e ai cittadini di altri Stati membri, un siffatto requisito di un periodo di lavoro minimo e ininterrotto non è previsto per gli studenti che risiedono nel territorio lussemburghese.
La Corte è chiamata a verificare se il predetto requisito integri una discriminazione indiretta fondata sulla cittadinanza, ammissibile soltanto a condizione di essere oggettivamente giustificata, e cioè idonea a garantire il conseguimento di un obiettivo legittimo e non eccedere quanto necessario per il conseguimento di tale obiettivo. Secondo la Corte un’azione intrapresa da uno Stato membro al fine di garantire un livello elevato di formazione nell’ambito della propria popolazione residente, quale è quella in esame, persegue un obiettivo legittimo. Viene evidenziato che, per i lavoratori migranti e frontalieri, il fatto di aver avuto accesso al mercato del lavoro di uno Stato membro determina, in linea di principio, il nesso di integrazione sufficiente nella società di detto Stato, idoneo a consentir loro di avvalersi del principio della parità di trattamento rispetto ai lavoratori nazionali con riferimento ai vantaggi di natura sociale. Il nesso di integrazione risulta, in particolare, dal fatto che i lavoratori migranti, con i contributi fiscali e sociali che versano nello Stato membro ospitante per l’attività retribuita che esercitano, contribuiscono al finanziamento delle politiche sociali di detto Stato. Essi devono pertanto potersene avvalere alle stesse condizioni dei lavoratori nazionali. Lo Stato erogatore del sussidio deve comunque poter appurare che il lavoratore frontaliero presenta effettivamente un legame di integrazione con la società lussemburghese. È quindi legittimo che venga richiesto un collegamento sufficiente a combattere il rischio di veder sorgere un “turismo delle borse di studio”. La Corte se, da un lato, rileva che il requisito di un periodo di lavoro minimo in Lussemburgo è tale da stabilire un siffatto collegamento, dall’altro afferma che per essere conforme al diritto dell’Unione, il requisito della durata minima e ininterrotta non deve eccedere quanto necessario al conseguimento dell’obiettivo perseguito.
Una regola come quella prevista dalla normativa lussemburghese che non consente alle autorità competenti di concedere tale sussidio qualora i genitori, pur se con alcune brevi interruzioni, abbiano lavorato in Lussemburgo per un lasso di tempo significativo comporta una restrizione che eccede quanto necessario per conseguire l’obiettivo legittimo di incrementare il numero di titolari di diplomi di istruzione superiore nell’ambito della popolazione residente, in quanto interruzioni siffatte non sono idonee ad interrompere il collegamento tra il richiedente il sussidio finanziario e il Granducato di Lussemburgo. In conclusione quindi tale normativa contrasta con il diritto dell’Unione.