1. Ci vuole personalità: due autori – due avvocati – si caricano sulle spalle un titolo impegnativo (L’avvocato nel futuro) e spendono le prime tre pagine della loro fatica a descrivere la quotidianità del logografo ateniese, forse il protogenitore della professione forense. E spendono le successive a tratteggiare un agile affresco che registra le evoluzioni che la figura dell’ad-vocatus ha vissuto nel corso dei secoli. Riecheggiano Cicerone, Ulpiano, i glossatori medioevali e – ovviamente – i domenicani e i tribunali dell’inquisizione. Si attraversa il Rinascimento e l’Illuminismo, per poi tuffarsi nello stato moderno, fino a giungere alle tenebre dei regimi autoritari.
Il lettore richiude il libro. Si chiede cosa c’entri il futuro con tutto questo. Ricontrolla la quarta di copertina. Ricontrolla nuovamente il titolo. Cerca di capire se ha comprato il libro sbagliato o se ci sia qualche errore nella sua versione a stampa.
Ma no. Nessun errore. È proprio dal logografo ateniese che si deve partire. Dai viottoli dell’Acropoli ateniese, dal braciere che arde, dalla toga di lana, dalla preparazione del discorso confezionato perché il cliente possa persuadere la giuria popolare del Tribunale adiacente al Santuario di Apollo.
È necessario – e gli autori lo sanno – riattraversare (agilmente) i secoli per giungere fino ad oggi e guardare al domani. È necessario comprendere che il «“mestiere legale” cambia a seconda delle regole che lo adeguano alla cultura dominante ed è influenzato dagli assetti politici del momento».
È da questa chiave di lettura che si deve partire.
2. È dai riti che la cultura dominante produce che si deve ripartire. Dai riti processuali, dal ruolo che vi gioca la “parola”; attraverso i secoli «la parola si adatta nel processo alla qualità degli interlocutori (…) si inserisce in un contesto che subisce l’influenza esterna, e quindi, non può che essere condizionata dalla cultura del tempo, dal contesto che circonda la vita giudiziaria». Un eloquio – quello degli avvocati – che è inevitabilmente «immerso nella vita sociale in cui interviene (…). Si percepisce una direzione tendenzialmente costante verso la semplificazione che si proietta verso il futuro».
È dai luoghi in cui si celebra il mistero giudiziario che si deve partire: «la giustizia ha bisogno dei suoi templi» anche se – annotano gli autori - «nel passato, almeno fino all’XI secolo, non fu sempre così. Le piazze aperte diffondevano il significato di “fare giustizia” per tutti, distratti o interessati che fossero. La pedagogia del rito era la sua visibilità».
Gianaria e Mittone ci accompagnano nei palazzi di giustizia. Ne scrutano l’iconografia e l’architettura. Ne interrogano la funzione (per come si è evoluta): «questa è una delle contraddizioni insite nello spazio giuridico: proteggere l’imputato, all’interno del tempio e, nel contempo, schiacciarlo nella cerimonia che si può trasformare in condanna. Il Tribunale è una sorta di istituzione totale dedicata esclusivamente alla giustizia, un luogo che accoglie in unità di tempo e di spazio gli interpreti – e solo loro – i giudici gli avvocati, i cancellieri, gli imputati, le parti. Uno spazio separato dal mondo comune e proprio per questo individuabile e riconoscibile, al cui interno la comunità colloca le richieste di giustizia».
3. Partendo da questo affascinante affresco – che si appoggia su una bibliografia ricca e stimolante – gli autori ci conducono nella contemporaneità.
La mediatizzazione della giustizia (una sorta di splendore dei supplizi 2.0), l’incedere della tecnologia, l’affermarsi dell’homo oeconomicus mutano il quadro, i linguaggi e gli spazi: «il dilagare e il progredire delle tecnologie della comunicazione esproprieranno ulteriormente il Palazzo della giustizia della sua centralità. Si darà vita a una rete che porterà forse efficienza e che sarà priva dei segni fin qui conosciuti».
Il nuovo scenario non investe solo la funzione dell’avvocato sulla scena giudiziaria. Gianaria e Mittone lo sanno. Perché misurano l’evoluzione che «il mestiere legale» ha vissuto e sta vivendo.
Gianaria e Mittone ci portano negli studi legali con le scrivanie di mogano, le stampe alle pareti e le austere librerie con i volumi in brossura alle spalle. Tratteggiano la figura del dominus e l’autorevolezza che sapeva trasmettere ai praticanti (chiusi nelle loro stanzette e impegnati a sfogliare polverosi repertori) e ai clienti che, reverenti calpestavano preziosi tappeti. Lo fanno, credo, anche con un filo di nostalgia, perché lì sono cresciuti. Ma sanno che spariranno.
Gianaria e Mittone registrano i cambiamenti. Perché li hanno vissuti e perché li sanno vedere e descrivere. Ci accompagnano nella contemporaneità della professione legale, nella sua progressiva differenziazione, sotto la spinta di una crescente complessità sociale e tecnica: le law firms, le piccole sartorie legali, il proletariato forense.
Gianaria e Mittone capiscono – e ci dicono – che il mondo è cambiato. Anzi: che il mondo sta cambiando.
Gli autori non danno un giudizio, né rimpiangono il bel tempo andato, ma registrano laicamente i cambiamenti, con frasi e citazioni chirurgiche: «quando la realtà muta rapidamente è arduo immaginare gli scenari futuri»; «il futuro è già qui, solo che non è equamente distribuito».
4. E, inevitabilmente, gli autori si interrogano sull’impatto che le trasformazioni in atto avranno sulla professione legale: «la storia delle trasformazioni sociali, e dunque anche le narrazioni che riguardano pratiche aziendali o professionali, indica che le innovazioni portano normalmente a quella che si potrebbe definire la morte della geografia, intesa come rappresentazione della eterogeneità sociale e culturale». Resta arduo – osservano gli autori - «individuare le pratiche della professione che dovranno adeguarsi alle mutate richieste dell’utente e i nuovi assetti che, gradualmente, si realizzeranno». Ma è certo che cambiamenti e trasformazioni vi dovranno essere e che dovranno essere vissute con consapevolezza, «mediando tra passiva accettazione e cieca resistenza».
E ragionando ancora sul presente, gli autori si avventurano nella dialettica tra regolamentazione e liberalizzazione della professione forense, registrando il progressivo spostamento del mestiere legale dal mondo delle professioni liberali a quello degli erogatori di servizi. Con tutte le conseguenze che – a cascata – si possono determinare: le trasformazioni nel rapporto cliente-avvocato; le trasformazioni nel rapporto tra avvocati; le trasformazioni nel rapporto tra avvocati e altri professionisti/erogatori di servizi. In poche parole: le trasformazioni del modo di lavorare.
Trasformazioni che – ci avvertono gli autori – debbono essere osservate laicamente, ma senza timore: «dal momento che ci si adagia nella routine e che ciò che è noto rassicura, si è turbati dal nuovo anche quando si traduce in imprevisti inciampi». Il treno a vapore, l’automobile, la radio, il cinema sembravano invenzioni senza futuro. Eppure la storia ci dice che quelle invenzioni un futuro lo hanno avuto… «è il trionfo della tecnologia, che si afferma come lo strumento in grado di farci correre verso il futuro. Senza la tecnica – si osserva – non esistono esseri umani, ma solo animali svantaggiati».
5. Questa è la storia che siamo chiamati a vivere. Una storia che è figlia di trasformazioni sociali, istituzionali, economiche e, non ultimo, tecnologiche. E qui si viene al cospetto del futuro, alla rivoluzione del diritto digitale. Gianaria e Mittone si chiedono come le nuove tecnologie potranno trasformare il ruolo dell’avvocato; si domandano quale potrà essere il valore aggiunto che l’intelligenza artificiale potrà portare al mondo delle professioni legali e – più in generale – al mondo della giustizia.
Quale sarà la trasformazione che l’intelligenza artificiale imporrà al mondo della giustizia?
Gli autori ci conducono attraverso il futuro che si sta delineando, passando da scenari distopici (à la Minority Report) a tragici (Le eumenidi) e passano in rassegna i diversi legal tools che si vanno affermando. Ne indagano, con linguaggio attento e consapevole, il funzionamento, il livello di controllo umano che essi consentono, la funzione che essi esercitano in un futuro che è già qui.
Si tratta di un’evoluzione – lo si dice senza dare giudizi di valore al termine – che è forse inevitabile. Ma che, intuitivamente, pone questioni etiche di primaria importanza: quale controllo sui dati che alimentano l’algoritmo? Quale struttura ha l’algoritmo? Quali possibilità ha una parte di “verificare” la – esercitare il diritto al contraddittorio sulla – struttura dell’algoritmo? Quale controllo si ha sui sistemi che si alimentano con il machine learning? Quale concreta possibilità ha l’avvocato di determinare il successo del cliente (e non solo consigliare la scelta che ci si attende egli assuma)? Quale spazio di responsabilità per gli avvocati? Quale spazio di responsabilità per i giudici? [«si tratta del Tribunale elettronico, apparecchio con una facciata di sette metri, montato su una parete in fondo all’aula. Giudici, avvocati e cancellieri non occupano i posti consueti, ma siedono tra il pubblico. Sono semplici spettatori, perché la macchina non ha bisogno di loro, eccezionalmente sicura e infallibile»]. Quale il senso dei giudizi di impugnazione? [«il riconoscere che la verità giudiziaria è momentanea porta alla conseguenza che sia superabile con nuovi argomenti. Per questo la sentenza è appellabile (…). La sentenza automatizzata non consente invece di proporre nuove costruzioni processuali e potrà essere impugnabile solo dimostrando i vizi dei presupposti da cui muove, ad esempio quelli di programmazione»].
Tuttavia – gli autori lo ripetono allo sfinimento – l’enormità dei problemi non può far chiudere gli occhi a chi attraversa questa storia (avvocato o giudice che sia). Si tratta allora di imparare la nuova lingua, apprendere nuovi saperi, impadronirsi della tecnica: «è uno scenario ricco di incertezze, in bilico tra l’essere umano, centro insostituibile del processo e l’oggettivazione della tecnologia».
6. Si tratta allora di imparare a usare questi nuovi saperi seguendo sempre una stella polare: l’etica del servizio nei confronti dell’assistito; la tutela senza riserve delle ragioni del singolo mantenendo piena fedeltà alle ragioni dell’ordinamento.
Ma, soprattutto, l’avvocato (ma – direi – qualunque operatore di giustizia) «dovrà saper accompagnare, forte della propria esperienza, la solitudine di chi chiede giustizia tutelandolo con coraggio dalle opinioni correnti e dai pregiudizi che lo circondano». Per evitare che «i processi si traducano in parodia burocratica della realtà» e per evitare che si «trasformino in parodia tecnologica del reale».
Alla fine di questo percorso – in cui gli autori ci provocano continuamente con molte domande - con questo richiamo alla necessaria dimensione etica di qualunque professione, con questa enfatizzazione della vicinanza dell’operatore di giustizia a chi giustizia chiede, si torna volentieri a scorrere le prime pagine del libro: ove l’uomo che deve comparire davanti al Tribunale di Atene si rivolge al logografo; e ove il logografo, percorsi i viottoli dell’Acropoli, acceso il braciere e sillabata qualche formula augurale, comincia a vergare parole dalla parte dell’inquisito.
In una lingua che deve essere sempre, necessariamente e consapevolmente nuova.