A volte ritornano, è il caso di dire a proposito del carcere.
I dati dell’ultimo anno rivelano che sta tornando, se non il sovraffollamento, sicuramente un aumento della popolazione carceraria a un ritmo preoccupante (al 31 maggio, secondo quanto riferito dal Garante nazionale dei detenuti, le presenze erano salite a 58.838, di cui 1500 negli ultimi sei mesi), per cui, con questo passo arriveremmo a 67mila detenuti nel 2020, facendo un salto indietro di quasi dieci anni.
Stanno tornando gli arresti facili, anche di breve durata (nel primo semestre 2016: 34mila in flagranza, 24mila dalla libertà e solo 8mila domiciliari).
Ma sta tornando soprattutto un clima politico carcerocentrico, come rivelano numerosi indizi: l’enfasi per l’aumento delle pene previsto nel ddl penale per furti e scippi; la corsa a riformare la legittima difesa; i recenti decreti governativi su immigrazione e sicurezza.
Indizi preoccupanti, poiché i “padri” di queste misure sono gli stessi che negli ultimi anni si sono sbracciati contro l’emergenza sovraffollamento – evidentemente solo per le sue ricadute finanziarie – con leggi e interventi di varia natura, compresi gli Stati generali.
Certo, come ogni vigilia elettorale che si rispetti, anche questa porta con sé la “sana” (si fa per dire) competizione politica sul terreno della tolleranza zero, della certezza della pena e di tutti gli stereotipi sulla sicurezza che si traducono in un trionfo della demagogia, nello sfascio del poco faticosamente costruito in precedenza, nell’assenza totale di visioni e prospettive di riforma del carcere.
Peraltro, che cosa c’è di più visionario della nostra Costituzione anche in materia di carcere? In poche righe viene sancito il principio che punire non fa rima con segregare e, anzi, “recuperare” è l’unica strada per fare prevenzione.
In un Paese normale, i cittadini, la politica, le istituzioni si rispecchierebbero pienamente nei principi della Costituzione (a maggior ragione chi la difende con le unghie e con i denti – giustissimamente – contro tentativi di manipolazione). In “tutti” i principi, compreso quello secondo cui la pena deve essere scontata nel rispetto della dignità delle persone e in funzione del loro reinserimento sociale.
Purtroppo, però, dobbiamo prendere atto che così non è. Non c’è questa empatia con i principi costituzionali. I partiti, e talvolta persino le istituzioni, non lavorano per questo. Anzi, cavalcano paure e pregiudizi (se non ignoranza) scavando un baratro ancora più profondo tra i cittadini e i principi costituzionali.
Del resto, l’antipolitica dilagante si nutre di slogan populisti, come appunto la tolleranza zero e la certezza della pena, che rimandano a un’idea della punizione come segregazione e vendetta, incarnata perfettamente dal carcere, e dal modello peggiore di carcere: chiuso, afflittivo, vendicativo.
Perciò, qualunque visione abolizionista del carcere sembra destinata a non tradursi in una corrispondente politica, sebbene la vera sfida, per il futuro della pena, sia proprio quella delle “alternative al carcere” in funzione di una minore recidiva e quindi di una maggiore sicurezza. È una sfida che richiederebbe un supporto culturale straordinario, un’indicazione politica univoca, un altrettanto straordinario sforzo finanziario per evitare fallimenti destinati a travolgere l’idea stessa delle alternative. Richiederebbe, insomma, un investimento ad ampio raggio che non sembra destinato a tradursi in una concreta azione politica né nel breve né nel lungo periodo.
Troppo impopolare.
Nella migliore delle ipotesi ci si scontra contro il muro dello “scetticismo” sull’utilità di rispettare i principi costituzionali e, quindi, di costruire un carcere dei diritti, luogo operoso che dialoghi continuamente con l’esterno, e che chiami i detenuti all’autodeterminazione e alla responsabilizzazione.
Ad aprire una breccia in questo muro di “scetticismo” apparentemente inespugnabile ci hanno pensato gli economisti, con una ricerca che dimostra che un carcere diverso conviene alla sicurezza collettiva.
È una ricerca cominciata nel 2012, durata tre anni, anche se per certi aspetti prosegue, e condotta dall’Ente Einaudi della Banca d’Italia, in particolare dagli economisti Daniele Terlizzese e Giovanni Mastrobuoni, con il supporto del ministero della Giustizia che per la prima volta ha aperto all’esterno la sua banca dati. Eppure, non è stata usata politicamente come avrebbe dovuto, visto che rappresenta un formidabile argomento per convincere, o contribuire a convincere gli “scettici”.
È la prima ricerca scientifica italiana sulla recidiva che, in considerazione del suo costo sociale ed economico, finisce per incidere sulla crescita di un Paese in termini di legalità, risparmi e competitività (uno studio del 2001 aveva calcolato che la diminuzione di un solo punto percentuale di recidiva corrisponde a un risparmio di circa 51 milioni di euro l’anno).
L’analisi si è concentrata sul carcere di Bollate, per misurare gli effetti sulla recidiva del trattamento messo in atto in quella prigione, una delle poche in cui la pena è eseguita semplicemente nel rispetto del dettato costituzionale.
Ebbene, la conclusione è che, a parità di pena complessiva da scontare (e di molte altre caratteristiche), per ogni anno di prigione passato a Bollate, invece che in un altro carcere, la recidiva si riduce di 10/15 punti percentuali.
Per i dettagli rimando alla lettura del paper di Terlizzese e Mastrobuoni (allegato). I quali dimostrano scientificamente che anche solo condizioni di vita dignitose, in un contesto aperto, operoso, responsabilizzante, sono efficaci a ridurre la recidiva. E queste condizioni sono certamente realizzabili dalla politica carceraria (non certo, o non solo, costruendo nuove carceri se non cambia la cultura e la gestione della pena, che fra l’altro si rispecchiano anche nell’architettura penitenziaria).
Dunque, fare quello che ci dice la Costituzione ha anche un ritorno economico e sociale.
E tanto basterebbe per dire la verità all’opinione pubblica, smettendo di ingannarla con i soliti stereotipi e luoghi comuni sulla sicurezza e sul carcere. Tanto basterebbe, insomma, a un’assunzione di responsabilità politica rispetto all’attuazione del dettato costituzionale.
Piero Calamandrei diceva: «Le formule costituzionali rimangono vive finché vi scorre dentro, come il sangue nelle vene, la forza politica che le alimenta; se questa viene meno, si atrofizzano e muoiono di sclerosi».
Forse è questa la vera sfida politica del futuro: non far atrofizzare i principi costituzionali, fino a farli morire di sclerosi, ma vivificarli con la forza politica che li alimenta, o dovrebbe alimentarli.
Donatella Stasio