1. Inquadramento: di “quale ergastolo” stiamo parlando?
Con la sentenza della quale qui brevemente si dà conto (n. 149/2018), la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale – per contrasto con il combinato disposto degli artt. 3 e 27 Cost. – dell’art. 58-quater, comma 4, ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354), nella parte in cui impedisce ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 cp – che abbiano cagionato la morte del sequestrato – di accedere ad alcuno dei benefici elencati all’art. 4-bis, comma 1 della medesima legge, se non abbiano effettivamente espiato almeno ventisei anni di pena. In via consequenziale (ex art. 27, legge 11 marzo 1953, n. 87), la Corte dichiara, inoltre, l’incostituzionalità della medesima disposizione, in relazione alla diversa fattispecie di cui all’art. 289-bis cp (sequestro di persona a scopo di terrorismo o eversione), nei casi in cui dal sequestro sia – parimenti – derivata la morte della vittima e il soggetto agente sia stato, pertanto, condannato alla pena dell’ergastolo.
La Consulta non si occupa, invece – conviene premetterlo subito – del diverso tema della compatibilità costituzionale dell’ergastolo cd. ostativo, non ponendosi, nel caso di specie, la questione della compatibilità costituzionale della subordinazione dei benefici penitenziari alla collaborazione con la giustizia del detenuto.
2. La questione di legittimità costituzionale
La questione di legittimità costituzionale – sollevata del Tribunale di sorveglianza di Venezia – originava dalla richiesta di un condannato all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630, comma 3 cp di accedere al beneficio della semilibertà (art. 50 ord. pen.). Il ricorrente, in particolar modo: aveva già espiato una pena di più di ventidue anni di reclusione, durante i quali aveva dato prova di «eccezionale impegno negli studi universitari» e di «condotta sempre regolare» all’interno dell’istituto penitenziario; lavorava da alcuni anni, sempre all’interno del carcere, in un call center gestito da una cooperativa; allegava all’istanza un’offerta di contratto di lavoro all’esterno; si trovava nell’impossibilità di collaborare utilmente con le autorità, che avevano sin da subito accertato le responsabilità relative al fatto di reato commesso (non vi erano, dunque, condizioni ostative alla concessione del beneficio ex art. 4-bis ord. pen.).
L’unico ostacolo all’ammissione, da parte del Tribunale di sorveglianza, dell’instante alla semilibertà era dunque rappresentato proprio dalla disposizione di cui all’art. 58-quater, comma 4, ord. pen., che – come già anticipato – consente al condannato per il reato suddetto di accedere ai benefici di cui all’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. (lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà e liberazione condizionale) solo a condizione che egli abbia effettivamente espiato almeno ventisei anni di reclusione.
Proprio la norma di cui all’art. 58-quater è, tuttavia, oggetto del dubbio di costituzionalità del giudice a quo.
Il Tribunale ritiene, in primo luogo, irragionevole la differenziazione fra la fattispecie di cui all’art. 630, comma 3 cp e altri gravissimi reati puniti con la pena dell’ergastolo (su tutti, il delitto di strage) che – pur implicando anche essi, spesso, la causazione della morte di una o più persone – godono tuttavia di un trattamento penitenziario ben più mite di quello riservato al sequestratore che abbia causato la morte del sequestrato. E ciò senza che possa convincentemente argomentarsi – a parere del giudice a quo – sulla ragionevolezza della presunzione di maggiore gravità del delitto di cui all’art. 630, comma 3 cp, che non pare fondata sull’id quod plerumque accidit e si pone, dunque, in contrasto con il principio di uguaglianza/ragionevolezza sancito dall’art. 3 Cost..
I giudici veneziani, in secondo luogo, dubitano della compatibilità costituzionale della disciplina in questione con il principio della necessaria finalità rieducativa della pena, di cui all’art. 27, comma 3 Cost.. Il Tribunale osserva, in particolar modo, come una disciplina che impedisca il graduale accesso del condannato ai benefici si ponga, inevitabilmente, in contrasto con il principio della progressione trattamentale penitenziaria, fondamentale per la rieducazione del reo e il suo corretto reinserimento sociale.
3. Il regime penitenziario disegnato dall’art. 58-quater, comma 4, ord. pen.
Dopo avere dedicato i paragrafi iniziali del considerato in diritto alla ricostruzione storica della disciplina vigente, i giudici costituzionali – investiti della questione – analizzano dettagliatamente il regime penitenziario cui sono sottoposti i condannati per i delitti di cui agli art. 630, comma 3 e 289-bis, comma 3 cp.
Entrambe le fattispecie in questione – osserva la Corte – sono inserite nel novero dei reati di cui al primo comma dell’art. 4-bis: quei delitti cui si ricollega, cioè, una preclusione dell’accesso ai benefici penitenziari (tutti, tranne la liberazione anticipata), in assenza della collaborazione con la giustizia del condannato (ex art. 58-ter).
Nel caso di specie – come già sottolineato – nulla osta, sotto questo profilo, all’ammissione del condannato alla semilibertà, essendo egli nell’impossibilità di prestare un’utile collaborazione alle attività di accertamento delle forze dell’ordine. Il delicato e dibattuto tema della legittimità costituzionale di preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari frutto dell’assenza di collaborazione del condannato all’ergastolo non viene, dunque, affrontato – conviene sottolinearlo ancora – nella pronuncia in oggetto.
La Corte costituzionale, tuttavia, non manca di rilevare come il trattamento degli autori di sequestri di persona da cui sia derivata la morte del sequestrato sia – anche sotto il profilo della collaborazione – deteriore rispetto a quello dei condannati all’ergastolo per tutti i, pure gravissimi, reati ricompresi nel primo comma dell’art. 4-bis; solo ai condannati ex art. 630, comma 3 e 289-bis, comma 3 cp che decidano di collaborare (o la cui collaborazione sia inutile o impossibile), infatti, non si applica il più favorevole regime previsto dall’art 58-ter, in ragione – appunto – dell’operare della diversa previsione di cui all’art. 58-quater, comma 4.
Più in particolare, osserva la Corte, il raffronto con il regime applicabile alla generalità degli altri condannati alla pena dell’ergastolo – sottoposti o meno alle preclusioni di cui all’art. 4-bis – denuncia un regime notevolmente più severo, sol che si consideri che:
«La generalità degli ergastolani non sottoposti al regime di cui all’art. 58-quater ordin. penit. può di regola essere ammessa:
a) al lavoro all’esterno, dopo l’espiazione di almeno dieci anni (art. 21, comma 1 ultima proposizione, ordin. penit.), riducibili sino a un minimo di otto anni in conseguenza dell’integrale riconoscimento delle detrazioni di pena conseguenti alla liberazione anticipata;
b) ai permessi premio, dopo l’espiazione, parimenti, di dieci anni (art. 30-ter, comma 2, lettera d, ordin. penit.), anch’essi riducibili sino a un mimino di otto anni grazie alla liberazione anticipata;
c) alla semilibertà, dopo l’espiazione di venti anni (art. 50, comma 5, ordin. penit.), riducibili sino a un minimo di sedici anni grazie alla liberazione anticipata; nonché
d) alla liberazione condizionale, dopo l’espiazione di ventisei anni (art. 176, terzo comma, cod. pen.), anch’essi riducibili a un minimo di circa ventun anni grazie, ancora, alla liberazione anticipata» (§ 3).
Queste regole non vigono per il condannato per il sequestro di persona (a scopo di estorsione o a scopo di terrorismo o eversione), che abbia cagionato la morte del sequestrato: per questi soggetti vi è un’unica soglia temporale – quella dei ventisei anni di pena effettiva (non riducibile per effetto della liberazione anticipata) – per l’accesso ai benefici del lavoro all’esterno, dei permessi premio e della semilibertà; quanto alla liberazione condizionale, anche essa può essere concessa (ex art. 176, comma 3 cp) dopo ventisei anni di pena espiata, potendosi questa volta, tuttavia, tener conto delle detrazioni di pena conseguenti alla liberazione anticipata.
3. La centralità del finalismo rieducativo e il triplice contrasto dell’art. 58-quater, comma 4, ord. pen., con gli artt. 3 e 27 Cost.
L’analisi del trattamento penitenziario riservato ai condannati all’ergastolo ai sensi degli artt. 630, comma 3 e 289-bis, comma 3 cp delinea un quadro complessivo del quale la Corte costituzionale non esita ad affermare – come anticipato – l’illegittimità.
Le ragioni del contrasto con il dettato costituzionale della disciplina in oggetto non sono, tuttavia, motivate con riguardo all’irragionevolezza del diverso trattamento penitenziario di fattispecie dotate di disvalore e di pericolosità sociale (quantomeno) comparabile, come il giudice a quo aveva, in prima battuta, suggerito. La Consulta individua, invece, tre diversi profili di illegittimità costituzionale della disciplina di cui all’art. 58-quater, comma 4, ord. pen. in relazione al combinato disposto degli artt. 3 e 27 Cost.:
a) il contrasto con il principio della progressività trattamentale (§ 5);
b) la riduzione degli incentivi, per il condannato, a partecipare all’opera di rieducazione (§ 6);
c) il carattere automatico della preclusione dell’accesso ai benefici, svincolato da qualunque valutazione concreta del giudice durante l’esecuzione della pena (§ 7).
4.1 Un carcere gradualmente sempre più aperto verso l’esterno
Quanto al primo dei profili di illegittimità costituzionale sopra enunciati – il necessario rispetto del principio della progressività trattamentale – la Corte costituzionale sottolinea la necessità di favorire, durante tutta la durata dell’esecuzione della pena, il graduale reinserimento del condannato all’ergastolo nel contesto sociale, in attuazione del canone costituzionale della finalità rieducativa della pena. Nel solco di consolidata giurisprudenza costituzionale, la Consulta ribadisce la necessità della progressiva apertura verso l’esterno del percorso rieducativo dell’ergastolano – che, naturalmente, abbia tenuto un comportamento tale da denotare il suo ravvedimento – per «perseguire efficacemente quel progressivo reinserimento armonico della persona nella società, che costituisce l’essenza della finalità rieducativa» (sent. n. 403 del 1997).
La disciplina oggetto di scrutinio, tuttavia – affermano i giudici costituzionali – pare sovvertire irragionevolmente la logica gradualistica sottesa al reinserimento sociale di cui sopra:
i) individuando un unico momento (i ventisei anni di pena espiata) a partire dal quale il condannato può fruire di benefici – quali il lavoro all’esterno, i permessi premio e la semilibertà – concepiti, dal legislatore penitenziario, in rapporto di logica progressione;
ii) facendo coincidere il momento di fruizione dei benefici suddetti con quello a partire dal quale il giudice può concedere la liberazione condizionale al detenuto, che può dunque uscire dal carcere. Per tacere del fatto che – essendo la liberazione condizionale l’unico beneficio cui si applica, per il condannato ai sensi degli artt. 630, comma 3 e 259-bis, la disciplina della liberazione anticipata – il momento in cui il detenuto potrà, infine, definitivamente uscire dal carcere potrà essere, in effetti, anteriore rispetto a quello a partire dal quale lo stesso detenuto avrebbe potuto fruire, ad esempio, di un permesso premio.
Come se non bastasse, fra i requisiti necessari per la concessione della semilibertà al detenuto spicca, per effetto di consolidata giurisprudenza di legittimità, quello delle previe e positive esperienze al di fuori delle mura penitenziarie. Un tale requisito – afferma ancora la Corte – ben potrebbe essere posto a fondamento anche dell’accesso del detenuto alla liberazione condizionale: con la paradossale conseguenza che, allo scadere dei ventisei anni di pena effettivamente espiata (eventualmente ridotti per effetto della liberazione anticipata) il detenuto potrebbe vedersi negata l’uscita dal carcere – pur in presenza di una continua partecipazione al percorso rieducativo – proprio per l’assenza di precedenti esperienze risocializzanti.
4.2. L’importanza dei concreti incentivi al percorso di rieducazione
Gli evidenti profili di frizione rispetto al principio della progressione trattamentale, non possono che riverberarsi negativamente – come la Consulta sottolinea, denunciando il secondo dei profili di incostituzionalità di cui sopra – sul concreto incentivo alla partecipazione del reo al percorso rieducativo.
È infatti evidente – osservano i giudici costituzionali – come un condannato alla pena dell’ergastolo, appena inserito all’interno del circuito penitenziario, non possa che vedere come remotissimo il momento a partire dal quale potrà espirare alla concessione di un qualunque beneficio, quando l’attesa sia – anche nella migliore delle ipotesi – ultraventennale. La disciplina di cui all’art. 58-quater, comma 4, ord. pen., dunque, finisce per frustrare la funzione fondamentale che l’istituto della liberazione anticipata riveste nel nostro ordinamento: quella di stimolare la partecipazione del detenuto al percorso rieducativo, obiettivo finale del trattamento penitenziario al quale il reo è sottoposto.
4.3. La necessità di una valutazione individuale del percorso rieducativo del reo
Il terzo e ultimo profilo di illegittimità costituzionale risiede infine – così afferma la Consulta – nel carattere automatico delle preclusioni stabilite dall’art. 58-quater, comma 4, ord. pen.: la norma oggetto di scrutinio, infatti, impedisce al giudice qualunque tipo di valutazione individuale circa il concreto percorso rieducativo del reo, in aperto contrasto con il criterio – costituzionalmente vincolante nella materia dei benefici penitenziari – dell’esclusione di rigidi automatismi e della necessaria valutazione caso per caso (Corte cost., sent. n. 436 del 1999). Tanto più che presunzioni assolute – come quella che ci occupa – fondate, peraltro, sul solo titolo del reato commesso, finiscono «per relegare nell’ombra il principio rieducativo» (Corte cost., sent. n. 257 del 2006) contribuendo a delineare un sistema «sicuramente in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena» (Corte cost., sent. 255 del 2006).
Ne consegue – afferma ancora la Consulta – che sono costituzionalmente illegittime previsioni che, come quella in oggetto, «precludano in modo assoluto, per un arco temporale assai esteso, l’accesso ai benefici penitenziari a particolari categorie di condannati (…) in ragione soltanto della particolare gravità del reato commesso, ovvero dell’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalità dei consociati». Le finalità suddette – che pure possono legittimamente ispirare il legislatore nella fase di comminazione della pena – non possono tuttavia «nella fase di esecuzione della pena, operare in chiave distonica rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima (…) da declinarsi (…) come necessità di costante valorizzazione, da parte del legislatore prima e del giudice poi, dei progressi compiuti dal singolo condannato durante l’intero arco dell’espiazione della pena».
È sulla base di tali premesse, dunque, che la Consulta giunge a ritenere costituzionalmente legittime solo quelle preclusioni nell’accesso a benefici penitenziari che siano frutto di valutazioni individuali, da parte del giudice competente, fondate su specifiche ragioni ostative – di ordine specialpreventivo – inerenti la perdurante pericolosità del singolo condannato.
Insomma, la rieducazione del condannato, nel senso della sua risocializzazione e del suo reinserimento nella società, costituisce una prospettiva necessariamente inerente alla dignità della persona – e qui la Consulta fa espressamente riferimento all’insegnamento della Corte europea dei diritti dell’uomo (Grande camera, sent. 9 luglio 2013, Vinter e. a. c. Regno Unito) – e rappresenta, pertanto, una componente necessaria dell’esecuzione della pena dell’ergastolo, indipendentemente dalla gravità dei reati commessi.
Anche l’autore del crimine più orribile – chiosa la Corte – può, con un atto di responsabilità individuale, intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità alla luce dei valori condivisi dalla società civile. A questo gesto di responsabilità individuale deve però corrispondere un atto di responsabilità collettiva, da parte della società nel suo complesso, nel consentire e nello stimolare il percorso di cambiamento intrapreso dal detenuto. E ciò anche mediante la previsione di incentivi che, in maniera graduale, attenuino il rigore della pena inflitta per il reato commesso e favoriscano in reinserimento sociale del reo.