“Molto intelligente […] di pronto intuito […] di vasta cultura generale e giuridica […] altissima è la considerazione di cui egli gode […] entusiastici apprezzamenti sull’opera svolta in condizioni quanto mai difficili e delicate da questo magistrato […] giudicato di eccezione […] un complesso di doti che non è facile riscontrare riunite nella stessa persona […] a una competenza tecnico-professionale fuori del comune [associa] attitudini organizzative, potenza di lavoro, energia di carattere, serenità d’indole, equilibrio di giudizio […] ha costituito, organizzato e diretto, con rara competenza giuridica, non comune energia, instancabile attività, costante equilibrio, la Sezione del Tribunale […]”.
Il dato statistico del lavoro svolto è “imponente”, avendo la Sezione definito in meno di un anno di attività ben 2655 procedimenti.
A quanto pare l’armamentario semantico c’è tutto, o quasi: la fuga verso la ridondanza, la liquidità del fatto rilevante, i “tòpoi” del buon magistrato.
Sono caratteristiche che le citazioni sopra riportate recano in sé in massima misura: la “cultura”, la “considerazione”, le difficili condizioni di lavoro (che difficilmente si negano, come le attenuanti generiche), le capacità organizzative commisurate a un dato numerico di “produttività”, le doti di equilibrio.
Bene, scopriamo il gioco.
Quelle citazioni non vengono da un parere esaminato una o due consiliature fa per una valutazione di professionalità, un’assegnazione o conferma di un posto semidirettivo o direttivo.
Sono tratte dal “rapporto personale” e dalla “relazione per proposta di avanzamento” di “Macis dott. Enrico”: rispettivamente datati 1936 e 1942 e che si possono leggere in “Il giudice e il suo prigioniero”, di Ruggero Giacomini (Castelvecchi, 2014, in particolare cap. XXVII).
Enrico Macis nel primo caso fruisce di molti anni di disponibilità al raccordo politico-giudiziario, per così dire.
Il suo ruolo nel processo a carico di Antonio Gramsci e dei dirigenti del PCI è stato esplorato dagli storici: Giacomini, da ultimo, sulla base di attenta analisi di documenti, dimostra come il giudice istruttore Macis, delegato dal Tribunale Speciale fascista, fu protagonista di due passaggi vessatori decisivi nei confronti di Gramsci.
Subito dopo l’emissione del mandato di cattura, il 14 gennaio 1927, fu lui a disporre, ignorando deliberatamente una richiesta di “traduzione straordinaria”, cioè diretta da Ustica (dove l’intellettuale comunista si trovava al confino) a Milano, la “traduzione ordinaria”, sottoponendo la malferma salute di Gramsci a diciannove giorni di terribile viaggio con soste in carceri di tutta Italia, senza abiti adatti, febbricitante e costantemente ammanettato; più due giorni di isolamento prima dell’interrogatorio.
A partire dal quale - rispondendo a esigenze dei suoi referenti politici - con veleni progressivi attese al compito di fiaccare il morale del prigioniero, facendogli falsamente intendere di essere stato abbandonato dai compagni, e anzi deliberatamente tradito.
Nel successivo rapporto per l’”avanzamento” Enrico Macis raccoglie invece i frutti del suo produttivo lavoro direttivo della Sezione di Lubiana del Tribunale speciale militare in Slovenia.
I giudizi che sopra abbiamo riportato si completano con la sottolineatura del suo ”efficace apporto alle operazioni militari di repressione della rivolta organizzata dal banditismo comunista partigiano della Slovenia”: in concreto decine di condanne a morte e a pene pesantissime per gli appartenenti alla resistenza locale ai nazifascisti.
Macis, in una sua relazione del 26 aprile 1943, con un significativo obiter dictum rispetto all’attività strettamente giudiziaria rileva: “nello scorso anno le autorità militari con apprezzato senso di opportunità avevano rastrellato la città ordinando l’internamento di tutti gli uomini dai 18 ai 35 anni”.
Le autorità militari apprezzarono a loro volta il sostegno che il magistrato forniva al metodo della deportazione di massa nei campi di concentramento.
Non così la Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra, che lo includerà tra i criminali da processare: le obiettive doti di cultura giuridica verranno utilmente impiegate da Enrico Macis per evitare l’estradizione e il processo in Jugoslavia.
E’ deliberatamente paradossale, certo, avere isolato dai “rapporti” redatti su un magistrato di regime e poi accusato di crimini di guerra, alcune espressioni.
Ma non è arbitrario rilevare come si tratti di espressioni che, fino al disvelamento, buona parte di noi potrebbe ricordare di avere trovato in altri “rapporti” di epoca ben più recente.
I pareri di vario tipo che aggiungono carta su carta ai fascicoli delle valutazioni di professionalità e alle richieste di posti direttivi e semidirettivi sono forse diventati, negli ultimi anni, più sobri e ancorati ai fatti. Ma alcune caratteristiche sono persistenti e - questo rileva - inevitabili.
La parola valutativa, se per tradizione o convenienza si muove entro limiti ristretti, tende a riprodursi perdendo di espressività effettiva.
Equilibrio, cultura giuridica, operosità … sono termini usuali e tranquillizzanti e destinati all’inespressività; anche se corrispondesse alla realtà, nessuno, di un candidato direttivo o semidirettivo, scriverebbe, ad esempio: “è una persona di istintiva simpatia, capace di intrattenere piacevolmente una compagnia di colleghi e amici e di istituire relazioni utili con levità”; oppure: “gira goffamente con abiti stazzonati, ha sempre un’aria sperduta e viene guardato da tutti come se fosse un po’ fesso”.
Giudizi, estranei al linguaggio immutabile dello scritto, che talora vengono recuperati, al di fuori di ogni controllo, nelle comunicazioni informali, off-record e senza verifica.
Se nella comunicazione scritta standard tutti sono più o meno eccellenti la discrezionalità reale e atecnica esplode, profittando di derive, nelle valutazioni e nelle comparazioni.
Nelle valutazioni si verifica il paradosso di quella che potremmo definire la “curva giudiziaria di Gauss”.
In generale la regola della distribuzione gaussiana comporta che nella biologia, come nella statistica sociologica, nella frequenza di eventi, e in molti altri campi dell’attività e del sapere umano, la distribuzione delle probabilità si concentri sui valori medi.
Nelle valutazioni dei magistrati l’effetto finale è lo stesso anche se l’informazione contenuta in documenti scritti in immutabile linguaggio è rastremata verso l’alto.
La maggior parte dei documenti che “parlano” dei magistrati sono collocati su un aggettivazione alta: ma se troppi sono “eccezionali”, “eccellenti” o “sopra la media”, la “media” si ridefinisce comunque in senso gaussiano.
Nelle valutazioni non comparative questo non produce effetti significativi: anzi, con simmetrico paradosso, consente di evidenziare in negativo casi singoli, in cui proprio non è possibile essere esornativi. Agisce in questo senso una convenzione inespressa.
Per le valutazioni comparative, trattandosi di una questione di linguaggio – queste considerazioni sono ovviamente minime, i semiologi avrebbero un gran lavoro da fare - le “griglie” di cui gli organi chiamati alle valutazioni si sono variamente dotati non sono suscettibili di superare il pre-giudizio di chi scrive, generalmente orientato al “non voglio dirne male” / “voglio dirne bene” che induce a usare le parole per gli altri elementi che notavamo nei giudizi su Macis: fuga verso la ridondanza, liquidità del fatto rilevante, “tòpoi” del buon magistrato.
L’immutabilità delle dinamiche linguistiche denuncia la fallacia dello stile tradizionale dei “rapporti”.
D’altro canto la fuga verso la presunta obiettività dei numeri statistici rischia di affondare nella vetustà: è da almeno venticinque anni che nelle realtà produttive occidentali di beni e servizi si è depotenziato il criterio del quanto si produce a favore del come: sotto il duplice profilo della buona organizzazione delle unità produttive e della qualità totale del prodotto.
Il che richiede verifiche dirette, diacroniche, multipolari e multifattoriali. Niente di particolarmente difficile, anche in campo giudiziario, laddove i decisori si dotassero di strumenti innovativi utili a rompere l’egemonia dell’immutabile linguaggio (e delle statistiche cieche e mute).
Nel novembre del 1987 Elena Paciotti tenne una lucida e incisiva relazione al convegno nazionale di Torino “La giustizia tra diritto e organizzazione” voluto da MD Piemonte e Valle d’Aosta.
In tema di scelta dei dirigenti, e in un contesto di preoccupazione per recenti scelte consiliari, censurava tra l’altro, il fatto che “non sono gli strumenti che mancano (le prove offerte in passato, i programmi organizzativi enunciati, la comprensione di problemi posti dall’ufficio da ricoprire) bensì la volontà”; dopo avere citato, sul medesimo tema, questo – ancora attuale – brano: “la valutazione del merito è specialmente difficile in questa carriera, dove sono necessarie non solo le doti di intelligenza e cultura, ma quelle della coscienza e del carattere, che non è punto facile di conoscere e apprezzare giustamente; ed è poi specialmente difficile, nel nostro ordinamento, per l’assenza di un esatto, preciso e continuo servizio di informazioni”.
Sono parole di Edmondo Piola Caselli, nella voce “Magistratura” del Digesto Italiano: 1903.
Torniamo dunque al punto: possono i decisori attuali ripercorrere i temi e i problemi che si ponevano più di trenta, più di settanta, più di cento anni fa?
Devono rimodellare l’esistente o romperne la continuità?