Il “ferragosto in carcere” è da anni un appuntamento fisso con l’informazione, eppure quest’estate è passato sotto silenzio. Neanche due colonne in cronaca, magari di taglio basso, per raccontare “la vita” al di là del muro di cinta. Oppure “la morte”. Dopo i primi sei mesi dell’anno, i suicidi in carcere erano già a quota 34, di cui 4 in una sola settimana, a fine luglio. Il 26 agosto, a Viterbo, se n’è aggiunto un altro e ben tre nella notte tra il 30 e il 31 del mese. In totale, a fine agosto si contavano 38 suicidi.
Il caldo asfissiante di quest’estate ha bruciato pezzi di Italia ma ha anche infuocato le patrie galere, moltiplicando i disagi – è un eufemismo – di chi le abita in condizioni ambientali fatiscenti, degradanti, insalubri. Inumane. Come quelle del Reparto G9 del carcere romano di Rebibbia, “teatro” di due suicidi per certi versi annunciati se è vero – com’è vero – che il Garante nazionale dei detenuti, dopo averlo visitato, ne aveva raccomandato «l’immediata chiusura» proprio per le «inaccettabili condizioni igienico-sanitarie» (umidità diffusa ovunque, acqua dai soffitti, ambienti sporchi, vetri rotti nei corridoi, riscaldamento non funzionante, etc). Un’evidente violazione di quanto stabilisce l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Ma al carcere “fuori-legge” ormai abbiamo fatto il callo e non fa più notizia...
«È stata l’estate della perdita della speranza», ha sostenuto qualche settimana fa Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, nonché responsabile dell’insostituibile rivista Ristretti Orizzonti. La speranza di rompere l’immobilismo, nata con le sentenze della Corte di Strasburgo sul sovraffollamento; alimentata, via via, dalle misure legislative per tamponare quell’emergenza; rilanciata dalla più volte dichiarata volontà politica di un cambiamento strutturale. Che, in fondo, dovrebbe semplicemente riportarci all’antico, ovvero alla Costituzione e alle riforme susseguitesi dagli anni ‘70 al 2000; riforme all’avanguardia ma rimaste sempre sulla carta, come all’estero non mancano di farci notare...
La speranza degli Stati generali, che – nonostante l’assenza e il silenzio assordante dell’allora premier Matteo Renzi – avevano acceso i riflettori su una diversa idea di pena e di sicurezza, resa meno utopistica dalla successiva approvazione della riforma della giustizia penale, che ha recepito i contenuti di quell’esperienza e la cultura sottostante. Un ulteriore segnale di speranza, dunque, non solo di recuperare lo spirito e la lettera delle riforme rimaste sulla carta ma anche di aprire la strada alle “alternative al carcere”, la vera sfida sulla sicurezza collettiva.
E infine, la speranza che la cultura di questo Paese – a cominciare da quella politica e penitenziaria – potesse finalmente assorbire il senso profondo del dettato costituzionale, i suoi valori fondanti, e far camminare le riforme, rompendo, appunto, il tradizionale immobilismo carcerario...
Di questa “rupture” si è fatto interprete il Ministro della giustizia Andrea Orlando, in prima linea contro l’immobilismo, anche quello imperante nel Governo di cui fa parte. Tant’è che a luglio ha messo le mani avanti annunciando che la delega sull’ordinamento penitenziario sarebbe stata attuata, e «subito»; addirittura «entro agosto». A tal fine ha nominato tre Commissioni ministeriali incaricate di elaborare gli schemi di decreti legislativi, ai quali il Governo dovrà dare il via libera politico, seguito poi dal parere (obbligatorio ma non vincolante) del Garante nazionale dei detenuti e del Parlamento.
Orlando ha fretta. E ha messo fretta al presidente-coordinatore delle commissioni Glauco Giostra. Il Ministro sa bene che più si va a ridosso delle elezioni e più è a rischio l’attuazione della riforma – che introduce la giustizia riparativa, alza a 4 anni il limite di pena che impone la sospensione dell’esecuzione, semplifica le procedure davanti al magistrato di sorveglianza, facilita il ricorso alle misure alternative, esclude automatismi ma anche preclusioni nella concessione dei benefici, incrementa il lavoro in carcere e fuori, introduce tutele per le donne recluse e per le detenute madri, riconosce il diritto all’affettività, favorisce l’integrazione dei detenuti stranieri, prevede la “sorveglianza dinamica”, modifica il sistema delle pene accessorie per favorire il reinserimento sociale del detenuto, ripensa l’architettura penitenziaria.
Soffia, infatti, un pericoloso venticello populista, tanto che persino il Capo della polizia Franco Gabrielli, in un’intervista al Corriere della Sera, ha auspicato che «i temi della sicurezza, sempre più spesso legati al problema dell’immigrazione, non diventino argomenti da campagna elettorale per alimentare le divisioni»; perché se diventeranno «terreno di scontro politico – ha osservato – sarà un danno per il Paese».
Proprio per evitare scontri politici, l’idea di Orlando è di anticipare quanto meno i capitoli della riforma ritenuti più “scabrosi” (dal punto di vista dei consensi elettorali), come l’affettività, i benefici, la giustizia riparativa, lasciando quelli “più semplici” a ridosso delle elezioni.
Il problema è che la delega scade l’anno prossimo. Sulla carta, quindi, non c’è fretta. Governo e maggioranza non hanno infatti voluto ridurre da un anno a tre mesi il termine per l’attuazione, com’è stato fatto, invece, per la delega sulle intercettazioni. Segno di una diversa sensibilità e volontà politica.
Perciò, è comprensibile la preoccupazione che la riforma penitenziaria non arrivi tutta intera al traguardo. E ancor più comprensibile è la preoccupazione che, una volta approvata, resti anch’essa sulla carta, secondo “la migliore tradizione” italiana sul carcere, all’insegna, appunto, dell’immobilismo.
La storia non offre spunti di ottimismo.
Emblematico quanto accadde nel 2000, Governo di centrosinistra, Ministro della giustizia Piero Fassino. A settembre di quell’anno la Commissione ministeriale presieduta dal professor Carlo Federico Grosso consegnò al Guardasigilli il progetto di riforma della parte generale del Codice penale: 150 articoli ispirati fortemente al principio costituzionale della funzione rieducativa della pena, con sanzioni diverse da quella del carcere e, soprattutto, con l’abolizione dell’ergastolo, sostituito da una «reclusione speciale» da 25 a 30 anni ritenuta persino «più afflittiva» dai proponenti ma definita «delirante» da Alleanza nazionale (la destra dell’epoca) e bocciata da molti magistrati, in particolare dell’antimafia.
Una riforma epocale, le cui premesse risalivano al 1991 con Giuliano Vassalli e che avrebbe dovuto essere accompagnata, o seguita immediatamente, da una riforma dell’ordinamento penitenziario.
Non se ne fece nulla. La riforma fu seppellita dalle polemiche tant’è che non venne neanche presentata nella pur annunciata conferenza stampa, nella quale avrebbe dovuto essere illustrata anche la parte speciale del progetto del nuovo Codice penale.
Il Governo fece marcia indietro perché incombevano le elezioni e – come sempre – imperversava il tema della sicurezza. L’abolizione dell’ergastolo era troppo impopolare per assumersene la paternità. Anche solo per proporla a futura memoria...
Quella vicenda per certi versi fa il paio con quanto accaduto, più di recente, con la riforma sulle pene alternative al carcere (reclusione e arresto domiciliare) che il giudice avrebbe potuto applicare direttamente al momento della condanna per reati oggi puniti con il carcere fino a 5 anni. Una delega che il Governo Renzi ha fatto scadere a gennaio 2015, in piena emergenza sovraffollamento carcerario.
La delega era contenuta nella legge n.67/2014, voluta dall’ex Ministro della giustizia Paola Severino, approvata dal Parlamento il 2 aprile del 2014 ed entrata in vigore il 17 maggio di quell’anno. Il Governo Renzi la portò persino a Strasburgo come ulteriore prova tangibile della volontà politica di eliminare in modo strutturale il sovraffollamento, imboccando anche la strada della decarcerizzazione. Alle parole, però, non seguirono i fatti: i principi della delega dovevano essere attuati entro otto mesi ma Palazzo Chigi lasciò scadere quel termine, sebbene il testo del decreto legislativo (10 articoli frutto di mesi di lavoro della Commissione presieduta dal professor Francesco Palazzo) fosse stato consegnato da Orlando con un mese di anticipo. Motivo della marcia indietro? «Valutazioni di opportunità politica», risposero, escludendo che si trattasse di un ripensamento e assicurando, anzi, che la delega sarebbe stata recuperata di lì a poco. Non è accaduto nulla del genere.
Il Governo Renzi – peraltro spaccato al suo interno – cedette alle polemiche di Lega e Movimento 5 Stelle, che da sempre cavalcano il carcere come unica ricetta per garantire la sicurezza, con buona pace della realtà documentata da studi statistici, nazionali e internazionali.
Secondo calcoli effettuati all’epoca in via Arenula, con l’introduzione delle pene alternative la popolazione carceraria sarebbe diminuita di 14.054 unità, per cui i detenuti (in quel momento a quota 53.600) sarebbero scesi addirittura al di sotto della capienza effettiva delle prigioni, all’epoca di 45.135 posti. E senza conseguenze negative sulla sicurezza collettiva, poiché i destinatari delle nuove norme (per lo più detenuti con 2 o 3 anni residui da scontare) sarebbero transitati dal carcere ai domiciliari, senza tornare, quindi, in libertà.
Ma l’attuazione della delega avrebbe avuto un peso ancora più significativo sul piano politico e culturale perché sarebbe stata il segnale concreto di un’inversione di tendenza della politica del diritto penale, supportata da una diversa cultura della pena.
Ancora una volta, invece, si è ceduto al populismo. Non solo la delega non è stata attuata ma la legislatura in corso è stata anche un trionfo di aumenti di galera dispensati per reati vecchi e nuovi come panacea contro l’illegalità.
Tra l’altro, la popolazione carceraria sta tornando a livelli pre-Strasburgo. Il 31 agosto si contavano 57.411 detenuti, a fronte di 50.552 posti disponibili, anche se 4.731 non lo sono ancora effettivamente. Nel frattempo, l’Amministrazione penitenziaria non ha approfittato della riduzione del sovraffollamento per cambiare quello che, anche a bocce ferme, già avrebbe potuto cambiare, a cominciare dalla salubrità dell’ambiente carcerario.
D’altra parte, l’immobilismo riflette la cultura italiana incentrata tutta sulle (spesso presunte) emergenze e incapace di visioni politiche di largo respiro, azioni coerenti e relative responsabilità. Quindi, di cambiamenti profondi.
Nel 2008 ebbi la fortuna di incontrare e intervistare Ruth Bader Ginsburg, giudice della Corte suprema americana, la «paladina delle libertà civili», la donna che con il suo voto ha contribuito a rovesciare più di un verdetto sulla pena di morte, decretandone, fra l’altro, l’incostituzionalità nei confronti dei minori. Le sentenze della Corte suprema hanno segnato un progressivo avvicinamento all’abolizione della pena capitale ma quando chiesi alla Ginsburg se quello sarebbe stato l’inevitabile approdo, lei mi rispose così: «Il diritto penale è materia statale e non federale e la pena di morte esiste in 38 Stati su 50. Se io fossi regina, non esisterebbe. Ma il punto è: chi deve decidere sulla sua abolizione? Bisogna farlo a livello statale o federale? E, se a livello federale, chi deve decidere? Il Governo? La Corte? Il Congresso? Oppure occorre un referendum popolare? Quando parlo con i colleghi europei che si sentono superiori perché non hanno la pena di morte, faccio notare che se avessero fatto un referendum quando hanno deciso di abolirla, probabilmente l’esito sarebbe stato negativo; se lo facessero oggi che la pena di morte è vietata, forse il divieto sarebbe confermato. Ripeto: il problema è stabilire chi decide. È vero che l’America è un Paese democratico, ma ci sono temi che non possono essere lasciati alla gente e richiedono un livello diverso di decisione».
Ecco, il punto è proprio questo: ci sono temi che non possono essere lasciati alla gente ma richiedono un livello diverso di decisione. E di assunzione di responsabilità.
Donatella Stasio