1. Alla fine del secolo scorso, in una lucida analisi sul potere dei giudici, Alessandro Pizzorno, con la sua autorevolezza di studioso, pur evidenziando gli «eccezionali effetti politici che l’azione della magistratura italiana ha esercitato negli anni recenti» e le «peculiari … condizioni di indipendenza dal potere politico che la nostra Costituzione assicura alla magistratura requirente», inquadrava il caso italiano «all’interno di un fenomeno assai più vasto di espansione del potere giudiziario, che è comune a tutte le democrazia liberali mature».
Sin dalla premessa dell’analisi, Pizzorno sottolineava come «le causa di tale espansione del potere giudiziario siano esogene e non endogene, che cioè non vadano ricondotte a particolari meccanismi delle istituzioni giudiziarie, né tanto meno […] alla volontà di determinati gruppi di magistrati, bensì al formarsi di condizioni nuove sia nella società, sia nelle istituzioni politiche del regime rappresentativo, e quindi alla nuova natura della legislazione e della domanda di giustizia che ne consegue»[1].
Queste annotazioni, che considerano gli effetti sulla democrazia determinati dalla affermazione dello stato costituzionale di diritto, sono idonee a spiegare come mai siano finora falliti tutti i tentativi di ridimensionamento del potere giudiziario, malgrado la forza e l’ampiezza dello schieramento politico italiano che quell’intento coltiva e nonostante l’inefficienza complessiva del sistema giudiziario che non riesce a fornire tempestiva risposta alle accresciute domande dei cittadini.
2. Prevalentemente condizionato da fattori endogeni (cioè connesso alle azioni e alle condotte dei magistrati) sembra invece l’andamento del flusso di fiducia o di sfiducia dei cittadini verso la magistratura, senza che abbiano pesato più di tanto, o siano stati comunque decisivi, gli attacchi esterni volti alla delegittimazione del ruolo della giurisdizione e dell’istituzione giudiziaria.
Basti ricordare le ripetute furibonde aggressioni del primo decennio del secolo, che lungi dall’intaccare la fiducia della collettività nell’azione della magistratura, finivano talvolta per rinforzarla, grazie anche ad un’attenta capacità di comunicazione messa in opera, con linguaggio di verità e argomentazioni di ragione, dai dirigenti associativi, da Elena Paciotti ed Edmondo Bruti Liberati a Nello Rossi, con la sua Lettera aperta a impossibili avversari[2].
Nell’esordio di un suo recente libro, Gustavo Zagrebelsky afferma che i giuristi, insieme con i politici e i giornalisti, formano una «triade con speciali e comuni problemi di integrità, credibilità e responsabilità che li rendono particolarmente esposti alla disistima», evidenziando che «la loro professione e le attività che essa comporta hanno necessariamente risonanza generale. Cento buoni giuristi non fanno buona opinione quanto un solo cattivo giurista ne fa una cattiva». E ciò perché essi «coinvolgono singolarmente in ogni loro atto il valore da cui dipende la legittimità della loro professione»[3]. Non sono sicuro che ciò valga o valga allo stesso modo per tutti i componenti della triade. Certamente vale per i magistrati.
3. Le vicende emerse negli ultimi tempi, gli occulti “patti di potere” che hanno coinvolto magistrati, politici, imprenditori hanno avuto «effetti devastanti sulla fiducia dei cittadini nelle istituzioni giudiziarie»[4]. Di tanto occorre avere piena consapevolezza, come singoli e come gruppo associativo, se si vuole imboccare una difficile ma necessaria inversione di rotta; la stessa consapevolezza che, un anno fa, espresse sconsolatamente il Presidente della Repubblica nell’evidenziare la «modestia etica» emersa non solo dalle rivelazioni dell’incontro dell’Hotel Champagne, ma da tutto il contorno di colloqui e di traffici che palesano un «dilagante malcostume». Parole misurate e pesanti, di cui la magistratura nel suo complesso non sembra aver pienamente valutato la portata dirompente e dalle quali non ha saputo ancora trarre una decisiva spinta per il cambiamento.
In un suo noto pamphlet, Rodotà ricordava al mondo politico che «istituzioni e uomini non vengono più rispettati quando non appaiono rispettabili»[5]. E’ un ammonimento che oggi va indirizzato al mondo della magistratura. E’ comunque una costatazione che la magistratura deve mettere alla base di ogni analisi e di ogni strategia di possibile risalita, comunque difficile e lunga. Non già, ovviamente, per invocare ipocrite e illusorie regressioni verso inesistenti “bei tempi andati”, ma per concorrere a delineare e praticare un’etica civile, comprensiva della weberiana “etica della responsabilità”, che richiede costante attenzione alle conseguenze del proprio agire verso le persone che pongono domande di giustizia e verso l’intera società che nelle istituzioni e in coloro che in esse operano deve poter nutrire fiducia.
Per due maestri di diritto e di laicità, Stefano Rodotà e Gianni Ferrara, l’etica fu tema ricorrente di riflessione e di impegno: un’etica repubblicana, idonea a dare una spinta alla politica e al diritto, giacché è certamente essenziale distinguere, ma non separare etica, diritto e politica.
In un intervento su Questione Giustizia, Nello Rossi ha sottolineato con forza che «la dimensione etica e disciplinare è ben lontana dall’esaurire in sé l’intera sostanza e portata delle vicende disvelate»[6] evidenziando che accanto alla “questione morale” si colloca una più profonda e strutturale “questione democratica”, che riguarda il deficit e la caduta di democrazia che si sono determinate nel funzionamento di quella peculiare “democrazia” voluta dai Costituenti per il CSM.
Quella di Rossi è la più lucida analisi finora svolta e ha avviato quell’indispensabile “critica di se stessi” che l’associazionismo deve continuare e approfondire per trarne tutte le necessarie conseguenze operative. Bene ha fatto il direttore della rivista promossa da un gruppo di magistrati a dedicarsi innanzitutto all’analisi dei comportamenti e delle dinamiche dei gruppi associativi. Ma è di tutta evidenza non soltanto che a quel malcostume emerso dalle inchieste di Perugia e ora di Potenza hanno attivamente partecipato esponenti politici, ma che gli stessi risultati perseguiti e talora raggiunti (per es. in tema di nomine) dai consiglieri del CSM di provenienza magistratuale – protagonisti e interpreti delle dinamiche leaderistiche, di notabilitato o di oligarchia autoreferenziale di cui scrive Rossi – sono stati resi possibili, se non agevolati, dall’assenso, dall’accordo, quando non dal coordinamento, di non secondari attori di designazione politica e parlamentare.
Questa banale costatazione non mira certo ad allargare il discredito ad ambiti che finora appaiono indenni dalla aggressiva demonizzazione che ha investito il correntismo giudiziario, ma vuole ricordare ad analisti distratti o smemorati, e soprattutto a chi è seriamente impegnato sul terreno delle riforme, un elemento non secondario di riflessione e di valutazione per evitare di imboccare illusorie scorciatoie, su cui evidente appare il consenso interessato di chi ha finalmente trovato la “pistola fumante” per scatenare una battaglia campale di limitazione del governo autonomo dei magistrati, di annichilimento dei gruppi associativi che, pur con cadute e contraddizioni, costituiscono il collante culturale di indipendenza e democratizzazione della magistratura, di atomizzazione individualistica dei magistrati, con la finalità principale di ridimensionare il potere giurisdizionale.
4. Non si possono che condividere le parole della Ministra della giustizia Cartabia: «Le riforme, per quanto complete, non saranno risolutive se non saranno accompagnate da un rinnovamento dei costumi, da parte di ciascuno, sul piano personale, e da parte dell'intera categoria». Importanti sono e saranno, perciò, le effettive risposte dei magistrati e dei loro raggruppamenti alle varie proposte di riforma, perché anche su di esse potrà misurarsi l’effettivo impegno di risanamento. Ma altrettanto importante sarà il concreto ripudio non soltanto delle prassi di malcostume, ma delle relazioni di potere, del modo di porsi dei magistrati nei confronti dei potentati economici, mentre va privilegiata la presa in carico delle persone comuni, quelle che subiscono inermi le scelte del potere e patiscono disuguaglianze e discriminazioni.
Compete perciò all’associazionismo giudiziario non solo proporre una rafforzata dimensione dei doveri e di assunzione di responsabilità dei magistrati, nell’esercizio della giurisdizione, nella pratica dell’autogoverno centrale e periferico, nella partecipazione al confronto democratico nella sfera pubblica, ma anche avviare un profondo rinnovamento culturale, etico e politico, capace di ricostruire i nessi coerenti tra comportamenti e regole, tra culture associative e azione personale, tra partecipazione alla sfera pubblica e valori costituzionali che devono orientare chi esercita un potere istituzionale. Occorre trasformare l’indignazione in una formidabile tensione morale e politica verso un autentico rilancio professionale capace di riguadagnare la fiducia del cittadini per la serietà e l’efficacia istituzionale, rifuggendo dalla ricerca dei consensi di piazza o dei sondaggi.
E’ su questo terreno di indispensabili scelte di rigore e di radicalità che vanno valutati i vari interlocutori, dentro e fuori la magistratura, per disegnare eventuali alleanze e i percorsi comuni, al di là di unità o unanimità apparenti.
I temi dell’autogoverno, le nomine dei capi dei capi degli uffici giudiziari, le condizioni e i carichi di lavori dei magistrati, etc. sono tematiche importanti, ma facilmente esposte alla torsione corporativa o efficientistica se non sono ancorate a valori di fondo, declinati non dal punto di vista dei magistrati, bensì da quello delle persone che pongono alla giurisdizione domande di giustizia.
Certamente tutti siamo chiamati all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.), ma la Costituzione chiama in causa innanzitutto e soprattutto coloro a cui sono affidate funzioni pubbliche, che – per espresso dettato costituzionale – hanno il dovere di adempierle con «disciplina ed onore» (art. 54, secondo comma, Cost.).
Senza ovviamente trascurare i diritti di chi esercita funzioni pubbliche, occorre riaffermare con forza che ai diritti fondamentali delle persone, soprattutto delle più vulnerabili (a cominciare da minori, immigrati, carcerati, etc.), corrispondono precisi obblighi dei poteri legali e delle istituzioni e, sul piano soggettivo, specifici doveri di chi quei poteri rappresenta e in quelle istituzioni opera ed esercita essenziali funzioni, disponendo del corpo delle persone e incidendo direttamente sulla libertà fisiche e psichiche.
5. Non si tratta soltanto di richiami retorici, giacché all’associazionismo dei magistrati si pone un bivio di netta differenziazione tra chi percorre una (certamente legittima ma asfittica) prospettiva sindacale di tutela delle condizioni in cui operano i propri associati, e chi sceglie di privilegiare il contenuto e l’efficacia della funzione di garanzia dei diritti e di promozione e tutela delle libertà e di contrasto alle crescenti disuguaglianze (e penso alla vicenda dello stabilimento siderurgico di Taranto che continua ad uccidere la città e i suoi abitanti; ai conflitti di lavoro di Piacenza; ai procedimenti per il “delitto di solidarietà” che non sono esclusività francese, ma ricorrono anche alle nostre frontiere settentrionali). E’ su questo terreno che Magistratura democratica può davvero concorrere, come ha fatto per decenni, a fornire un contributo di vitalità della polis nazionale ed europea in conformità alle promesse della Costituzione e della Carta dei diritti fondamentali.
Altri hanno analizzato le diverse proposte di legge in campo. Mi limito a sottolineare che dalla risposta che la magistratura darà a tali proposte, l’opinione pubblica potrà cogliere l’effettiva volontà dei magistrati di aprirsi alla critica e al confronto. Ogni chiusura corporativa, per tentare un’illusoria difesa dell’esistente, prima che sbagliata, è del tutto inutile.
L’opinione pubblica, anche la più qualificata, quella che per decenni ha sostenuto la giurisdizione contro gli attacchi di alcuni settori politici ed economici, è oggi sconcertata: esprime un ripudio totale per l’intollerabile caduta di etica pubblica e attende dimostrazione di profondo rinnovamento; allo stesso tempo, non crede che possa bastare l’autoriforma e sottolinea l’esigenza di mirati interventi normativi. Ciò che rimane indispensabile è la difesa del modello costituzionale; su tutto il resto è necessario confrontarsi e discutere.
E’ arrivato il momento di realizzare quel nuovo «patto con i cittadini»[7], proposto sin dalla formulazione del codice etico da Nello Rossi, «nel quale – a fronte del riconoscimento da parte della collettività dell’indipendenza e della ineliminabile discrezionalità interpretativa del magistrato nell’esercizio delle sue funzioni – i magistrati attraverso la loro rappresentanza collettiva» si impegnano, singolarmente e collettivamente, nel concreto rinnovamento di costume e di esercizio professionale, mostrando concretamente di operare nei fatti per inverare quel modello di magistratura non gerarchica voluta dalla Costituzione che, da Taranto a Trieste a Locri e a Lampedusa, sia capace di garantire i diritti fondamentali di ciascuna persona e di controllare la liceità dell’esercizio dei poteri pubblici e privati, senza invasioni di campo ed esorbitanza dalle proprie competenze.
Nei momenti difficili – e questo lo è davvero non soltanto per la giurisdizione, ma per la democrazia costituzionale – è più che mai necessaria una forte assunzione di responsabilità da parte di chi ha un ruolo istituzionale e, più in generale, di tutti coloro che esercitano funzioni fuori dal circuito della maggioranza politica e che fondano il senso del proprio agire sull’etica e le regole della professione, della scienza e delle istituzioni di garanzia, che non trovano nel consenso la propria fonte di legittimazione.
Ce ne ha dato esempio, in un efficace intervento scritto, Giovanni Palombarini, che intellettualmente e politicamente si riconferma ad essere il più giovane di tutti noi. Senza alcune invocazione di patrimonio storico, che pure ha concorso da protagonista ad accumulare e anche rivedendo suoi precedenti convincimenti, in considerazione dei tempi difficili che viviamo e di quelli più bui che potremmo vivere, ha formulato proposte di riforma ordinamentale e processuale idonee a imboccare davvero un’altra rotta: dall’effettiva temporaneità degli incarichi direttivi, alla limitazione dell’appello anche per il pubblico ministero, alla partecipazione effettiva degli avvocati all’autogoverno periferico.
In proposito, mi limito a ricordare che la norma sulla limitazione dell’appello del PM per le sentenze assolutorie, tanto demonizzata perché fu inserita in un complesso di provvedimenti governativi scriteriati e dannosi, ebbe la sua origine nelle proposte avanzate da due esponenti di Md in un convegno dell’ANM svoltosi a Spoleto.
Quanto ad un diverso rapporto con l’avvocatura, indispensabile per il rilancio di un servizio giudiziario efficiente e affidabile, la proposta di una partecipazione non formale degli avvocati anche all’autogoverno territoriale merita condivisione. Né francamente si può continuare a parlare di comune cultura della giurisdizione soltanto a senso unico. Per essere presa sul serio, quella “comunanza” deve comprendere gli avvocati. Né ha molto senso ricordare che la cultura della giurisdizione può trovare pesanti condizionamenti negli interessi materiali che il singolo professionista eventualmente coltiva per i suoi assistiti. E’ agevole per contro osservare che non raramente in taluni PM la cultura della giurisdizione risulta pesantemente compromessa da vocazioni missionarie alla salvezza del mondo, da delirio di onnipotenza e talvolta anche da smanie di protagonismo.
Nel quadro politico, sociale e culturale in profonda trasformazione, sono venuti meno non solo vecchie certezze, ma anche punti di riferimento. Per fare un solo esempio, mi limito ad evidenziare che, di fronte alla violenza intollerabile e alla vergogna per un paese civile palesate dagli abusi commessi nel carcere di S. Maria Capua Vetere, mentre L’Avvenire del 7 luglio ospitava un articolo di Glauco Giostra, che rilanciava con forza contenuti della riforma scaturita degli Stati generali per l’esecuzione penale, fatta abortire da miopie politiche, il quotidiano La Repubblica pubblicava un intervento di due suoi abituali collaboratori che sollecitavano la costruzione di nuove carceri.
Come si vede, il “punto di vista esterno”, così come mezzo secolo fa, è variegato e pieno di contraddizioni e tuttavia l’attenzione ad esso rimane assolutamente indispensabile. Più che una scelta organizzativa, l’apertura all’esterno, deve divenire un connotato genetico di sensibilità, di assunzione del punto di vista socialmente significativo, di interlocuzione non subalterna ma neppure spocchiosamente altezzosa, per evitare tentazioni di contrapposizione frontale, a volte manichea, tra la magistratura e il resto del mondo. Servirà anche per potenziare una auto vigilanza continua sui rischi di dinamiche corporative e autoreferenziali (nell’esame delle leggi, nell’interpretazione giudiziaria, nelle dinamiche dell’autogoverno). Quell’attenzione è ancora essenziale, come lo era a metà degli anni ‘60, quando un piccolo gruppo di giovani magistrati ruppe l’ideologia e la cultura dominanti per prendere sul serio la Costituzione e il ruolo della giurisdizione, sintonizzandosi con le spinte più vitali e democratiche della società.
Se la magistratura vuole recuperare, come è indispensabile ed urgente, non già il consenso ma la fiducia dei cittadini, deve innanzitutto avere più fiducia nei cittadini e nella loro capacità di impegnarsi per la democrazia e lo stato costituzionale di diritto, che coniuga diritti fondamentali e doveri di solidarietà.
Ovviamente occorre tenere ben presente che, come nel Paese e nella società, anche in magistratura vivono orientamenti, culture e atteggiamenti molto differenti e divaricati. Il connotato di una vera democrazia e di ogni associazione democratica è il pluralismo e il confronto anche con posizioni diverse.
Non bisogna tuttavia mai dimenticare che, all’esito del confronto, nel momento di impostare programmi ed orientamenti per l’azione, occorrono scelte programmatiche coerenti, che non possono, ad esempio, trascurare l’esistenza di profonde antitesi tra le logiche sindacal-corporative di significative componenti del panorama associativo dei magistrati e quella di concorrere a realizzare, nell’ambito delle proprie competenze e del proprio ruolo, l’impegno a cui l’art. 3 cpv. Cost. obbliga la Repubblica e tutte le sue articolazioni.
Di questo associazionismo giudiziario, di questa cultura e pratica dell’indipendenza hanno bisogno non soltanto la magistratura, ma anche la società italiana ed europea.
Dal congresso di Bologna del 2016 Md ha ripreso autonoma parola. Mariarosaria Guglielmi e Riccardo De Vito, pur tra ostacoli e difficoltà, hanno guidato il gruppo con grande capacità verso un fecondo ri-collegamento con le forze vive della cultura, dell'università, dell'ambientalismo, dell’associazionismo civico, riproponendo la cultura di Md sui temi e problemi che l’istituzione giudiziaria e il Paese hanno dinanzi. A loro va dato atto di essersi avventurati, vincendo la sfida, in una missione che sembrava impossibile, sol che si ricordi l’atmosfera pesante della primavera del 2016. A Firenze l’intensa relazione di Maria Rosaria Guglielmi ha consegnato una lucida e coraggiosa riflessione al confronto congressuale, tale da segnare davvero un forte rilancio che potrà così proseguire, con la partecipazione attiva dei tanti che sono impegnati in Magistratura democratica, il processo di rilancio avviato e continuare a vivere come soggetto collettivo per poter riacquistare la pienezza delle sue potenzialità contro ogni logica burocratica e corporativa. Contenuti e azioni coerenti, con voce autonoma, chiara e responsabile, costituiranno il contributo che MD può e deve dare alla magistratura, alle istituzioni, alla società civile per la ricostruzione della credibilità e l’effettività della giustizia e per il rilancio del Paese.
[1] A. Pizzorno, Il Potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù, Laterza, 1998, pp. 5-7.
[2] In Questione Giustizia n. 2/2001.
[3] G. Zagrebelsky, La giustizia come professione, Einaudi 2021, pp. 12-15.
[5] S. Rodotà, Elogio del moralismo, Laterza 2011, p. 10.
[6] N. Rossi, Questione morale o questione democratica?, in Questione Giustizia on line , 26.1.2021
[7] N. Rossi, L’elaborazione del codice etico dell’ANM, in AAVV, Deontologia giudiziaria, Napoli, 2006, pp. 205-221.