Un commento, anche breve, di un provvedimento giurisdizionale dovrebbe sempre iniziare dando conto del percorso logico che sta alla base della motivazione della decisione.
Dovendo cimentarsi con l’ordinanza n. 20672, depositata il 31 agosto 2017, di rimessione alle Sezioni unite da parte della sesta sezione della Cassazione, il compito è assai arduo, non risultando a chi scrive perfettamente comprensibile il motivo della rimessione.
Dopo aver premesso che il ricorso potrebbe essere dichiarato immediatamente inammissibile sia per carenza di procura speciale, sia per tardività, la Corte ritiene, però, di dover necessariamente decidere l’eccezione del ricorrente in merito alla ritualità della notifica di uno dei controricorsi, «siccome avvenuta con allegazione al messaggio di PEC di tre file in formato “.pdf” e non “.p7m” e quindi da ritenersi privi di firma digitale».
Per usare le parole dell’ordinanza, la questione di massima importanza avrebbe «ad oggetto gli effetti della violazione delle disposizioni tecniche specifiche sulla forma degli “atti del processo in forma di documento informatico” (o, descrittivamente, nativi informatici) da notificare – riferendosi i precedenti di legittimità noti a fattispecie di atti in formato analogico e poi trasformati e notificati in via telematica, ovvero ad altre più articolate, ma non esattamente negli specifici termini di cui appresso – e, in particolare, sull’estensione (che indica o descrive il tipo) dei file in cui essi si articolano, ove siano indispensabili per valutare la loro autenticità: sicché va stabilito se esse prevedano o meno una nullità di forma e, quindi, se questa sia poi da qualificarsi indispensabile ai sensi dell’art. 156, comma secondo, cod. proc. civ., rendendosi – in caso di risposta affermativa al quesito – necessario poi definire l’ambito ed i limiti dell’applicabilità alla fattispecie del principio generale di sanatoria degli atti nulli in caso di raggiungimento dello scopo previsto dall’art. 156, comma terzo, cod. proc. civ.».
Sembrerebbe, quindi, che la Corte ritenga fondata l’eccezione e dunque ritenga che un documento informatico (file), per essere considerato validamente firmato digitalmente, debba necessariamente avere formato “.p7m”.
La stessa Corte, però, richiama la normativa regolamentare vigente, che distingue firma PAdES da firma CAdES, ammettendole entrambe, così – a mio avviso – contraddicendosi.
Cerchiamo di fare un minimo di chiarezza.
Il provvedimento del Ministero della giustizia del 16 aprile 2014, come previsto dall’art. 34 del dm n. 44 del 21 febbraio 2011, reca le specifiche tecniche del Processo civile telematico (PCT).
All’art. 12 (Formato dell’atto del processo in forma di documento informatico) è stabilito il formato da utilizzare per la redazione degli atti processuali informatici.
Il primo comma disciplina i requisiti che «l’atto del processo in forma di documento informatico» deve avere che sono:
a. essere in formato “.pdf”;
b. essere privo di elementi attivi: non sono ammessi, cioè, macro o campi che possano pregiudicare la sicurezza (es. veicolare virus) e alterare valori quando il file viene aperto. Sono ammesse le immagini all’interno del testo, i collegamenti (link) a documenti allegati al deposito e gli indirizzi e-mail;
c. essere ottenuto da una trasformazione di un documento testuale, senza restrizioni per le operazioni di selezione e copia di parti: non è pertanto ammessa la scansione di immagini;
d. essere sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata esterna secondo la struttura riportata ai commi seguenti;
e. essere corredato da un file “.xml” (DatiAtto.xml) che contiene le informazioni della nota di iscrizione a ruolo.
L’art. 13, poi, disciplina i «documenti informatici allegati», stabilendo che devono anch’essi essere privi di elementi attivi (tra cui macro e campi variabili) e sono consentiti nei formati: “.pdf”, “.rtf” (testo formattato), “.txt” (testo normale), “.jpg” (immagine), “.gif” (immagine), “.tiff” (immagine da scansione), “.xml”, “.eml” (busta e-mail), “.msg” (busta e-mail), nonché nei formati compressi “.zip”, “.rar” e “.arj”.
Nel secondo comma dell’art. 12 è, poi, disciplinata la struttura della firma digitale [di cui all’art. 12, comma 1, punto d)] ed è previsto che gli utenti (esterni, cioè avvocati ed ausiliari del giudice, o interni, cioè magistrati e cancellieri) possano utilizzare per la sottoscrizione digitale dei documenti informatici lo standard PAdES ovvero lo standard CAdES.
La firma digitale in formato PAdES è un documento informatico (file) con estensione “.pdf”, leggibile con i comuni programmi a ciò deputati (ad es. Acrobat Reader o PDF-Xchange) e installati praticamente su tutti i computer, tablet o smartphone.
Questa tipologia di firma, nota come “firma PDF”, prevede diverse modalità per l’apposizione della firma, a seconda che il documento sia stato predisposto o meno ad accogliere le firme previste ed eventuali ulteriori informazioni, rende possibile posizionare graficamente la firma in una particolare posizione del documento informatico, rende il documento più facilmente accessibile, ma consente di firmare solo documenti di tipo PDF.
Il formato PAdES è quello attualmente utilizzato dalla consolle del magistrato per firmare digitalmente i provvedimenti del giudice e rende possibile, ad es., l’apposizione dei cd. “timbri” sulle istanze provenienti dai soggetti abilitati esterni (es. «visto, si autorizza» o simili, che compaiono in blu sui provvedimenti, in alto a sinistra).
La busta CAdES è un file con estensione “.p7m”, il cui contenuto è visualizzabile solo attraverso idonei software in grado di “sbustare” il documento sottoscritto (es. “Firma OK Gold” o “Dike”), programmi che vengono forniti gratuitamente insieme ai dispositivi di firma digitale.
Tale formato permette di firmare qualsiasi tipo di file (e quindi anche gli allegati, che, peraltro, di norma, “possono” essere sottoscritti con firma digitale ma non “debbono”), ma presenta lo svantaggio di non consentire di visualizzare il documento oggetto della sottoscrizione in modo immediato, necessitando dell’installazione di un’applicazione specifica.
L’art. 19-bis, poi, disciplina le notificazioni per via telematica eseguite dagli avvocati, statuendo che:
«1. Qualora l’atto da notificarsi sia un documento originale informatico, esso deve essere in formato PDF e ottenuto da una trasformazione di un documento testuale, senza restrizioni per le operazioni di selezione e copia di parti; non è ammessa la scansione di immagini. Il documento informatico così ottenuto è allegato al messaggio di posta elettronica certificata.
2. Nei casi diversi dal comma 1, i documenti informatici o copie informatiche, anche per immagine, di documenti analogici, allegati al messaggio di posta elettronica certificata, sono privi di elementi attivi, tra cui macro e campi variabili, e sono consentiti in formato PDF.
[…]
4. Qualora il documento informatico, di cui ai commi precedenti, sia sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata, si applica quanto previsto all’articolo 12, comma 2».
La semplice lettura della norma (onestamente, più chiara rispetto a molte altre) rende evidente che sia per la notifica di un documento nativo informatico (comma 1), sia per la notifica di atti scansionati (comma 2), qualora il documento sia sottoscritto digitalmente, è valido sia lo standard PAdES sia quello CAdES, giusta il rinvio all’art. 12, comma 2.
Quanto, poi, alla procura, nel sistema del Processo civile telematico, la stessa può essere rilasciata in due diverse modalità.
Qualora il mandante sia dotato di firma digitale, è possibile creare un documento in formato nativo digitale (con un programma di videoscrittura), convertirlo in un file “.pdf” e apporre su tale documento informatico la firma digitale del mandante e successivamente dell’avvocato. L’art. 12, comma 2 prevede espressamente la possibilità di apporre due o più firme digitali sullo stesso documento informatico.
Nel caso di firma PAdES, si formeranno diverse successive versioni del file “.pdf”, mentre nel caso di firma CAdES si creerà una “busta” digitale con dentro documento informatico e firma del mandante, “busta” che, a sua volta, sarà “imbustata” in una “busta” più grande contenente la prima “busta” e la firma dell’avvocato per autentica.
Entrambi i metodi sono perfettamente validi.
Se, poi, come avviene nella maggior parte dei casi, il mandante non è dotato di firma digitale, egli provvederà a sottoscrivere una procura cartacea (“a penna”, nel modo tradizionale), l’avvocato a sua volta apporrà la propria sottoscrizione per autentica di pugno, dopodiché la procura sarà scansionata (e trasformata, quindi, in una copia informatica di documento analogico) e sottoscritta dall’avvocato con firma digitale, per renderla conforme al dettato dell’art. 83 cpc («…Se la procura alle liti è stata conferita su supporto cartaceo, il difensore che si costituisce attraverso strumenti telematici ne trasmette la copia informatica autenticata con firma digitale, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e trasmessi in via telematica»).
È evidente che, anche in questo caso, è indifferente che la firma venga apposta con standard PAdES o CAdES, con l’unica precisazione che, come sopra ricordato, la firma PAdES non può essere apposta se non su un file di formato “.pdf”: sarà, pertanto, necessario che l’avvocato, se vuole firmare PAdES, trasformi il file immagine derivante dalla scansione in un file “.pdf”.
Le operazioni che ho cercato di spiegare analiticamente, peraltro, sono eseguite automaticamente dalla pressoché totalità dei programmi che gestiscono la trasmissione degli atti telematici degli avvocati, tanto che è, nei fatti, impossibile la trasmissione di un atto telematico che non rispetti la normativa regolamentare.
Si comprende, allora, che lo scrupolo della sesta sezione appare del tutto ingiustificato, in quanto la validità di entrambi gli standard (PAdES e CAdES) emerge piuttosto chiaramente dalle specifiche tecniche e un file con estensione “.pdf” (e non “.p7m”) può ben contenere una o più (validissime) firme digitali (PAdES).
L’esistenza di una valida firma digitale deve essere verificata mediante apposito software (che coincide, di solito, con il programma che serve ad aprire e leggere il file), non potendo certo essere dedotta dall’estensione del file (“.pdf” o “.p7m”).
Ed è proprio per questo motivo – cioè per consentire alle altre parti e al giudice di verificare l’effettiva integrità del file e della firma digitale – che l’art. 19-bis, comma 5 delle specifiche tecniche prescrive che, nel sistema PCT, la trasmissione in via telematica all’ufficio giudiziario delle ricevute delle notifiche a mezzo PEC (art. 3-bis, comma 3, legge 21 gennaio 1994, n. 53), nonché della copia dell’atto notificato a mezzo PEC, è effettuata inserendo l’atto notificato all’interno della busta telematica (costituita da un file di estensione “.eml” o “.msg”) e, come allegati, la ricevuta di accettazione e la ricevuta di avvenuta consegna relativa ad ogni destinatario della notificazione.
Di ben altra importanza e rilevanza, invece, potrebbe essere la questione – non approfondita dall’ordinanza in commento – che attiene alle conseguenze della violazione delle regole tecniche (l’esempio più classico è il deposito di un atto introduttivo in formato “.pdf” immagine e non nativo informatico), ovvero delle norme che sanciscono l’obbligatorietà del deposito telematico degli atti endoprocessuali, ma che, nel caso all’esame della Cassazione, è superata dall’assorbente considerazione della validità della notificazione.
Le violazioni attinenti alla forma dell’atto processuale informatico rendono nullo l’atto? E in caso positivo, tale nullità è suscettibile di sanatoria? In che limiti? O non si deve addirittura parlare di inesistenza (l’ordinanza adombra la possibilità che tali violazioni attengano «all’intrinseca esistenza dell’atto»)?
L’argomento, come ben si comprende, richiederebbe un approfondimento che esula dal tema trattato dal Supremo Collegio e pertanto mi limito a rinviare ad alcune precedenti considerazioni svolte su questa rivista[1], auspicando nuovamente che il legislatore riprenda gli spunti positivi in parte contenuti nell’ultimo progetto di riforma del codice di rito e finalmente riesca ad armonizzare la legge processuale con la normativa in tema di PCT.